A proposito di “tempi interessanti” a volte le aspettative vengono disattese e così, dopo la presentazione di “May you live in interesting times”, lo scorso marzo, non solo ho la fortuna di intrattenermi a lungo con Paolo Baratta, ma di scoprire anche che il Presidente ha già risposto alle mie domande, inviate per iscritto per una prima visione.
Difficile non sentirsi spiazzati, quando si pensa di aver finito gli argomenti. Ma se le situazioni prendono un’altra piega ecco che è ancora più appassionante saltare da una riga all’altra. Con rigore scientifico, ovviamente, e unendo i punti di un’esperienza che parte da lontano.
E così capita che una domanda riguardante il libro pubblicato da Skira e dedicato alle Biennali presiedute da Carlo Ripa di Meana divenga l’innesco per una conversazione “sovra-intervista”.
«Ripa di Meana, almeno nei primi tre anni della sua presidenza, è stato un grande costruttore dell’istituzione Biennale, processo interrotto dall’edizione del “Dissenso”. Ma mentre molti ricordano questo, dimenticano del tutto il suo importante lavoro precedente, fatto oltretutto in anni difficili, dedicato a mostre, teatro, danza, musica nonché all’archivio storico, alla Biennale dedicata al Cile. E cioè dimenticano la parte svolta nella costruzione di un’istituzione stabile e vitale, dove ogni punto di arrivo è un punto di partenza, dove la stabilità si coniuga con il coraggio e con l’amore del rischio, tutti elementi indispensabili per un’istituzione culturale», attacca Baratta, che apre anche un istantaneo riflettore sulle differenze tra le Biennali di oggi e quelle di ieri.
La Biennale, Giardini, Venezia
«Quella dimenticanza sembra confermare che molti, anche tra gli intellettuali, associavano in passato il nome Biennale non a un’istituzione ma all’idea di un evento verso il quale convergere, una rappresentazione, un grande detour, per di più attraente poiché si svolgeva nel gran teatro che è la città di Venezia. Facevano contrappunto a questa immagine, da un lato l’idea di alienità così ben rappresentata nel famoso film con Alberto Sordi, e dall’altro un atteggiamento di sospetto di una parte della popolazione locale che la “sopportava” quasi fosse un “carnevale intellettuale”, un momento di svago che ancora una volta usava la cornice di Venezia, raccogliendo stravaganti cose e personaggi che, celebrati i loro riti, se ne tornavano a casa lasciando il vuoto, al più qualche frammento dimenticato».
Già, perché si parla sempre dei contenuti delle mostre e dei temi, degli artisti e degli “eventi”, ma un po’ meno dell’impatto che questa istituzione ha sulla città. Dal turismo alla percezione degli stessi cittadini. Sono cambiati i paradigmi, chiedo al Presidente: «Abbiamo fatto un grande lavoro sulle nuove generazioni: 35mila ragazzi dalle scuole italiane e territori circostanti sono l’oggetto di un programma dedicato che mira a creare in essi la precisa sensazione che La Biennale è uno spazio che appartiene anche a loro. È tramite le nuove generazioni che il dialogo col territorio si è fatto intenso e vitale».
Ma non chiamatela “moda dell’arte”, perché su questo punto il Presidente è perentorio. Certo, è vero che la Biennale intorno a sé crea tutto un coté mondano, ma solo per pochi giorni sui sei mesi della sua durata, ma «sarei moralista se dicessi che queste manifestazioni sono da condannare, sono semplicemente su un altro piano. L’importante per noi è riuscire a mantenere la nostra rotta e rivolgersi ai visitatori che verranno».
Quella che ha mantenuto il Presidente, tra varie vicissitudini, da più di dieci anni a oggi: «Sono giunto alla Biennale in occasione di una importante riforma dello statuto, che arrivava dopo la delusione della riforma del 1973, a suo tempo sbandierata come un evento importante post ’68 ma che in realtà fu una consegna della Biennale alle correnti dei vari partiti. Come ho detto la Biennale è stata spesso vissuta da molti come luogo per fenomeni occasionali; c’erano cioè tante Biennali ma mancava “La Biennale” come istituzione durevole permanente. Mancava una strategia che potesse esplicitarsi e realizzarsi nel tempo. Si auspicavano iniziative permanenti o collaterali o di ricerca. Alcuni tentativi del passato di darle una connotazione istituzionale più robusta erano stati poi frustrati. Avendo cercato nella stabilità, condizione importantissima, di costruire un’istituzione capace di autonomia e di compiere autonome scelte, immagino un futuro di ulteriore arricchimento con attenzione alle giovani generazioni, quali quelle impostate in questi anni, in particolare i “college” e lo sviluppo di attività di ricerca come fase ulteriore rispetto all’avvenuta riorganizzazione dell’Archivio Storico. Me la immagino sempre orgogliosamente autonoma».
Corderie dell’Arsenale, Venezia
Un’autonomia che deve bypassare quelle parole per cui Baratta nutre una profonda allergia: “sinergia” per esempio, o “sistema”. Ai primi tempi quando erano presenti fragilità di vario tipo il suggerimento era sovente “fare sinergie”. Ma la formula che è propria del gergo aziendalistico venuto di moda negli anni passati mi ricorda quel che vien suggerito a chi è in crisi e non ce la può fare da solo, e dunque cerca nell’altro quel che non può dare; ma non sempre due debolezze fanno una forza, e ciò è tanto più vero tra le istituzioni culturali, dove ciascuna deve spiccare per il proprio specifico compito. E si torna al punto precedente, ovvero a quelle sempre più numerose iniziative che si sono sviluppate a Venezia sollecitate dalla presenza della Biennale e dalla timeline delle sue iniziative, che tutte si giovano della Magia lagunare (dell’arte e non solo), con la speranza di trarne anch’esse giovamento: «Venezia accoglie vari soggetti che si occupano di arte, ciascuno con la sua specifica missione. Il problema dei soggetti operanti in una città è quello di sviluppare ciascuno una originale propria energia. Quel che serve è l’energia e non il surrogato delle sinergie».
Contano, insomma, “soggetti” e “progetti” in grado di uscire dalla logica dell’evento, e questo a Venezia come in tutte le altre città. Per esempio, c’è stata la grande Expo2015 a Milano nella città più “sistemica” d’Italia. Ma finita la manifestazione, dov’è finita tutta l’attenzione al tema sulla quale la si costruì? Nulla a riguardo si è ripetuto. E dire che sarebbe potuta nascere, come mi permisi di proporre, per esempio una “Biennale dell’alimentazione”, da cui un centro mondiale permanente dedicato sistematicamente a questo grande tema.
Biennale! Se ne sono create nel mondo a centinaia, in realtà va fatta una bella precisazione, perché molti si son presi il nome (che non può essere come tale un trade mark), ma la formula non è stata replicata da nessuno. Ovvero? Ovvero non esiste al mondo alcuna manifestazione come quella che si è sviluppata a partire dal 1895 in laguna: «Nessuna altra istituzione opera stabilmente in sei settori come La Biennale; quindi, ancora una volta, altro è una mostra chiamata Biennale altro è una istituzione chiamata Biennale». A cui bisogna aggiungere, che nessun’altra biennale ospita padiglioni stranieri permanenti; tutt’al più si invita qualche “Paese ospite”.
Ma se Baratta dovesse curare una Biennale, che mostra sarebbe? «Diciamo che già succede, per la parte che mi compete io mi sono sempre sentito un promotore. E così come il curatore deve essere libero di invitare i suoi artisti, io voglio sentirmi libero con i miei consiglieri nel proporre i curatori».
Perché la libertà è una condizione indispensabile per riuscire a essere credibili, per ottenere la fiducia, meglio trasparenti e parziali che condizionati da meccanismi miranti al consenso (o al successo) a tutti i costi: fare scelte, evitando il più possibile accomodanti accorgimenti. E qui un’altra parola che a Baratta non va giù come formula spesso suggerita: l’interdisciplinarietà. «Siamo l’istituzione più multidisciplinare della terra. Ciascuna disciplina deve essere messa nella condizione di svilupparsi al meglio. L’interdisciplinarietà può essere certamente una scelta dagli artisti, se sono interessati a realizzare opere che mettano in campo varie discipline. Ma come programma di un’istituzione mi pare improprio e qualche volta mi sa anche di espediente».
E alla Biennale, in realtà, i sei “comparti” sono stati ben separati: arte, appunto, ma anche architettura, cinema, danza, musica, teatro, ognuna con una precisa identità: «Ogni disciplina è unica e ha bisogno che le siano offerte le condizioni per il suo specifico sviluppo e perché vi possano crescere gli artisti. E poi semmai è importante avere chiaro ciò che veramente accomuna tutti i settori, il loro problema centrale, che è quello del dialogo tra l’opera (e il suo autore) e il visitatore».
L’ultima domanda che poniamo al Presidente, anche sulla scia delle inclinazioni progettuali che si inseguono per questa Biennale 2019 (e che ricalcano le orme del passato prossimo, insistendo sulla forma dell’arte come bene dell’umanità, e sulla maniacale attenzione al valore artistico delle opere rispetto a intrusioni di “interventi” creativi), è politica. O meglio, se può esistere un’arte politica, alla Biennale.
«L’arte difficilmente sfugge alla sensibilità degli artisti per le vicende del loro tempo. Ma poi, abbiamo dato grande impulso all’architettura che è la più politica delle arti, ascoltiamo gli artisti quando ci parlano del tempo presente e futuro e, quindi, di quanto nella storia del nostro tempo ci scuote. Con l’architettura parliamo più direttamente di noi come società civile. Ne sentiamo il bisogno anche se non abbiamo mai pensato agli artisti come agenti diretti di trasformazioni sociali e politiche. Fenomeni che restano una responsabilità di tutti noi».
Buona Biennale, e buoni “tempi interessanti”. Responsabilmente.
Matteo Bergamini