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Abbiamo detto nella prima parte dell’articolo precedente della decisione dell’EUIPO – Ufficio Europeo della Proprietà Intellettuale di dichiarare nulla la registrazione del marchio dell’Unione europea che aveva per oggetto l’opera Flower Thrower di Banksy, il celebre street artist. Decisione presa a causa dell’atteggiamento di rifiuto da parte di Banksy (e di gran parte degli street artist) di volersi avvalere della protezione garantita dal copyright. Infatti, la scelta operata dalla Pest Control Office Limited – società rappresentante gli interessi di Banksy – di registrare il marchio aveva una duplice finalità: la prima era quella di poter godere del regime della durata della protezione consentita dalla legge sul marchio, assistendo così al tentativo di monopolizzare i segni distintivi dell’opera di Banksy a tempo indeterminato, essendo il marchio rinnovabile indefinitamente, contrariamente a quanto sanciscono le disposizioni in materia di proprietà intellettuale che prevedono lo sfruttamento dei diritti di utilizzazione economica d’autore che insistono sull’opera, per 70 anni dalla morte dell’autore. La seconda finalità consentirebbe di ricorrere alla tutela garantita mediante la registrazione dei marchi al fine di evitare strumenti probatori relativi alle contestazioni emergenti dalla violazione del diritto d’autore, sicuramente più complessi per la loro costituzione e rilevazione.
La decisione in commento appare di evidente interesse in quanto la stessa affronta il tema dell’annullamento di una registrazione di marchio in un contesto in cui il depositante considerato in malafede, è titolare di un altro diritto di proprietà intellettuale sul segno registrato.
La dettagliata analisi effettuata dall’EUIPO sito in Alicante in merito ai rapporti tra il copyright detenuto da Banksy / Pest Control sull’opera Flower Thrower appare interessante laddove si tenga conto di come la tutela di un’opera anche attraverso una registrazione di marchio sia una strategia ben conosciuta ed applicata da chi detiene i diritti di sfruttamento di una determinata opera e veda avvicinarsi la scadenza di tali diritti, con conseguente caduta dell’opera in pubblico dominio, o da chi sia interessato ad ottenere uno strumento probatorio di uso sicuramente più agevole rispetto al copyright, soprattutto nei casi in cui l’autore dei cui diritti si discute, sia un esponente della street art.
Sulla base degli approfondimenti delineati nella prima parte di questo articolo, è lecito chiedersi se il deposito di un marchio possa configurare davvero una condotta disonesta e non conforme a principi etici o di lealtà professionale o commerciale. È bene ricordare che tale deposito è stato effettuato al fine di difendere il proprio diritto d’autore nei confronti di tutti coloro che, in maniera indebita e non autorizzata, sfruttano un’opera per finalità economiche che, ovviamente, non sarebbero condivise dall’autore stesso. La risposta sembra poter essere positiva se le diverse forme di tutela della proprietà intellettuale e industriale vengono (o continuano) ad essere percepite come compartimenti stagni. Questo sistema ne consente infatti la cumulabilità soltanto se ad uno stesso oggetto corrispondono diversi titoli di privativa: dunque la sanzione della nullità assoluta contro chi voglia tutelare un proprio diritto attraverso vie diverse da quelle previste dall’ordinamento giuridico, appare coerente con il sistema stesso. La risposta potrebbe essere più dubitativa se si prende atto che, da qualche tempo, sembra rilevarsi una tendenza a considerare in un’ottica meno frammentata e più unitaria i diritti di proprietà industriale e intellettuale. Prova di questa tendenza è il principio enunciato dall’art. 14 del Codice di Proprietà Industriale che prevede che non possono essere registrati come marchi i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto di autore, di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi.
Va da sé che un approccio di questo tipo presterebbe il fianco a facili e immediate obiezioni. La prima legata al fatto che l’autore che vede violati i propri diritti può sempre reagire facendo valere quanto previsto in materia di diritto d’autore: tuttavia, come già osservato, se ciò vale per autori la cui identità sia conosciuta, non vale per quegli street artists che (come nel caso di Banksy) creano ed operano in un contesto artistico nel quale l’anonimato non è riconducibile ad una stravaganza né tantomeno ad un capriccio, ma costituisce una indiscutibile connotazione del loro modo di operare.
Una seconda obiezione potrebbe riguardare una “vecchia conoscenza” del tema relativo ai rapporti marchio-copyright, vale a dire i possibili effetti anticoncorrenziali derivanti dalla registrazione come marchio di un’opera protetta dal diritto d’autore. Con riguardo a questo rilievo, tuttavia, si può facilmente osservare che il sistema contiene già in sé gli anticorpi volti ad evitare uno strumentale uso della registrazione di marchio in funzione anticoncorrenziale, rappresentati dalle norme in materia di decadenza per non uso.
Infine, è lecito farsi un’ultima domanda: questa decisione di nullità a chi giova? Non certo alla libera concorrenza leale e corretta, dato che, al momento, qualsiasi uso commerciale dell’opera deve ritenersi illecito in quanto lesivo del diritto d’autore di Banksy (ed il fatto che quest’ultimo non sia ad oggi azionabile a causa dell’anonimato dell’artista non rende certo le condotte dei terzi lecite o corrette). L’unico effetto potrebbe essere quello di “convincere” Banksy a rivelare la propria identità al fine di reagire legalmente alle condotte illecite. Ma ci chiediamo: la rivelazione dell’identità di un autore può davvero avere qualche effetto sul sistema della concorrenza e, più in generale, sulla equità del sistema economico-concorrenziale che la decisione dell’EUIPO intende tutelare? Su tale questione i dubbi sono più che leciti.
– Francesca Perri, partner di Tonucci & Partners