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essai_riusi | Classico Di Leo

di - 28 Settembre 2010
Essai è una rubrica di cinema, ma non si occupa solo di film
appena usciti in sala e di autori che stanno muovendo i primi passi. Vuole
coltivare anche la memoria della cinematografia “dei bei tempi andati”,
soprattutto nazionale, e soprattutto relativa ad autori non conosciutissimi.
Iniziamo perciò questo percorso sotterraneo con uno dei più grandi e
sottovalutati registi del Belpaese, riscoperto non a caso da Quentin
Tarantino
(che lo
ha eletto in cima ai suoi maestri spirituali) e dalla meritoria opera
conservativa dei fratelli Curti: Fernando Di Leo (1932-2003).

Non staremo qui ad elencare i suoi film. Puntiamo solo,
per un attimo, l’attenzione su uno di essi. Si tratta di La mala ordina (1972), la parte centrale della
cosiddetta Trilogia del milieu (gli altri capitoli sono Milano calibro 9 del 1972 e Il boss del 1973). La mala ordina racchiude tutti i temi e gli
stilemi di questo cinema arduo e respingente, dinamico e insostenibile. Ci
parla da un’epoca lontanissima, diversissima dalla nostra, regolata da altri
valori e da altre preoccupazioni. Un’epoca apparentemente più violenta di
quella attuale. Ma se ci avviciniamo, se guardiamo attentamente e assaporiamo
questa violenza che Di Leo mette in scena – e che è diversa, a sua volta, da
quella di un Lenzi,
di un Fulci o
di un Bava
ci accorgiamo che essa è, in qualche modo, più umana di quella che norma il
mondo attuale. Si tratta infatti di una violenza, per così dire, “sociale”,
eminentemente umana. Attraverso la sua pellicola, lascia intravedere in
controluce i conflitti, le contraddizioni di un Paese, le sue dinamiche
economiche e di potere. In una parola, la realtà italiana.

Fernando Di Leo e Mario Adorf
Questa attenzione per la realtà discende dal pieno
inserimento di Di Leo nel noir: i suoi film, tranne uno, non sono infatti mai
“poliziotteschi”, neanche eterodossi, e non è un caso che il punto di
riferimento pressoché costante sia Giorgio Scerbanenco, un altro maestro del
pessimismo esistenziale considerato attraverso l’analisi antropologica del
crimine. Può capitare, così, mentre assistete a La mala ordina, di immaginare per un attimo uno
sguardo così crudo e impietoso rivolto all’Italia del 2010. Impossibile, almeno
allo stato attuale. Uno sguardo dotato della stessa attenzione ai dettagli,
anche sgradevoli, anche insostenibili. Senza paura di essere considerato
imperdonabilmente sopra le righe, di gusto cattivo o cattivissimo, e volutamente, consapevolmente tale. Di Leo,
nei suoi momenti più alti (ma anche questo discorso non ha molto senso: non ci
sono momenti alti e bassi, successi e fallimenti per un regista che ha
combattuto sempre con le difficoltà produttive; ci sono solo condizioni
favorevoli o sfavorevoli) sviluppa una visione matura della vita come lotta
senza quartiere.

Fernando Di Leo - Milano calibro 9 - 1972
Così, anche le scene di prostituzione notturna, che
discendono a loro volta dal primo Fellini e da Pasolini, con l’illustrazione didascalica di una scenetta
oscena, non sono un elemento che “abbassa”, che degrada l’impianto generale:
perché l’impianto del film è il degrado. Quella volgarità è la volgarità di un mondo
intero, non si limita a rappresentarlo ma lo condensa e lo comprende. Un mondo
completamente ostile, che assume la geografia di una Milano aliena e che
irrompe nell’immaginario cinematografico degli anni ‘70 con un’energia
iconografica impressionante. Come già anticipato da Milano calibro 9, la città in piena
trasformazione, resa irriconoscibile dal boom economico tumultuoso e già
lontano (mentre si avvicina precipitosamente la crisi petrolifera), è un
labirinto fatto di navigli, capannoni e luna park abbandonati, percorso dal
protagonista.


Luca Canali: un pappone all’inizio decisamente antipatico,
apparentemente senza alcun senso morale né talento, con il volto e il corpo
auratico di Mario Adorf. La mala ordina è la storia della trasformazione di quest’uomo, un
romanzo di formazione al contrario, un viaggio nella rabbia rivolta contro
regole inconoscibili e una crudeltà cieca. Kafka muscolar-popolare? Qualcosa
del genere. Canali-Adorf è inseguito da due killer americani – che prefigurano, a
livello rudimentale, i tarantiniani Vincent e Jules di Pulp Fiction – e da scagnozzi italiani, e non
sa perché. Ma, gradualmente, scopre al fondo di se stesso la furia cieca da
opporre a questo habitat che lo vuole morto, una violenza che scoppia in
maniera bestiale e graficamente incontenibile. La ragione è la morte della
moglie e della figlia; ma a don Vito Tressoldi (un inquietante Adolfo Celi)
confesserà che il nucleo duro e oscuro che ha mosso il suo agire è la paura. La paura di essere ucciso, ma
anche di perdere la propria umanità, e soprattutto di non comprendere più i
movimenti elementari del suo mondo, i suoi minimi rapporti causali.

E l’umanità è, al fondo, l’interesse principale del cinema
di Fernando Di Leo, l’umanità radicale messa continuamente alla prova da una
malavita irriducibilmente anti-Padrino, esposta e riprodotta in tutta la sua logica
primitiva, che replica a sua volta le prevaricazioni sociali della realtà
“esterna”, legale, letteralmente invisibile.

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christian caliandro


*articolo pubblicato
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