Ciò che accomuna due opere all’apparenza così distanti è
la volontà di “pensare in grande”, abbracciando tutte le connessioni fra
economia, immaginario collettivo, relazionalità e mutazioni tecnologiche. È un
cinema storico in presa diretta, che assume cioè la prospettiva storiografica
per comprendere e interpretare ciò che è appena avvenuto, e sta ancora
avvenendo. È un cinema ambizioso, lontano anni luce dalla pratica consolatoria
del blockbuster, ma che di quest’ultimo usa sapientemente tutti i mezzi e le
seduzioni. È un cinema pressoché privo di effetti speciali, ma di grande
effetto complessivo sullo spettatore, catturato da un enorme affresco che lo
posiziona all’interno del contemporaneo.
Gordon Gekko, pur rimanendo lo squalo spietato del 1987,
si presenta anche come maître-à-penser della crisi e assurge a
una consapevolezza filosofica delle dinamiche scatenate dall’avidità. La sua è
un’operazione intellettuale a metà strada fra quella del guru e quella del
padre spirituale, perché Gekko invita l’allievo-figliastro (Jacob Moore-Shia
LaBeouf) a guardare oltre e al di là del terremoto finanziario, cogliendo per
esempio le analogie con la febbre dei tulipani secentesca (la madre di tutte le
crisi) e rintracciando i fili che collegano la reputazione, il fallimento
individuale e le pulsioni collettive.
Oliver Stone rende il tutto aggiornando il suo
stile usuale e cercando di restituire magistralmente lo Zeitgeist, lo spirito di quest’epoca, suddividendo lo schermo come
faceva nel modello originale, ma innestando in queste partiture le
raffigurazioni astratte delle trasmissioni di byte e della circolazione di
informazioni-pettegolezzi-controinformazioni. La scelta di affidare a Brian Eno e David Byrne la colonna sonora (le canzoni sono infatti tratte dal
loro ultimo album, Everything That
Happens Will Happen Today, 2008) è particolarmente felice, perché
sostituisce all’atmosfera precedente – l’angoscia complessa e postmoderna di My Life in the Bush of Ghosts, 1980 –
una forma innovativa di spensieratezza “Anni Zero”, fragile e leggendaria al
tempo stesso.
Anche più graffiante e incisivo – nel suo intento di
critica sociale non viziata da paternalismi o moralismi – si rivela The Social Network di David Fincher. Accade qui che la storia
apparentemente insignificante di un nerd che
studia a Harvard diventi la metafora e la parabola di un intero momento
storico, che probabilmente verrà ricordato come il fondamento di una
rivoluzione. L’attenzione esplicita si concentra sui processi mentali che portano per balzi successivi il giovanissimo
Mark Zuckerberg alla creazione di Facebook, sottolineati efficacemente dalla
musica possente di Trent Reznor
(Nine Inch Nails). Ma si tratta di un romanzo di formazione senza formazione, per così dire. E
d’altra parte, che cos’è Facebook se non una sottocultura senza sottocultura?
Ciò vuol dire che, nonostante la crescita tumultuosa della carriera e della
fortuna del protagonista, il grande inventore rimane sempre solo, e colui che
ha connesso centinaia di milioni di “amici” non ne ha più nemmeno uno. Ficcato
nel suo tunnel miliardario, non sente praticamente più la domanda ricorrente,
aggressiva o preoccupata a seconda dei casi, da parte degli altri – il suo ex-migliore amico,
l’avvocato dei facoltosi canottieri figli di papà o chiunque altro: “Ho la tua attenzione?”.
The Social Network è uno squarcio particolarmente
lucido sul sottotesto del mondo che ci circonda, in cui la reputazione è il
capitale primario (“Non abbiamo mai avuto
un crash!”) e in cui il desiderio di proiettare la propria identità su un
“profilo” oscura e precede addirittura la sua stessa costruzione. Qui c’è il
contraltare dell’avidità che spadroneggia e consuma in Wall Street. C’è invece, in primo piano, una forma per così dire
discreta di disperazione, una strana compulsività che regola comportamenti,
atteggiamenti e relazioni.
christian caliandro
*articolo pubblicato su
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