Tim Burton (Burbank, California, 1958)
è un regista di culto, Leone d’Oro
a Venezia, vincitore di alcuni premi Oscar per trucchi e scenografie, e vanta
ormai 27 anni di carriera costruita sulle spalle di una fanciullezza dai toni
sinistri e irriverenti, espressa e alimentata dal cinema, dai molti progetti
editoriali (tra i quali spicca
Morte malinconica del bambino ostrica e altre
storie,
pubblicato in Italia per Einaudi) e da una mole imponente di disegni che ora il
MoMA espone in una mostra che narra le origini e gli sviluppi di un visionario
adolescente cresciuto leggendo Edgar Allan Poe, guardando i film con Vincent
Price e “studiando”
Ed Wood, “
il peggior regista di tutti i tempi”, come lui stesso lo definirà nel
1995 in un film stralunato, non privo di contatti con la propria persona.
Tim Burton è un disegnatore d’eccezione. Oltre 700 pezzi
raccontano la sua vita intellettuale di sognatore (o, meglio, incubatore di
piccoli incubi) di professione, autore di un dramma perpetuo che elegge il
mondo a teatro popolato di maschere e la vita a danza macabra,
eseguita da
figure che sono il risultato di un incontro ideale tra
Bosch, i fumetti di fantascienza degli
esordi, il surrealismo e le maschere del circo.
Burton è ossessionato dai personaggi, ne disegna in
continuo. Negli anni crea delle serie, come si usa in fotografia (
Trick and
Treat,
Cartoons,
Boy Series,
Girl Series,
True Love,
Alien series,
Dream Factory,
The Black Cauldron,
Clown Series,
Creature Series). Sono carrellate di corpi
deformi, di occhi fuori dalle orbite, di pance enormi sorrette da gambe
lunghissime e fini che si perdono fra teste gonfie di espressioni grottesche e
brutali, ma spesso venate da una malinconia sottile.
Burton giunge al cinema d’autore dalla “porta di
servizio”, dall’animazione. L’adolescenza inquieta passata nella natia Burbank,
città di provincia nella contea di Los Angeles, alimenta un desiderio di fuga
che trova il suo mezzo più sbrigativo ed economico nella Super8. Come narra la
mostra, Burton approccia l’immagine in movimento partendo da un atteggiamento
pseudo-punk, che predilige l’invenzione sulla produzione. L’autarchia del
dilettante appassionato si realizza nel giardino di casa utilizzato come set;
un paio di amici recitano le parti della donna insidiata o del concorrente di
gare, in cortometraggi costruiti con la tecnica dello
stop motion, in cui presto eccellerà. Burton
è l’eroe dei propri corti: in uno di essi viene aggredito dal proprio piumino
da letto trasformatosi in un blob.
La mostra va alla radice dell’identità di un maestro del
cinema, tenuta finora in un archivio personale. Burton studia grazie a una
borsa di studio ottenuta dalla Disney, diventa animatore, ma in fondo la Disney
non fa per lui: loro non possono capirlo e lui non può adattarvisi, poiché è il
rimosso del mondo disneyano, è il lato oscuro, la forza perturbante. Non di
meno ottiene dalla casa 60mila dollari per produrre il suo primo cortometraggio
animato,
Vincent (1982),
al cui successo
di critica segue il finanziamento del lungometraggio
Frankenweenie
(1984).
Disney lo utilizza come esperto della tecnica dello stop
motion, ma rifiuta il cuore del suo lavoro, progetti espressi in decine di
disegni in cui l’artista offre al regista le sue prestazioni di ritrattista di
personaggi, caratteri, espressioni e corpi d’ogni genere e fattezza. C’è un
forte tratto sperimentale, ma anche una precisione chirurgica nel tratteggio di
queste figure che sembrano appartenere a un mondo ulteriore, in cui fiaba e
fantascienza si incontrano in un circo grottesco, buffo, insidioso. Sono le
maschere di un carnevale perpetuo, dentro il quale l’immaginazione di Burton
sembra sospesa e alimentata. Intriganti i disegni relativi alle prime
animazioni affiancati dai film.
La mostra non perde occasione di esporre una sezione di
memorabilia appartenenti ai film del maestro: dalla statua
lifesize di
Manidiforbici alle maschere di
Batman o le teste di
Mars Attacks! Più interessanti sono però i suoi
quaderni di appunti, in cui si legge la nascita della moglie cadavere e di altri
personaggi. Un vero capolavoro è poi la sua recente installazione
Carousel (2009), una giostra fantasma e
fosforescente che ruota al suono di una nenia elettronica, fredda, tagliente e
ipnotica come la luce ultravioletta che la irradia.
L’ingresso della mostra a forma di enorme bocca di clown
zannuta e ghignante, le avventure animate del malinconico
Stainboy prodotte per il web, le grandi
polaroid dark e sadiche (relegate al piano interrato), una gigantesca scultura
al piano terra e la cover video creata per il MoMA concludono, con la
retrospettiva cinematografica, una mostra
sold out che farà tappa a Melbourne e a
Toronto durante il 2010.