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Moda, gioiello e Street Culture: l’arte iconoclasta di Gabriel Urist
Design
Un talento poliedrico quello di Gabriel Urist che, con le sue creazioni, ha trasformato la street culture in oro, platino e argento, attirando l’attenzione di personaggi come Virgil Abloh, Jay Z, Asap Rocky o Lebron James, tanto per citarne alcuni. Urist si è fatto conoscere nel mondo della gioielleria con i suoi lavori su metalli preziosi per creare gioielli di moda, collaborando con marchi come Nike, Supreme, Futura 2000 o Converse. Caratterizza il suo lavoro la straordinaria abilità nel combinare l’arte del gioiello con l’estetica della cultura pop contemporanea.
Con una carriera che abbraccia oltre un decennio di creazioni uniche e innovative, il suo stile si distingue per essere audace e iconoclasta. I suoi gioielli esprimono un’interessante fusione di tradizione e modernità, incorporando in pezzi raffinati e artigianali alcuni elementi pop come loghi e simboli riconoscibili. Le sue creazioni sono veri e propri oggetti quotidiani in opere d’arte portabili e iconiche.
Abbiamo incontrato l’artista a Milano in occasione della sua mostra Ethical Navigation Systems.
Com’è iniziata la tua carriera?
«Ho iniziato realizzando progetti per i miei amici, ritagliando le opere d’arte dei CD per inserirle in cornici di metallo grezzo. Così ho creato i miei primi pezzi».
Ma come hai iniziato davvero? Raccontaci il tuo percorso
«Ho frequentato una Scuola d’Arte nel 1996 a New York. C’era un programma sui metalli che mi piaceva molto, passavo tutto il tempo in laboratorio; ho mantenuto il mio stile e tutti i miei lavori hanno iniziato a diventare più raffinati. La lavorazione dei metalli è una tecnica complessa da gestire, ci vuole una vita per capirla. Ho lavorato in molte aziende e in negozi di gioielli, perché tutti mi dicevano che mi avrebbero insegnato più che a scuola, dal momento che ci sono centinaia di modi diversi per creare un pezzo. Così ho continuato a lavorare e a disegnare per grandi marchi. Ho lavorato per diversi scultori e artisti, ma ho sempre avuto il mio studio in parallelo per creare le mie cose, come piccoli giocatori di basket o sagome di Michael Jordan, e venderle nei negozi di scarpe. Poi è iniziato tutto: “Si può fare una Jordan?”, “Si può fare una Air Force One?”, “Una Vandal?”. Da Supreme erano impressionati dal fatto che potessi realizzare una scarpa del genere».
Come sviluppi le tue idee?
«Lavoro tramite foto, immagini e disegni di altre persone. A volte disegno, ma è un lavoro molto tecnico con un sacco di misure e calcoli».
Qual è il tuo materiale preferito?
«L’oro è il mio preferito per la sua versatilità. Ho realizzato diversi pezzi con Virgil Abloh per Off- White in oro».
Com’è stata la collaborazione con Virgil?
«Lui mi ha contattato tramite Instagram dicendomi che seguiva il mio lavoro fin dai primi tempi di internet. Così abbiamo cominciato a lavorare con il suo team e abbiamo deciso di creare questi pezzi di scarpe specifici. C’era molta libertà, molte idee, il brainstorming si è sviluppato come un dialogo di circa tre anni».
Ho anche letto che hai realizzato dei pezzi per Matthew Barney, un altro grande artista.
«È stato grazie al mio studio di Williamsburg. Barney era un mio vicino e aveva bisogno di una persona per produrre alcuni pezzi in argento per il suo film “Cremaster”. Il fatto è che a New York funziona così, si incontrano persone, ci si entusiasma. Se e quando si lavora con passione a qualcosa, le persone ti seguono e ti sostengono».
E com’è la situazione oggi?
«Non sono così legato a New York come lo ero una volta. Amo la città, per me sarà sempre la più vitale del mondo, ma ora sono davvero innamorato di Milano. Mi piace essere qui anziché a New York, ma sono anche entusiasta di tornare ogni tanto. Per un po’ ho pensato di essere un irresponsabile a lasciare New York, come se nel farlo rischiassi di perdermi qualcosa. Sono pieno di contraddizioni, perché mi piace molto stare in giro».
Ma anche Milano è piena di contraddizioni, come tutte le città.
«Milano mi ricorda tutto ciò che amo di New York e Los Angeles, perché una città ricca di creativi e tutti sono interessati all’industria, alle arti e alla cultura».
In questi ultimi lavori mescoli davvero culture diverse…
«Non si tratta di scegliere da che parte stare. Si tratta della Madre Terra e del pianeta, e di quanto siamo fortunati ad averne uno in cui vivere, nonostante tutti gli sforzi che facciamo per distruggerlo. Si tratta solamente del modo in cui ci inseriamo nel pianeta e di come ci trattiamo l’un l’altro. Non è una questione di confini, perché ognuno alla fine possiede i propri elementi. Ecco perché con queste opere ho sviluppato una libreria di simboli: partendo da quelli dei nativi americani, ci ho associato diverse parole e frasi ebraiche, dato che provo un amore particolare per la grafia della lingua ebraica, ossia l’alfabeto. Sto cercando di dar vita a una cultura popolare che sia mia, personale, a un nostro linguaggio basato su altre lingue».
È davvero bello questo concetto della collezione “Lost Tribe”
«Non è stato facile realizzarla, soprattutto lavorando con spazi così minuscoli. È stato complesso anche perché volevo che i pezzi fossero molto delicati, oltre che dorati».
Per questo motivo mi hai detto che non sei bravo a dipingere o a disegnare?
«So dipingere, ma solo oggetti, non so disegnare il volto di una persona. Ho dipinto il simbolo e poi l’ho ritagliato dal metallo; quindi, non si tratta di un disegno vero e proprio».
Qual è il punto chiave della tua carriera?
«Non credo ci sia un punto chiave, tutto è un’evoluzione. Ora voglio fare scarpe che si trasformino in animali e metterci delle ruote sul fondo, creare meno repliche e più pezzi originali. Voglio davvero che i gioielli abbiano uno sfondo, una storia. Credo che questo li renda più ricchi, più personali».
Quindi stai cercando di fondere maggiormente l’idea degli animali nella tua collezione?
«Perché no? Penso che ogni collezione di moda abbia un qualche tipo di stampa animale. Perché la stampa leopardata è considerata sexy? È interessante pensarci».
E cosa mi dici della tua mostra a Milano?
«Questa è stata la mia prima mostra d’arte, e ne faremo un’altra a New York e a Los Angeles, perché per me è importante mantenere questo ponte con gli Stati Uniti».
Quindi farai altre mostre.
«È un esercizio divertente, che mi aiuta a mettere tutto in ordine e a chiarire la mia visione».
Pensando alle tue scarpe, quanto tempo ci vuole per fare un pezzo?
«Il processo può cambiare ogni volta. Ho fatto molte scarpe, posso lavorare partendo da una già esistente e modificarla, ed è molto più veloce che crearne una nuova, quindi i processi sono davvero diversi. Si può anche comprare un modello 3D, stamparlo e creare il pezzo. Si può fare davvero qualsiasi cosa senza nemmeno toccare il pezzo in sé, ma è un processo che non trasmette la stessa vitalità di quando, ad esempio, si scolpisce la cera a mano. Alla fine, la differenza si nota».
È interessante che tu ti dedichi a questo tipo di tecniche, perché ora c’è un grande dibattito sull’intelligenza artificiale. Pensi davvero che possa sostituire la creatività?
«È una sorta di sostituto nel lavoro, tu puoi continuare a essere creativo quanto vuoi… ma non so ancora cosa penso davvero a riguardo. Credo che sia come la punta dell’iceberg in questo momento, e che non capiamo davvero cosa significhi e quali siano le sue capacità. Ma sono convinto che il fatto a mano resterà sempre migliore, almeno per ora».
Chi sono le tue persone preferite o più iconiche, gli artisti che ti hanno aiutato a sviluppare la tua estetica?
«Forse Virgil Abloh, forse mia madre e mio padre. Sono il prodotto di tutte queste relazioni che ho avuto con diverse persone. È una domanda difficile. Mi ispiro anche alla musica, molto all’hip-hop degli inizi: Ravel, Miles Davis, Stevie Wonder…».
Tra gli artisti rivedo nei tuoi lavori anche Jean-Michel Basquiat …
«Assolutamente. Lui ha inventato la street art, ma in modo culturale, perché poi penso anche ad Andy Warhol, che però per me è un’altra storia. Sicuramente con Basquiat sento questo contatto con la strada e l’ispirazione dalla vita quotidiana».