Dopo infinite polemiche, pressioni e diatribe, e dopo che
il produttore Andrea Occhipinti ha coraggiosamente rinunciato al finanziamento
pubblico (1 milione e mezzo di euro),
La prima linea di
Renato De Maria è finalmente uscito nelle sale.
Il fatto che abbia scontentato tutti – dai familiari delle vittime ai
terroristi-carnefici (Sergio Segio, dirigente di Prima Linea e autore del libro
Miccia corta a cui si ispira il film, lo ha definito “
maccartista e orwelliano”), dai politici ai giornalisti –
depone certamente a suo favore, e ci fa subito sospettare che sia un prodotto
onesto. Ma è tutto (anche se, di questi tempi in Italia, decisamente non è
poco).
Come Barack Obama un anno dopo la sua elezione, La prima linea
sconta probabilmente le eccessive aspettative di cui era stato caricato, e da
cui oggi è schiacciato: non si può certo pretendere che un film “risolva”
improvvisamente conflitti e rimozioni che si trascinano da trent’anni e che
hanno coinvolto più generazioni italiane. Di sicuro, non è un capolavoro.
Troppo rigida appare la sconnessione fra la storia centrale e il contesto, la
cornice di riferimento: fa bene Benedetta Tobagi a dire che già la locandina
assomiglia moltissimo al
Quarto Stato di
Pellizza da Volpedo, ma a patto che si noti come lo
spazio circostante (gli anni ‘70) sia stato sostituito dal vuoto del bianco. È
come se questi due giovani amanti/terroristi fossero espunti dal loro ambiente,
due strani viaggiatori che si estraniano completamente dal loro tempo.
Si dirà: ma il punto era proprio questo, sottolineare
l’estraniazione-alienazione-dissociazione profonda dei protagonisti rispetto
alla realtà, causa principale della loro follia e del loro fallimento
esistenziale. Solo in parte. Perché insistere sulla schizofrenia, sul
solipsismo e sull’anaffettività non vuol dire necessariamente escludere la
rappresentazione di un decennio, o peggio racchiuderlo in immagini fortemente
stereotipate e autoreferenziali (i cortei e le manifestazioni, per esempio).
Questo è un vecchio vizio del cinema italiano che si è
occupato di anni ‘70 e terrorismo: da una parte c’è stato l’eccessivo
“morocentrismo” (e uno dei meriti principali di questo film è proprio quello di
aver compiuto un primo, significativo passo per allontanarsi da quello schema),
dall’altra la sostituzione degli elementi costitutivi di un decennio così
difficile e magmatico – la storia, la società, la cultura popolare, la moda –
con l’ostensione di frammenti altamente simbolici, ma inevitabilmente
limitanti. Per fortuna, negli ultimi anni oggetti culturali come
Romanzo
criminale (2002),
divenuto non a caso prima un film e poi una serie televisiva, hanno contribuito
fortemente a “spolverare” gli anni ‘70 e a restituire loro freschezza e
crudezza.
Un’altra caratteristica del cinema italiano sul terrorismo
– e in proposito si veda il volume
Schermi di piombo (2007) di Christian Uva -, a
partire dai primissimi esempi come
Tre fratelli (1981) di
Francesco Rosi e
Colpire al cuore (1983) di
Gianni Amelio, per arrivare ai suoi ultimi
risultati (
Buongiorno, notte, 2003, di
Marco Bellocchio), è una certa tendenza
all’autismo e alla claustrofobia. La prima linea evade solo in parte da questa
condizione, per trasportarla anzi su un altro livello. La rappresentazione
della realtà esce certamente dai confini delle stanze e degli appartamenti in
cui era stata costretta l’analisi cinematografica degli anni ‘70, in cui il
terrorismo era il rumore bianco delle vicende private (un riflesso gauchiste
del riflusso più pacchiano e ridanciano di quegli anni?). Ma essa rimane
comunque la grande assente, perché il film opera al tempo stesso una
sostituzione che è anche un capovolgimento: il terrorismo viene in primo piano
(o almeno alcuni suoi elementi) e il rumore di fondo diventa tutto il resto,
l’Italia di quegli anni.
È come se, ogni volta che si tenta di affrontare quel
periodo, scattasse una sorta di blocco paralizzante, che ne fa vedere e
interpretare di volta in volta un solo aspetto, impedendo ogni analisi
complessiva e comprensiva. Al contrario, per esempio, di ciò che accade in
Germania, dove da
Anni di piombo (1981) di
Margarethe von Trotta a
La banda Baader Meinhof (2008) di
Uli Edel, un’intera nazione sembra fare i
conti con il proprio passato recente in modo, se non più rilassato, di sicuro
più lucido.
Ma La prima linea rimane comunque un’operazione
interessante, perché: 1. almeno si muove nella direzione giusta; 2. si sforza
di prendere di petto le questioni fondamentali. Toccando nervi scoperti e
reazioni che, a chi non è vissuto in quel periodo e magari allora non era
neanche nato, appaiono sinceramente un po’ scomposte. Come questa di Pierluigi
Battista sul
Corriere, che dopo aver assicurato che il film di De Maria “
non è affatto
indulgente con il terrorismo”, si sente in dovere di precisare: “
Se ai terroristi
si regala il viso di Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno, una patina di
glamour rende più emotivamente soffici le loro cattive imprese”. Invece, proprio l’aver dato a
Segio il bel visino dell’ex-eroe di
Tre metri sopra il cielo – nel frattempo cresciuto come
uomo e come attore – è uno degli aspetti più stimolanti e notevoli della
pellicola.
Certo, si poteva insistere proprio sugli accenti
“orwelliani” della messa in scena, virando più decisamente l’ambientazione e la
narrazione verso atmosfere dark. Ma ci sarà tempo: senza dubbio, un film così
non sarebbe potuto uscire se non in questo momento storico.