Nella Panda siamo riusciti a entrarci in nove. Sedile posteriore: quattro bambine vestite di tutto punto per lo spettacolo di danza, una signora anziana, la loro insegnante, un signore con le spalle robuste, il pizzetto e il codino. Lato passeggero: una ragazza almeno al sesto, settimo mese – non ci capisco nulla ma era piuttosto prominente – con un’altra bambina in braccio. Ricordo distintamente ogni momento di quel pomeriggio di un 28 dicembre. Ogni cambio di marcia, ogni vibrazione del volante. Sudo freddo nel parka abbottonato fino al mento. Letteralmente c’è tutta la Nipuna Dancing Academy, orgoglio della fiorente comunità srilankese trapiantata a Napoli, stipata nella mia Fiat Panda seconda serie, 1.3 multijet, 75 cv. Non c’è un centimetro di spazio inutilizzato o inutilizzabile, nel disegno di Giuliano Biasio, degnissimo erede di quello firmato Giorgetto Giugiaro.
Quando, nel febbraio 1980, la Panda fece la sua prima comparsa nelle concessionarie di tutta Italia, la Fiat stava attraversando un momento complicato, tra violenti scioperi e la concorrenza delle altre grandi case automobilistiche, in lotta per conquistare il grande mercato delle utilitarie. Nel 1976, in pieni Anni di Piombo, Gianni Agnelli affidò alla Italdesign di Giugiaro e Aldo Mantovani la realizzazione dei disegni di quella che avrebbe dovuto rappresentare la sfida capitale dell’industria italiana alla Renault e alla Citroen, le altre pretendenti al trono della giungla urbana.
Giugiaro abbozzò le forme della Panda in Sardegna ed è suggestivo immaginare che, proprio grazie a questo particolare contesto, aspro e dolce insieme, un leggero spirito di vacanza sia rimasto impresso nella carrozzeria spartana per vocazione e necessità. Il designer, che per la Fiat realizzò diverse vetture, come la Delta, la Punto e la Uno, racconta che, per la capacità di carico, pensò alle dimensioni di due damigiane da 50 litri di vino: dovevano entrare nel bagagliaio a sedile ripiegato.
Nel 1978 la prova blindatissima dei prototipi, al parco di Novegro, Segrate. Niente stampa e ospiti sfaccendati, solo tester e un ristretto numero di clienti affezionati e concessionari affidabili. Era ancora indicata genericamente come “Rustica” e l’avremmo pagata 2 milioni e 800mila lire. Tutti entusiasti: poche cose ma tutte funzionali.
L’automobile, con il nome definitivo di Panda, entrò in produzione nei primi mesi del 1979, proprio nel periodo più acuto delle vertenze sindacali e venti di quelle vetture, così intimamente connesse agli usi e costumi della classe dei lavoratori, furono date alle fiamme, nello stabilimento di Desio. Un rogo simbolico: la FLM – Federazione Lavoratori Metalmeccanici, la punta più avanzata delle federazioni sindacali, richiedeva il dislocamento delle nuove produzioni negli stabilimenti di Cassino, Sulmona e Termini Imerese, al posto di quelli di Torino e, appunto, Desio. L’accordo fu raggiunto tra dicembre 1979 e gennaio 1980: la Panda si sarebbe prodotta nello stabilimento di Termini Imerese e in quello dell’Autobianchi di Desio.
Il 29 febbraio 1980, la Fiat Panda fu presentata nei giardini del Quirinale, alla presenza del Presidente Sandro Pertini. Pochi giorni dopo, il 5 marzo, il battesimo internazionale, al Salone dell’automobile di Ginevra. La risposta tutta italiana alle cugine d’oltralpe, la Renault 4 e la Citroën Dyane. Dopo sarebbero arrivate la 4×4 e la diesel e poi la bifuel a GPL e la Natural Power a metano.
E le avremmo viste destreggiarsi per quarant’anni non solo lungo le affollatissime strade delle città ma anche placidamente parcheggiate a bordo spiaggia – che raffinatezza la Panda con un velo di sabbia sui tappetini, un SUV non potrà mai capirla. E arrampicate con caparbietà sulle ripide strade di montagna. Fari squadrati – arrotondati nella seconda e nella terza versione – puntati sulla neve, sul ghiaccio, fendenti nella pioggia, nelle terribili mattine di lavoro. E altre mille emozioni, sensazioni, situazioni che solo il Pandista sa.
I sonagli e i campanelli dei costumi tradizionali srilankesi tintinnano senza sosta, coprendo il ritmo del traffico, già ovattato dall’abitacolo. Ridono in quella lingua che, a noi, risulta un indistricabile groviglio di striature d’argento.
Gioco di frizione e acceleratore, prima, seconda, una punta di terza, con una sensibilità di suola che nemmeno Roberto Baggio, evitando i fossati e i dirupi delle strade di Napoli, motorini e autobus che si sfidano per primeggiare al semaforo, pedoni desiderosi di mettere alla prova la tecnica di sopravvivenza all’attraversamento selvaggio.
Con un occhio guardo davanti, l’altro è fisso nello specchietto retrovisore ma dal lunotto posso vedere solo il riflesso delle luci sui copricapi a punta, i piccoli lineamenti che il trucco perfetto dell’insegnante di danza ha reso eterei, esseri provenienti da un’altra galassia. Mi sento orgoglioso della mia automobile come gli ingegneri della sonda Pioneer. Se dovessero fermarmi, se volessero farmi una multa, posso tranquillamente rispondere che si tratta pur sempre di una missione aerospaziale su quattro ruote e anche loro capirebbero.
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