10 luglio 2001

Numero 146, Giugno/Luglio 2001 FMR

 
In copertina: sul solito elegantissimo nero FMR si stagliano gli energumeni del Monumento alle bandeiras di Victor Brecheret...

di

Da oggi inauguriamo la recensione della celebra rivista (non solo d’arte, ma anche di cultura dell’immagine) FMR giunta al numero 146. Tradotta in quattro lingue, essa non è semplicemente un periodico, ma un vero e proprio oggetto d’arte che accompagna pagine di critici e scrittori alla recensione delle principali mostre in corso (tradizionale incipit dal titolo “Ephemeris”), eccelse fotografie a una tipografia raffinatissima.
L’articolo di punta, annunziatoci dall’editoriale, dal titolo “L’epoca dei sogni” di Emmanuel Anati, ci racconta le tipologie, le modalità di sopravvivenza, le tecniche e i temi di una remotissima forma d’arte ancora oggi praticata dagli Aborigeni d’Australia: la pittura su corteccia. Sulla scia, così ci pare, delle teorie dell’antropologo Marcel Mausse che credeva che le popolazioni primitive avessero un rapporto empatico, magico con il territorio loro circostante, l’autore ci spiega l’importanza fondante della natura anche nel processo artistico. Non solo fonte primaria di immaginazione e ispirazione per i soggetti (prevalentemente astri, animali, uomini nelle vesti di danzatori e cacciatori con relativi utensili, piante), ma anche supporto fisico dell’arte stessa. La pittura, così, non diviene mera rappresentazione, talvolta compresa in rituali propiziatori, ma pura scrittura, e, allo stesso tempo, lettura dei messaggi degli spiriti naturali, del senso che pervade il tutto, le rocce come le piante, recupero del mito. L’articolo denuncia anche il rischio di estinzione di tale tecnica, già limitata a poche zone, con l’intensificarsi del contatto con la cultura occidentale. Già ora assistiamo a banalizzazioni nella qualità dell’esecuzione (le tavole perdono i loro caratteri tribali locali) e del significato da quando sono state scoperte le intrinseche potenzialità commerciali.
Di Luiz Marques è invece l’articolo sul monumento a San Paolo del Brasile ai bandeirantes, i razziatori di schiavi che nel Seicento sottomisero, spopolando, il sud ovest brasiliano. Più che ai caratteri formali (severità espressiva, scabrezza del modellato organizzata in nitidi poligoni) l’articolo cerca di ricostruire gli influssi ideologici e nazionalisti che dominavano la produzione artistica (non solo brasiliana, ma anche europea) dell’inizio XX secolo. L’autore, il franco-laziale Victor Brecheret, stremato da più di tre decenni (1919-1953) di abbandoni e riprese che forse lo portarono alla morte, rimodellò e ripensò più volte il progetto, passando dalla celebrazione della figura del bandeirante come Argonauta dei fiumi, ricercatore di miniere d’oro, spericolato conquistatore di immensi spazi da dissodare (e strappare ai selvaggi da aggiogare) alla interpretazione del ’36, incoraggiata da un movimento fascista, per cui il protagonista della scultura diventa il fondatore di una razza nuova basata sulla fusione delle varie etnie che componevano il popolo brasiliano.
Si scorre qualche pagina ed eccoci in Sicilia, subito dopo l’unità di Italia, in una Palermo intenta a riappropriarsi della sua assopita dignità di capitale mediterranea grazie alla costruzione del Teatro Massimo di Giambattista Basile. Un’opera ambiziosa, monumentale, come ogni sfoggio di potenza e di rinnovata energia comporta, democratica, come era esemplificato dalla platea: la più grande d’Europa. Il teatro era un chiaro simbolo di rinascita culturale e modernità. Il Massimo divenne, fin dai suoi primi anni di attività, il vanto della Sicilia, capace di rivaleggiare non solo con Napoli (precedente meta musicale dei nobili palermitani), ma anche con Milano, Parigi, New York. L’iter di Mario Pasi continua ricordando gli avvenimenti principali, dalla crisi durante le guerre ai fasti degli anni ’50 ai lunghi, discussi lavori di restauro duranti un ventennio e conclusasi nel 1997, anno di riapertura di questo splendido gioiello liberty.Boutet
E teniamo per ultimo l’articolo che più ci piace. E’ su Bernard Boutet de Monvel (1881-1949), pittore parigino, dandy, designer, illustratore per eleganti riviste come “La gazette du Bon Ton” e “Harper’s Bazar”, esponente dei “Beaux Brummell” o “Cavalieri del Braccialetto”, per via di quel monile che scivolando sul polso nei momenti più impensati tradiva un ricercato gusto per il lusso. Il celebratore della high society newyorkese che guerreggiava per le sue costosissime opere, artista consapevole dell’importanza di un party che introduceva con un distaccato “Vado in ufficio”. La sua pittura è architettonica (geometrica, i volti dei suoi ritratti sono spesso inscritti in quadrati o cerchi), composta per grandi masse, concisa, essenziale, ma anche capace di restituire l’acutezza di uno sguardo, la leggerezza (“lapidaria” per Patrick Mauriès, l’articolista) delle nuvole di taffettà degli abiti femminili.

Link correlati:
www.victor.brecheret.nom.br
www.teatromassimo.it
www.francomariaricci.it

Emanuele Lugli




FMR rivista d’arte e di cultura dell’immagine
Anno XX, n. 146, giugno/luglio 2001
Bimestrale
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Abbonamento annuale (6 numeri) lire 160.000
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