“Ciò che rende particolare questa fotografia è l’eccezionalità del soggetto: si tratta di due magistrati eroi e martiri della lotta della Repubblica contro il fenomeno mafioso ed il loro atteggiamento sorridente, l’immagine della loro amicizia, la stima reciproca che emerge da questa foto sono altamente simbolici di un periodo repubblicano nel quale, a duro prezzo, finalmente questo Stato prese consapevolezza della grandezza del fenomeno mafioso e lo seppe e volle combattere, mediante queste persone ed a prezzo del loro personale sacrificio, con forza, decisione e per mezzo della loro integrità personale. La bellezza nella foto quindi è tanto più grande quanto, a posteriori, si riconosca e si ricordi la storia dei soggetti che lì sono effigiati”.
Personaggi che non hanno bisogno di nomi per essere riconosciuti. Momenti che non hanno bisogno di date per essere collocati nel tempo. Brani che sembrano estratti di una biografia ed invece sono parti della motivazione di una sentenza.
Lo scorso 12 settembre 2019, il Tribunale di Roma si è pronunciato, esprimendosi con le appassionate parole riportate sopra, nell’ambito di un procedimento instaurato allo scopo di stabilire quale protezione dovesse essere riconosciuta ad una delle fotografie più iconiche della storia italiana.
In realtà, i giudici della corte capitolina si sono trovati, più in generale, a dover rispondere ad una domanda tutt’altro che semplice: quando una fotografia è un’opera d’arte?
Se alcune espressioni del genio (dipinti, sculture, installazioni, performance, etc.) sembrano essere istintivamente percepite, sia socialmente sia giuridicamente, come dotate di un intrinseco valore artistico, alle fotografie tocca, generalmente, una sorte del tutto diversa.
Nella prima stesura, il legislatore italiano non aveva incluso le fotografie nell’elenco delle opere tutelate della legge sul diritto d’autore come “opere d’arte”. Premesso che alle fotografie è comunque sempre stata riconosciuta una qualche forma di protezione, ai loro autori sono stati inizialmente attribuiti diritti molto meno ampi e forti rispetto a quelli riconosciuti agli autori di contenuti ritenuti “artistici” in senso stretto (opere letterarie, musicali, cinematografiche, etc…).
Questa scelta era stata presa, da una parte, perché le fotografie erano considerate un veicolo indispensabile per la circolazione delle informazioni e, quindi, per lo svolgimento di attività socialmente rilevanti, come la documentazione di fatti d’attualità con finalità di cronaca. Di conseguenza, era preferibile che nessuno potesse creare sulle stesse un monopolio e/o esclusiva che, nella mente del legislatore dell’epoca, avrebbe comportato un pregiudizio significativo per la collettività.
Dall’altra, il limite della protezione autorale delle fotografie era stato imposto perché non appariva possibile stabilire che cosa potesse e/o dovesse avere “in più” una fotografia per passare dall’essere uno scatto rappresentativo di un momento, di una persona o di un fatto all’essere considerata un’opera d’arte.
La riforma del 1979 si è limitata ad inserire nell’elenco delle opere dell’ingegno tutelate all’art. 2 l.a. “le opere fotografiche e quelle espresse con procedimento analogo a quello della fotografia”. Di conseguenza, finalmente anche una fotografia poteva essere considerata, in astratto, un’opera d’arte. Tuttavia, ancora una volta, non veniva chiarito che cosa dovesse avere, in concreto, per diventarlo.
La parola, quindi, è passata ai giudici che, di volta in volta hanno cercato di dare una veste materiale ad un principio che il legislatore aveva solamente potuto esprimere in linea teorica.
La risposta generalmente data da parte delle corti è stata che una fotografia è un’opera d’arte quando è dotata di un “particolare grado di creatività”. Affermazione, quest’ultima, che non sposta la questione rispetto al punto di partenza e che, semmai, porta a farsi ulteriori domande: che cos’è la creatività? E, soprattutto, come si misura la creatività?
Nella vita, ciascuno di noi è libero di svolgere questo tipo di valutazioni lasciando spazio a sentimenti e percezioni personali. Nelle aule di tribunale, i giudici non hanno questo lusso e quindi, spesso, sono costretti a dare una veste oggettiva e calcolabile a qualcosa di soggettivo ed ineffabile. Con risultati più o meno apprezzabili.
Per nostra fortuna, forse perché fortemente ispirato, il Tribunale di Roma in quest’ultimo caso sembra aver colto nel segno, chiarendo che, a suo modo di valutare, la fotografia quale opera d’arte presuppone “una lunga accurata scelta da parte del fotografo del luogo, del soggetto, dei colori, dell’angolazione, dell’illuminazione e si concretizza in uno scatto unico, irripetibile nel quale l’autore sintetizza la sua visione del soggetto.”.
In sostanza, affermano i giudici, i presupposti per riconoscere ad una fotografia valore di opera d’arte sono i medesimi che devono essere ascritti ad un quadro, ovvero “la fotografia deve essere l’espressione di un progetto artistico, di uno stile, di un momento creativo.”.
Lo scatto che ritrae Falcone e Borsellino, quindi, non ha trovato protezione autorale, in quanto spaccato di vita e di storia meritevole di attenzione non in ragione del valore delle scelte svolte dall’autore della fotografia, ma per il ruolo e la personalità dei soggetti ritratti.
A dimostrazione del fatto che anche se arte e sentimento a volte viaggiano su binari paralleli, possono essere comunque dotati della medesima dignità.
Miriam Loro Piana – LCA Studio Legale / Gruppo Arte
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