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Chi sperava che fosse la volta buona per riuscire finalmente a vederlo in volto, dovrà mettersi il cuore in pace: il processo a Banksy non si farà, giudice per le indagini preliminari di Venezia permettendo. A meno di sorprese, infatti, l’artista inglese non sarà portato alla sbarra per il murales realizzato sul muro esterno di un palazzo veneziano e potrà cavarsela senza alcun disturbo (anzi, ricevendo in dote dalla vicenda una buona dose di pubblicità).
Niente a che vedere, per fare un esempio, con il trattamento che la polizia newyorkese ha più volte riservato ad uno dei padri, e grandi protagonisti, della Street Art, Keith Haring, il quale, in un video – trasmesso nel 1982 dall’emittente televisiva cbs – girato in occasione di uno dei tanti arresti subìti per essere stato sorpreso nelle stazioni della metropolitana ad “imbrattare” i pannelli pubblicitari rimasti inutilizzati, è addirittura ripreso con le manette ai polsi.
Tornando a Banksy, la tempistica da record con la quale il pubblico ministero ne ha sollecitato l’archiviazione, si spiega probabilmente con quella sorta di cortocircuito logico, prima ancora che giudiziario, che ha caratterizzato l’avvio del procedimento. Ad aver indicato la strada dell’archiviazione, infatti, era stata la stessa Sovraintendenza di Venezia, la quale, proprio nell’esposto indirizzato in Procura pochi giorni dopo alla comparsa del murales su quel palazzo sottoposto a vincolo storico, aveva escluso la commissione di un reato.
Non a caso il pubblico ministero, oltre ad aver giustificato l’archiviazione con le oggettive difficolta di risalire all’effettiva identità dell’autore del murales ribattezzato Naufrago bambino (il fascicolo non poteva che essere a carico di ignoti, nonostante sia stato lo stesso artista, attraverso il proprio profilo instagram, ad avere rivendicato la paternità dell’opera), ha espressamente richiamato la valutazione della Sovraintendenza, secondo la quale si tratterebbe indiscutibilmente di un “dipinto murale di carattere artistico”, che non avrebbe creato “nessun danno e deturpamento al palazzo”, ergo, Banksy può dormire sonni tranquilli.
Pochi dubbi sul fatto che, dietro alla ritenuta natura artistica di quell’opera, invocata per escludere qualsivoglia conseguenza di natura penalistica, si celi la notorietà, ormai planetaria, dell’artista inglese e, soprattutto, il valore di mercato delle sue opere.
Una scelta, quella di chiudere la vicenda sul nascere, dettata probabilmente dal buon senso (con tutti i problemi della giustizia italiana, il processo all’inafferrabile Banksy possiamo tranquillamente risparmiarcelo), ma che in punto di diritto non convince affatto.
Se è pur vero, infatti, che la legge italiana riconosce valore a ogni gesto creativo, qualunque ne sia il metodo generativo e la forma di espressione, è altrettanto vero che il Legislatore, nel disegnare lo scivoloso rapporto tra street art e diritto penale, ha da tempo compiuto una precisa scelta, per così dire, di ordine sociale, quella di prescindere da ogni valutazione circa la qualità artistica, o meno, di quanto rappresentato. Scrivere, disegnare, incollare stencil su un qualsiasi muro di un qualsiasi edificio (a meno che non specificamente destinato a tale utilizzo) per la legge italiana equivale sempre ad imbrattare.
Nel codice penale non esiste infatti alcun riferimento per distinguere le iniziative artistiche da quelle che non lo sono, ragion per cui la capacità artistica del writer, la sua notorietà, la qualità e il valore di quanto da lui dipinto, non possono mai rilevare. Ad averlo provato sulla propria pelle sono stati tre dei più importanti street artists italiani. Il Tribunale di Milano, nella vicenda che vedeva imputato per il reato di imbrattamento il writer milanese Daniele Nicolosi, in arte Bros (pacificamente uno dei principali esponenti della street art in Italia), nel motivare il suo proscioglimento per questioni di natura esclusivamente procedurale (l’intervenuta prescrizione e l’assenza di querela), è infatti stato categorico nell’affermare che “l’esistenza del reato non può avere come parametro un’eventuale natura artistica dell’opera d’arte, stante l’impraticabilità di una tale categoria fondamentalmente legata al gusto ed al sentimento sociale in un determinato contesto o momento storico”.
Le cose non sono andate meglio per il writer Manu Invisible, prosciolto per aver disegnato una veduta dei Navigli su un muro delle Ferrovie dello Stato in via Piranesi a Milano, ma solo per la ritenuta “particolare tenuità del fatto”, formula che sta a significare la riconducibilità di ciò che gli era contestato nell’alveo della fattispecie incriminatrice. Ancora peggio è andata alla street artist di fama internazionale Alice Pasquini (in arte Alicè), che è stata infatti condannata per aver “imbrattato” dei muri del centro storico di Bologna, proprio facendo leva sul principio che l’esistenza del reato “non può avere come parametro l’eventuale natura artistica dell’opera d’arte che si sta realizzando”, per la semplice ragione che sarebbe illegittimo attribuire qualsivoglia rilevanza “a valutazioni personalissime, e perciò stesso sindacabili, legate al valore artistico di un disegno, trattandosi di un parametro legato al gusto e a sentimenti sociali o individuali, variabili e spesso influenzati dalle mode”.
L’evidente disparità di trattamento riservata a Banksy, non è spiegabile neppure con il fatto che la contestazione rivolta nei suoi confronti è quella prevista dall’art. 169 del codice dei beni culturali, che punisce “chiunque, senza autorizzazione…esegue opere di qualunque genere sui beni culturali”, e non invece, come era stato per i writers nostrani, quella che punisce il danneggiamento, ex art. 635 c.p., o quella, più lieve, di deturpamento o imbrattamento, ex art. 639 c.p..
Prima di chiudere vale la pena aggiungere che, a destare perplessità, è anche l’aver scelto di contestare all’artista inglese quella fattispecie contenuta nel codice dei beni culturali, che secondo la Cassazione sarebbe infatti “contestabile solo alle persone che hanno un rapporto particolare e qualificato con il bene oggetto di tutele, tanto da dover chiedere l’autorizzazione per eseguire lavori”, non invece nei confronti di “un terzo estraneo al bene, che non potrebbe mai chiedere, né ottenere un’autorizzazione per far un qualsiasi intervento sul bene tutelato e tantomeno per compiere un atto vandalico”. È pur vero che “il terzo estraneo può concorrere con il proprietario”, ma nel caso di specie è da escludere che tra Banksy e il titolare di quelle mura vi sia stata una comunione di intenti. Quel che è certo, invece, è che, a seguito della comparsa del Naufrago bambino, il prezzo di vendita di quell’immobile è letteralmente schizzato alle stelle!
Nicolò Pelanda