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04
giugno 2010
essai_opinioni Paesi senza libertà
essai
Sei anni per realizzare il suo primo lungometraggio. Artista controversa, paladina della rappresentazione femminile del mondo islamico o creatrice di una didascalica riproduzione di stereotipi? È Shirin Neshat...
Nata nel 1957 a Qazvin, in Iran,
Shirin Neshat si trasferisce ancora teenager negli Stati Uniti per studiare arte; lì
rimane anche in seguito all’impossibilità di rimpatriare a causa della
rivoluzione khomeinista. In Iran tornerà solo nel 1990.
Dall’esperienza di quel viaggio
nasce il suo primo lavoro, Women of Allah, serie fotografica sulla rappresentazione delle
donne islamiche accolta con grande interesse dalla critica internazionale.
Vince il Leone d’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia del 1999 e il Leone
d’Argento per la miglior regia nel 2009 all’ultima Mostra del Cinema in Laguna
per il lungometraggio Donne senza uomini (Women Without Men).
L’opera è tratta dal romanzo di
Shahrnush Parsipur pubblicato nel ‘90, che è costato sei mesi di carcere
all’autrice, processata insieme al suo editore e rilasciata dietro pagamento di
una forte cauzione. Il libro è ambientato a Teheran nell’estate del ‘53, quando
un colpo di stato guidato da americani e inglesi depone Mohammad Mossadegh,
primo ministro democraticamente eletto, per rimettere al potere lo Shah.
Parsipur racconta queste tumultuose vicende attraverso le vite tormentate di
quattro personaggi femminili.
Un tema quindi già molto vicino al
lavoro di Neshat, che lo ha tradotto non solo in una videoinstallazione
suddivisa in cinque schermi, ma anche in un film. Un progetto che ha avuto
dunque una lunga gestazione, e nel quale la sofisticata ricerca fotografica e
iconografica ha il sopravvento rispetto all’ambientazione realista del contesto
storico-politico. Certo la Neshat non è una documentarista o un’attivista
politica, e ha quindi tutta la libertà di declinare a suo piacere il testo di
Parsipur. Lei stessa ha dichiarato che “la vera sfida nel realizzare il film
è stata quella di lavorare sui dialoghi e sulla creazione della sceneggiatura,
mentre la fotografia e le scelte stilistiche sono state piuttosto semplici,
visto il mio lavoro di artista concettuale”. E ciò è piuttosto evidente: i personaggi
sembrano implodere nel proprio solipsismo, incapaci non solo di confrontarsi
con le vicende storiche, ma anche di dialogare tra loro.
L’artista ha inoltre dichiarato di
avere con l’Iran una relazione irrisolta, e che proprio per questo motivo
continua a occuparsene. Questo processo evoca un’assenza che si materializza
attraverso la creazione di opere che si servono di archetipi e simbologie.
L’Iran di Neshat sembra essere un luogo artefatto, non solo perché il film è
stato girato in Marocco, quanto piuttosto per il fatto di presentarsi come uno
spazio dell’immaginario che si compone di metafore e allegorie a volte
ridondanti (la casa nascosta nella foresta, protetta e lontana dalla realtà
storica e politica di quei giorni, viene vista da Neshat come “il luogo
della libertà”,
mentre potrebbe forse essere interpretato più correttamente come una fuga dalla
realtà). Certo le allegorie possono essere molteplici: sta di fatto che, nel
corso del film, la rigidità formale e le simbologie delle immagini (che
giustificano le atmosfere onirico-surreali) rallentano lo svolgimento delle
vicende.
Altra dichiarazione dell’artista è
stata quella di voler realizzare un’opera senza tempo, di non aver voluto
prendere posizioni politiche quanto piuttosto di aver mostrato la ripetitività
della storia politica iraniana, visto che le rivolte e i fatti dell’estate del
2009 sono in fondo simili a quelli dell’estate del 1953.
L’urgenza della contemporaneità ha
infatti permesso di trasformare il red carpet del Lido di Venezia in un green
carpet. Neshat e
le attrici del film hanno sfilato indossando abiti o accessori di colore verde
in omaggio al colore scelto dai manifestanti iraniani. Il messaggio di Women
Without Men,
secondo le parole dell’artista, sarebbe quello di ricordare il valore di coloro
che combattono per la libertà e per il riconoscimento dei diritti civili: un
messaggio universale in cui gli individui di tutte le razze possano
identificarsi. “Questa era l’indicazione concettuale del film”, aggiunge l’artista-regista. “L’idea
della libertà è sempre presente nella creazione delle mie opere. In particolare
di quella femminile: in Iran vi sono donne coraggiose e straordinarie che non
temono di combattere per i propri ideali, come Shirin Ebadi, Mansooreh
Motamedi, Nasser Saffarian, per ricordarne solo alcune”.
Le intenzioni della Neshat sono
condivisibili, ma è indubbio che le qualità formali del film da sole non siano
sufficienti per decretare la sua riuscita. Anche se può risultare banale
ricordarlo, il cinema non è videoarte. Lo sforzo di far dialogare le due
discipline non crea altro che un’irrisolta e inutile liaison dangereuse.
Shirin Neshat si trasferisce ancora teenager negli Stati Uniti per studiare arte; lì
rimane anche in seguito all’impossibilità di rimpatriare a causa della
rivoluzione khomeinista. In Iran tornerà solo nel 1990.
Dall’esperienza di quel viaggio
nasce il suo primo lavoro, Women of Allah, serie fotografica sulla rappresentazione delle
donne islamiche accolta con grande interesse dalla critica internazionale.
Vince il Leone d’Oro alla Biennale d’Arte di Venezia del 1999 e il Leone
d’Argento per la miglior regia nel 2009 all’ultima Mostra del Cinema in Laguna
per il lungometraggio Donne senza uomini (Women Without Men).
L’opera è tratta dal romanzo di
Shahrnush Parsipur pubblicato nel ‘90, che è costato sei mesi di carcere
all’autrice, processata insieme al suo editore e rilasciata dietro pagamento di
una forte cauzione. Il libro è ambientato a Teheran nell’estate del ‘53, quando
un colpo di stato guidato da americani e inglesi depone Mohammad Mossadegh,
primo ministro democraticamente eletto, per rimettere al potere lo Shah.
Parsipur racconta queste tumultuose vicende attraverso le vite tormentate di
quattro personaggi femminili.
Un tema quindi già molto vicino al
lavoro di Neshat, che lo ha tradotto non solo in una videoinstallazione
suddivisa in cinque schermi, ma anche in un film. Un progetto che ha avuto
dunque una lunga gestazione, e nel quale la sofisticata ricerca fotografica e
iconografica ha il sopravvento rispetto all’ambientazione realista del contesto
storico-politico. Certo la Neshat non è una documentarista o un’attivista
politica, e ha quindi tutta la libertà di declinare a suo piacere il testo di
Parsipur. Lei stessa ha dichiarato che “la vera sfida nel realizzare il film
è stata quella di lavorare sui dialoghi e sulla creazione della sceneggiatura,
mentre la fotografia e le scelte stilistiche sono state piuttosto semplici,
visto il mio lavoro di artista concettuale”. E ciò è piuttosto evidente: i personaggi
sembrano implodere nel proprio solipsismo, incapaci non solo di confrontarsi
con le vicende storiche, ma anche di dialogare tra loro.
L’artista ha inoltre dichiarato di
avere con l’Iran una relazione irrisolta, e che proprio per questo motivo
continua a occuparsene. Questo processo evoca un’assenza che si materializza
attraverso la creazione di opere che si servono di archetipi e simbologie.
L’Iran di Neshat sembra essere un luogo artefatto, non solo perché il film è
stato girato in Marocco, quanto piuttosto per il fatto di presentarsi come uno
spazio dell’immaginario che si compone di metafore e allegorie a volte
ridondanti (la casa nascosta nella foresta, protetta e lontana dalla realtà
storica e politica di quei giorni, viene vista da Neshat come “il luogo
della libertà”,
mentre potrebbe forse essere interpretato più correttamente come una fuga dalla
realtà). Certo le allegorie possono essere molteplici: sta di fatto che, nel
corso del film, la rigidità formale e le simbologie delle immagini (che
giustificano le atmosfere onirico-surreali) rallentano lo svolgimento delle
vicende.
Altra dichiarazione dell’artista è
stata quella di voler realizzare un’opera senza tempo, di non aver voluto
prendere posizioni politiche quanto piuttosto di aver mostrato la ripetitività
della storia politica iraniana, visto che le rivolte e i fatti dell’estate del
2009 sono in fondo simili a quelli dell’estate del 1953.
L’urgenza della contemporaneità ha
infatti permesso di trasformare il red carpet del Lido di Venezia in un green
carpet. Neshat e
le attrici del film hanno sfilato indossando abiti o accessori di colore verde
in omaggio al colore scelto dai manifestanti iraniani. Il messaggio di Women
Without Men,
secondo le parole dell’artista, sarebbe quello di ricordare il valore di coloro
che combattono per la libertà e per il riconoscimento dei diritti civili: un
messaggio universale in cui gli individui di tutte le razze possano
identificarsi. “Questa era l’indicazione concettuale del film”, aggiunge l’artista-regista. “L’idea
della libertà è sempre presente nella creazione delle mie opere. In particolare
di quella femminile: in Iran vi sono donne coraggiose e straordinarie che non
temono di combattere per i propri ideali, come Shirin Ebadi, Mansooreh
Motamedi, Nasser Saffarian, per ricordarne solo alcune”.
Le intenzioni della Neshat sono
condivisibili, ma è indubbio che le qualità formali del film da sole non siano
sufficienti per decretare la sua riuscita. Anche se può risultare banale
ricordarlo, il cinema non è videoarte. Lo sforzo di far dialogare le due
discipline non crea altro che un’irrisolta e inutile liaison dangereuse.
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La
prima del film in Italia
L’arte
contemporanea nel Middle East
Neshat
da Noire
lorenza pignatti
la rubrica essai è diretta da christian
caliandro
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]