Architetti, designer, curatori indipendenti: questa terna di titoli identifica – in estrema sintesi – i territori dell’ambizione professionale di Barbara Brondi e Marco Rainò, della loro applicazione creativa.
Insieme alimentano i fuochi che condividono da sempre: l’interesse assoluto per l’esplorazione, per la sperimentazione; l’attitudine al dialogo e alla collaborazione con terzi, da cui far nascere nuove urgenze. E poi l’attenzione per l’arte e lo studio costante attraverso le letture: un incrocio di fiction e non-fiction, narrazioni su argomenti di confine tra discipline esposte all’influsso dell’esoterismo, l’ossessione appassionata per la poesia (quelle di Marco, ndr); le ricerche sulla cognizione e percezione dell’uomo in relazione all’ambiente, approfondite in parallelo con gli antichi testi di filosofia orientale, per analizzare possibili metodi di armonizzazione del modo esterno con quello interiore (quelle di Barbara, ndr).
Su questi presupposti hanno fondato la loro esperienza di lavoro congiunto: BRH+, lo studio di progettazione ad ampio spettro d’azione con sede a Torino – che per alcuni anni ha avuto anche una propria emanazione parallela a Berlino – e poi il progetto IN Residence. Li abbiamo intervistati per un’intervista a tutto tondo sul design tra presente e futuro.
Qual è la vostra personale idea di design? Come lo definireste alla luce della vostra visione critica?
«La trans-disciplina del progetto è un’esperienza indissociabile da quella del vivere: la sua pervasività è pressoché totale, la sua influenza importante, perché attraverso l’integrazione di prospettive diverse ci si esercita a risolvere creativamente problemi complessi. Il design è uno strumento di straordinaria potenza – a qualsiasi scala – nelle attività di trasformazione degli spazi, dei processi, delle azioni; attraverso la sua pratica si sonda il dubbio, per poi tentare di suggerire proposte – quasi sempre temporanee – con l’intenzione di aumentare il tasso di qualità degli ambienti naturali e artificiali in cui viviamo.
Per noi l’idea del progettare coincide con quella di un atto di responsabilità, non con quella di un esercizio di stile; per noi il design è un dispositivo di costruzione di conoscenza e di relazioni, il cui obiettivo è quello di veicolare senso e contenuto».
Quanto e perché il design è necessario oggi e che tipo di esiti dovrebbe produrre?
«Le ragioni sono da rintracciare, per noi, nei motivi di cui parlavamo rispondendo alla domanda precedente. Oggi in particolare, in uno scenario globale di delicata, oramai costante transizione tra diversi scenari del vivere associato, il design non lavora tanto e solo nella prospettiva di produrre beni materiali utili, ma anche – e soprattutto – per generare immaterialità consistenti: idee, principi, valori. Per generare – e aggiornare – formule di consapevolezza, per produrre simboli di conoscenza».
Come e quando è nata la vostra idea di IN Residence Design Dialogues?
«Il progetto IN Residence nasce nel 2008, anno in cui Torino è nominata prima World Design Capital. Un ricercatore, imprenditore e collezionista d’arte insieme alla moglie artista, ci domandano in quell’occasione di formulare un’idea per un evento design-oriented da ospitare in un edificio moderno torinese di loro proprietà, un meraviglioso residence razional-brutalista. Proponiamo, invece di un singolo incontro pubblico, un format culturale dedicato al design, un progetto didattico-formativo che ha l’ambizione di ripetersi a cadenza annuale: il piano comprende l’idea di un workshop, un laboratorio di indagine tematica tenuto da giovani talenti internazionali e frequentato da ancor più giovani partecipanti, testimoniato da una pubblicazione editoriale. Si parla di design thinking, di un modo di fare design che guarda alla produzione di stimoli di riflessione critica, che indaga le relazioni che ci legano agli oggetti e che producono la nostra identità.
Il format è eminentemente teorico, sollecita un approccio visionario al progetto, pretende un continuo dialogo e confronto tra i partecipanti: il suo impatto è molto forte.
Dopo l’episodio iniziale, l’idea originaria di IN Residence si conferma e consolida nel tempo: ai laboratori e al progetto editoriale che li illustra (la collana Diaries-Design Dialogues, che comprende 10 volumi, tutti pubblicati da Corraini Edizioni) si sommano una serie di mostre collettive, di appuntamenti pubblici di confronto e un nuovo progetto di residenze per designer accompagnato da una famiglia di monografie editoriali (pubblicata da NERO Editions)».
Qual è l’obiettivo che vi prefiggete con IN Residence e con quale leva lo conseguite?
«IN Residence, sin dal primo giorno, lavora nel dominio della macro disciplina design con i medesimi obiettivi dichiarati: costruire e condividere conoscenza attraverso un articolato programma didattico-formativo, oltre a sostenere e promuovere il talento creativo di giovani interpreti del design contemporaneo. Per noi, ideatori e curatori del progetto, IN Residence è un impegno continuativo sui fronti del talent scouting, dell’ideazione e della programmazione di ciascun tassello del format complessivo. Le leve sono quelle ricordate poco fa, con numeri che crescono nel tempo: dal 2008 a oggi IN Residence ha ospitato come protagonisti delle sue diverse attività circa 100 designer emergenti, provenienti da 26 nazioni; più di 500 sono i partecipanti ai laboratori tematici; 9 le mostre – tra collettive e personali; 19 i libri pubblicati. IN Residence è un’associazione culturale no-profit: il progetto si sviluppa nel tempo grazie al sostegno determinante della committenza iniziale, sempre al nostro fianco in tutti questi anni; e poi grazie al contributo prezioso della Fondazione Compagnia di San Paolo».
In che senso e in che modo il design thinking può essere uno strumento privilegiato di trasformazione sociale e culturale?
«Il buon design – quello denso di contenuti – è uno degli strumenti privilegiati per ottenere una trasformazione sociale positiva e responsabile, che non può essere raggiunta senza una positiva trasformazione culturale: è anche attraverso le attività di progetto che si possono – devono – stimolare le capacità di pensiero critico che aiutano ad affrontare problemi sempre più complessi riferiti alla società e all’ambiente in cui viviamo».
Qual è il format delle residenze facenti parte del progetto IN Residence e dove si svolgono?
«Il programma di residenze si svolge a Torino, anche considerando che negli anni i workshop facenti parte del format generale sono diventati itineranti. La residenza prevede la selezione da parte nostra di un tema di indagine e di due designer, che vengono ospitati per un periodo di soggiorno-studio al DUPARC Comtemporary Suites, il residence in cui tutto ha avuto origine; gli stimoli raccolti in questa fase sono poi sviluppati dai designer per generare due distinti progetti originali, manufatti che saranno esposti e commercializzati da alcune delle gallerie più prestigiose del settore, che provvedono alla produzione dei pezzi secondo un accordo di sinergia con IN Residence. L’intero processo si svolge, in genere, entro un anno solare dal periodo di soggiorno; entro questi termini è prevista anche la pubblicazione di due libri monografici distinti, a nostra firma, con distribuzione internazionale».
Perché la scelta ricorrente di designer molto giovani?
«Perché il talento si rivela, anche, in giovane età, non solo sedimentando le importanti esperienze di una carriera; ed è giusto, per noi, contribuire ad aprire con maggior forza il varco che questi autori si sono già creati per loro merito e competenza.
Nel caso dei workshop poi, la modesta differenza di età tra Designer-Tutor e partecipanti innesca modalità di relazione importanti, inattese, dando ai secondi un esempio e uno stimolo spesso mai provato in precedenza».
Quali designer hanno già partecipato e lavorando su quali temi?
«La prima residenza, intitolata Encoded Symbols, ha avuto come protagonisti il designer polacco Marcin Rusak e l’italiano Roberto Sironi; entrambi i loro lavori sono stati prodotti dalla prestigiosa Carwan Gallery di Atene, con la quale abbiamo collaborato in perfetta sinergia. La seconda, dedicata al tema Rooted Flows e in via di svolgimento, vede al lavoro il greco Kostas Lambridis e l’olandese Linde Freya Tangelder (il cui studio ha nome Destroyers/Builders)».
Su quali canali (Internet, social) è possibile seguire le vostre residenze?
«Attraverso la nostra piattaforma Web, costantemente aggiornata, in cui è possibile avere una panoramica generale delle attività del progetto sin dai suoi esordi: www.inresidence-design.com. E poi mediante i canali Instagram, Facebook e YouTube. Segnaliamo il progetto “nativo” per Instagram che abbiamo battezzato RADAR: si tratta di uno spazio visivo minimo, in cui presentiamo giovanissimi designer che riteniamo avere straordinarie potenzialità».
Qual è lo stato di salute del design italiano?
«Dal nostro osservatorio pensiamo sia buono. Ma il periodo storico e le esigenze che ne derivano reclamano qualche scossa significativa in più: il coraggio di tentare approcci meno conformismi, più visionari, forse tornando – aggiornandoli al domani, ben inteso – ai paradigmi radicali e dirompenti che da italiani abbiamo insegnato al mondo. Sarebbe anche utile non necessariamente un ricambio, ma una maggior relazione e collaborazione tra le diverse generazioni di designer all’opera».
Quali sono a vostro avviso le nuove frontiere del design?
«In questo momento storico va completamente riconsiderata la pratica della progettazione analizzando in maniera innovativa le tematiche dell’impatto dell’attività umana sull’ambiente, dell’esperienza e della relazione con gli oggetti e con i luoghi in cui viviamo. Il design deve diventare un veicolo di contenuti che portino a una maggiore consapevolezza delle proprietà immanenti – generate dalle risorse e dal lavoro impiegato – e del valore trascendente di relazione integrata con il tutto. Il manufatto progettato – di qualsiasi tipologia – deve avere un significato sottile che venga “colto” come unico e che entri in risonanza con chi sia pronto ad accoglierlo. Le nuove frontiere potrebbero, forse, essere espresse da un ossimoro che coniuga due polarità opposte. Se per un verso il design deve avere l’abilità di ricodificare le sue prassi in tempo reale, con una accelerazione “orizzontale” e una rapidità mai espressa prima, per l’altro siamo convinti che debba sempre di più legarsi a un processo di riflessione e di proposta che affonda radici “verticali” nei riti e miti dell’umano, che sedimenta segnali anche arcaici per confrontarsi con una dimensione fortemente spirituale».
Trovate che l’approccio del restorative design, quello che è stato il cuore del progetto “Broken Nature. Design Takes on Human Survival” (titolo della XXII Triennale di Milano dal 1° marzo al 1° settembre 2019), sia il futuro del design thinking contemporaneo?
«Nella tesi di Paola Antonelli – semplificando – la responsabilità della sopravvivenza della specie umana è affidata all’esercizio di un “design ricostituente”, attivato attraverso pratiche che favoriscano un cambiamento culturale, cercando di risanare il rapporto interrotto – o a rischio – tra la natura e l’essere umano.
Tra i progetti in mostra, molti riguardavano il tema di rettificare la rotta verso l’autodistruzione tramite un patto solido con la scienza; ma allo stesso tempo si suggerisce di ascoltare le profondità delle tradizioni locali, quelle sapienze di cui scrivevamo poco sopra. Come non concordare?».
Qual è il confine tra arte e design?
«Esiste, anche se il tema principale per noi non coincide con la segnalazione del confine – che pure è utile a determinare e riconoscere aree di identità omogenea – ma trovare i varchi negli steccati, le vie di connessione. Come cantava nel suo “Inno” Leonard Cohen: “C’è una crepa in ogni cosa; è da lì che entra la luce”».
Quali sono a vostro avviso i punti di forza e i punti di debolezza della formazione accademica italiana dei designer?
«Il panorama formativo è variegato: difficile dare un parere generalizzante. Semplificando: nei migliori esempi la forza risiede in formule di interazione e mutuo scambio tra sapere scientifico e umanistico, tra innovazione e tradizione; nella capacità di saper trasmettere un retaggio di sensibilità, conoscenze e abilità che sono proprie della nostra cultura, radicate nelle nostre comunità. La debolezza risiede nell’esatto contrario: rincorre modelli formativi non adeguati, non autentici, insegnare a elaborare stilemi inconsistenti invece di pensieri coerenti».
Un consiglio a un giovane designer all’inizio del suo percorso professionale?
«Considerare che gli esiti del processo di progetto non possano mai essere separati dalle “relazioni” – con le materie, i sistemi produttivi, la cultura dei luoghi e delle persone – e quindi studiare queste corrispondenze essendo in grado di farle emergere. Avere sempre presente che ciò che si progetta appartiene al futuro.
E poi: leggere e rileggere – a cadenze di tempo regolare, come per un’attività di studio rituale – le “Elegie duinesi” di Rainer Maria Rilke e la “Fenomenologia della percezione” di Maurice Merleau-Ponty».
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