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Κάιν: III Edizione Festival dell’arte Nomadica
Un progetto di ri-mappatura memoriale/immaginaria dei quartieri di Ferentino, con l’intenzione di rivitalizzare e riempire gli spazi di nuovi simboli attraverso un percorso che segue le tracce nomadi degli eredi di Caino, dall’esilio teatrale itinerante ai “falò” degli incontri letterari e oltre.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
La sabbia delle Urne: il falò
I falò interventi poetici, e incontri, piccoli lampi e fuochi fatui nella radura sabbiosa luoghi di approdo e dialogo dopo l’arrivo degli eredi di Caino in spiaggia, alla fine della tempesta e dell’esodo, affinché il linguaggio fondi nuove comunità di sabbia, che sappia perdonare l’imperdonabile e scongiurare il massacro tra fratelli.
"Quando il Baal Schem, il fondatore dello chassidismo,
doveva assolvere un compito difficile, andava in un
certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le
preghiere e ciò che voleva si realizzava. Quando, una
generazione dopo, il Maggid di Meseritsch si trovò di
fronte allo stesso problema, si recò in quel posto nel bo-
sco e disse: “Non sappiamo piú accendere il fuoco, ma
possiamo dire le preghiere” – e tutto avvenne secondo
il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi
Mosche Leib di Sassov si trovò nella stessa situazione,
andò nel bosco e disse: “Non sappiamo piú accendere
il fuoco, non sappiamo piú dire le preghiere, ma cono-
sciamo il posto nel bosco, e questo deve bastare”. E in-
fatti bastò. Ma quando un’altra generazione trascorse
e Rabbi Israel di Rischin dovette anch’egli misurarsi
con la stessa difficoltà, restò nel suo castello, si mise a sedere sulla sua sedia dorata e disse: “Non sappiamo
piú accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le
preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bo-
sco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”.
E, ancora una volta, questo bastò."
La sabbia delle urne e i falò
Operazione mitopoietica di affratellamento tra stranieri, come scrive Paul Celan, "consegna delle braci", seguendo il nostro primo ospite Gm.Cornelio
Falò per fuggiaschi e naufraghi appena scesi in spiaggia.
Falò e cenere. Ciò che resta del fuoco.
Falò come quelli di Pavese, ritirati nelle montagne a guardare lo sfacelo dei fascismi, nascosti nei boschi.
Falò come le piccole fiamme di candele invocate da Bachelard, fuoco dell'immaginazione labile.
Il fuoco come traccia dei racconti passati.
Falò, come punto di sosta e depensamento, come nei vagabondaggi di Dark Souls.
Tanti faló per dialogare segretamente e non un fuoco centrale, da cui gli altri sono dipendenti: un recupero della funzione sciamanica della poesia.
Faló, infine, come ne La strada di Cormac McCarthy, alla cui memoria il festival è dedicato.
"Perché noi portiamo il fuoco
SEZIONE/
La sabbia delle urne/ il falò:
-Next Generation /
Sabbie
dialoghi e fotografie sul popolo migrante residente a Roma, Arianna Massimi, a cura di Emanuele Paragallo
-Caino nella tradizione poetica del novecento
Ceneri
Matteo Tasca
Italòi
Crisocolle
-Fughe e deragliamenti geo-poietici per liriche neo-classiche
una raccolta di poesie di Giacomo Navarra
-Nati da un nido di stagno
Fuochi e fuochi fatui
Poesie di Fosca Navarra e Luciano De Vivo
-Affetti Instabili
Gesso e ghiaia
Poesie di Alessia Lombardi
- Campi perduti
Per isole di akibu e spiriti nascituri
Da Tundra e Peive e poesie di Francesca Matteoni
Il festival dell’arte nomadica
Un festival geo-filosofico
Festival dell’arte Nomadica
III Edizione
Κάιν
קַיִן
Per una neo-cosmologia del pensiero nomade:
dall'età della colpa all'età del perdono cosmico
Breve premessa: che cos'è il Festival dell'arte nomadica
Il festival dell’arte nomadica è nato il 7 Settembre 2021 e questa premessa è la copia del progetto inviato due anni fa come proposta. Il festival è un progetto di ri-mappatura memoriale collettiva e “biologale”. Secondo Andrea Zanzotto il biologale è ciò che si riferisce ad un paesaggio:
abitato non da uno soltanto, ma da innumerevoli cervelli ambulanti, da mille specchi diversi ma contigui che lo creano e che, a loro volta, da esso sono creati di continuo: il paesaggio diviene pertanto qualcosa di “biologale”, una certa qual trascendente unità cui puntano miriadi di raggi, di tentativi di auto-definizione, di notificazioni di presenza
Ri-mappare un paese, cioè ri-simbolizzarlo, creando nuove mitopoiesi, vuol dire dire costruire un mega-teatro della memoria all’aperto, pensare le strade come stanze in cui sono custoditi i ricordi di ognuno di noi, entrare in una via e sentire echeggiare i nostri passi lontani nel tempo, fare gran rumore, venire da tempi perduti per chiamarsi al ricordo.
Andare a Piazza x perché sulla mappa c’è segnato il ricordo di un amico che aiuterà a proseguire nella ricerca di un nostro caro che non riusciamo a trovare.
Omeopatia. Mimetizzarsi con la nostra esperienza passata, farne un gioco, per esorcizzarla.
Un tentativo di elaborare il trauma collettivo. Le mappe sono chiaramente metafore di uno sforzo di tracciare via di riconoscibilità all’interno di uno spazio di smarrimento. Uno sforzo di memoria, perché spazializzare vuol dire ricordare, fissare i punti dei nostri incontri che più che nel tempo, sono radicati nei luoghi. E infine, uno sforzo di pensare l’altro che non c’è, perché fare una ricognizione delle passeggiate di chi non vediamo, è desiderio di incontrarlo, di far sì che esista, di presupporne, anche presuntuosamente, la vita.
Si potrebbe dire incontri, malgrado tutto, prendendo in prestito il titolo di un celebre testo di Georges Didi Huberman, Immagini malgrado tutto, un libro dedicato alla possibilità di immaginare e descrivere l’esperienza dei sommersi e dei salvati dell’Olocausto, nonostante l’inimmaginabilitá dell’evento.
E proprio questo è stato il compito del festival, dare un volto a questo trauma, non sopprimere il tempo trascorso.
Cartografie della memoria, sismografi del trauma o atlanti dell’esili.
Un teatro della memoria itinerante in cui è possibile visitare i nostri ricordi come se fossero scatole in una soffitta, come un serie tv, una serie tv all’aperto, distesa come una planimetria. Questa spazializzazione della memoria richiama l’arte memoriale evocata da Frances Yates, quella dei palazzi memoriali della retorica di Quintiliano, quella del teatrum mundi di Giordano Bruno, che unisce luoghi disparati uniti in uno stesso spazio come siti della memoria segnati nel corso di un viaggio, quelli, infine, del montaggio cinematografico, dei fotogrammi disposti come stanze dai disegni architettonici di Bernard Tschumi.
Un percorso che dialoga con la realtà viva del paese, con la memoria di pietra delle mura, seguendo in questo senso l’adagio del restauratore e dell’urbanista, che stratifica, non congela.
Un invito a realizzare la propria mappa del sogno, la mappa delle proprie fughe possibili e virtuali durante un periodo di ristretta mobilità.
Questa proposta fa capo all’idea, presente anche in cartografia, che una mappa risulta incompleta, se presenta soltanto un punto di vista. Ecco, le nostre mappe disegnate in solitudine, se sono mappe di qualcosa, sono mappe di una lacuna, di una mancanza, di un desiderio dell’altro.
La nostra mappa lacunosa, delle rovine non sarebbe una mappa urbanista, come quella pensata da Sisto V per Roma come memoriale di sé stessa, una città i cui “monumenti e memoriali” sarebbero ‹‹collegati da strade e percorsi significativi››, ma una mappa post-urbanista, un intrico
di soglie da setacciare scavando, ‹‹meno quel che esiste ancora che quanto manca: ciò che è irrimediabilmente scomparso, che è stato trafugato o si è magari solo decomposto e però sussiste ancora come spazio cavo: i punti vuoti, o le forme vuote››; mappa di soglie “immaginarie e reali”.
Nella mappa post-urbana non ci troviamo in un territorio in cui l’iscrizione commemorativa e la sua assenza sono distinti nettamente, ma ‹‹nel regno degli ipogrammi, sottotesti o infratesti ipotizzati[…] come tropi indicanti contemporaneamente la firma e la sua cancellazione.››
Kάιν: genesi dello spazio e della comunità degli amici
Dopo l’eco della I Edizione, Ἠχώ o Le transumanze dell’eco, il tempo della II edizione, Chronos, la III Edizione inaugura lo spazio: Κάιν.
Immaginando che il mondo precedente sia stato obliato dalla fenditura traumatica della pandemia, il festival dell’arte nomadica ambisce dal suo inizio, nel 2021, ad una palingenesi che procede dapprima attraverso l’eco sbiadito del mondo precedente, poi alla registrazione/conformazione temporale, all’imposizione del padre Crono che divora i suoi figli, e infine alla distensione spaziale, la condanna al nomadismo di Caino. Un trauma storico è infatti un buco nero: esiste sempre un prima e un dopo l’Evento traumatico, in mezzo al quale si dilata un grande vuoto, un ritorno al caos in cui la memoria è lacerata e indicibile.
Questa sarebbe in un certo senso una cosmologia ciclica conforme, in accordo a quella proposta da Roger Penrose: la fine di un universo coincide con l’inizio di uno nuovo, dato che la bassa entropia successiva alla morte termica dell'Universo (il momento in cui invece l'entropia è massima) sarebbe la stessa che c'era prima del Big Bang, a causa dell'evaporazione dei buchi neri.
Come nel teatro greco, i figli ereditano le colpe dei padri, così Caino ripete la colpa del padre simbolico Chronos, divoratore di figli. L’eredità cainitica consiste nel non aver mai realmente compiuto la rivoluzione, scegliendo piuttosto di allearsi con il padre, rivolgendosi invece contro i fratelli stessi, motori della rivoluzione mancata, e perciò perpetuando il sacrificio del futuro da parte del passato nel presente.
Nell’esplosione rivoluzionaria in quanto Evento, traluce un’altra dimensione utopica, la dimensione dell’emancipazione universale, la quale è appunto quell’eccedenza tradita dalla realtà del mercato che ha preso il sopravvento “il giorno dopo” - sicché, quest’eccedenza non è semplicemente abolita e congedata come irrilevante, ma viene per così dire invertita allo stato virtuale, e continua a ossessionare l’immaginario dell’emancipazione come un sogno che attende di essere realizzato. L’eccedenza dell’entusiasmo rivoluzionario sulla sua “base sociale effettiva” o sostanza è letteralmente quella di un effetto-attributo sulla sua causa sostanziale, un Evento spettrale che attende di potersi incarnare appropriatamente.
Nella seconda edizione, Aion, la divorata, il tempo vissuto, la figlia di Chronos, si sacrificava, poiché in essa dormiva il padre, il tempo storico che schiaccia il tempo della vita. In questo sacrificio rituale si sacrificava perciò il tempo stesso, per inaugurare lo spazio, il luogo delle filiazioni, delle eredità che si propagano orizzontalmente, senza tempo, entropicamente. Filogrammi della segnatura: miceli le cui efflorescenze sono le Arche, i relitti riaffiorati dalla città sommersa, progetti collaterali di mostre mobili-organiche che individuano luoghi antichi marginalizzati, i cosiddetti “inconsci spaziali” della città, per ri-investirli simbolicamente di nuovi significati: la chiesa di S.Lucia, l’Arca-luce degli iper-oggetti, l’eremo di S.Celestino V, l’Arca-fuga, e il mercato romano, l’arca-sogno).
Chronos, che veniva considerato nella dimensione sincretica proposta da Cicerone, che già legava concettualmente il dio orfico Chronos a quello greco Krònos e poi a quello latino Saturno:
«Krònos, altro non è che una leggera variante di chrònos, tempo. Quanto poi al nome Saturno deriva dal fatto che questo dio è saturo di anni. La finzione che divorasse i suoi figli sta a simboleggiare che il tempo distrugge i giorni che passano e fa degli anni trascorsi il suo nutrimento senza mai saziarsi. Analogamente si immaginò che il figlio Giove lo incatenasse per evitare che si abbandonasse a movimenti disordinati e per conservarlo avvinto ai moti degli astri»
aveva un legame spaziale specifico con il territorio ciociaro, dal momento che si dice che, dopo la cacciata, fuggì in esilio in queste terre, fondando le città saturnine, che infatti mostrano questa genealogia nelle sue mura ciclopiche. Potremmo, forzando un po’, immaginare che le mura siano state edificate con la carne stessa, il sangue dei suoi figli ciclopi.
Questa colpa contamina la terra che ospita il festival, la Valle del Sacco, uno dei territori più inquinati d’Italia, il cui fiume Sacco è sede di continui sversamenti e dello smaltimento dei rifiuti prodotti dalle industrie createsi intorno, tra cui eternit e soprattutto, come segnala Oniro, che ha recentemente realizzato un murales ecologico all’interno del paese, “il beta-esclorocicloesano, la sostanza alla base del lindano”. Una terra avvelenata di rimorso, come direbbe Ernesto de Martino, i cui frutti nascono marciti di colpa.
Una terra, dunque, che non è casa per i propri figli, ma esilio, deserto, contaminazione: i figli ereditano il marchio della fuga e dell’esilio, nascono contaminati dalle sue acque inquinate. Se il nomade è individuato dalla presenza del deserto, allora questa è una terra segnata dal nomadismo, essendo essa un deserto, dal punto di vista delle strutture, delle proposte culturali, del livello di salute.
Oltre all’industrializzazione, anche l’abusivismo edilizio e il generale abbandono di questi territori, se non, soprattutto, il declino dell’architettura e dell’urbanistica a settori dell’igiene, cioè a discipline che hanno indirizzi ideologici che si esplicano, non in una scienza dell’abitare, ma in schemi che inducano a tenere comportamenti igienici e morali, all’interno di dispositivi istituzionali concentrazionari, caratterizzano qualcosa che potremmo indicare come “perdita del genius loci”.
Considerando che, per la concezione miticoreligiosa, ‹‹il mondo coincide con il suo racconto›› ed essendo le parti di tale racconto circoscritte al luogo in cui esiste tale racconto, lo sradicamento da questo mondo comporterebbe una separazione dal racconto, cioè una separazione dal mondo stesso, dalla possibilità di indicarlo e di farvi riferimento.
L’eredità nomadica è stata l’opportunità per trovare una casa più grande, che non fosse localizzata nel territorio, ma nell’essere stesso. ‹‹La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque. […]essere sempre e allo stesso tempo nella totalità››, totalità che è il mondo, laddove ‹‹il nostro essere è un essere-sospinti.››
I figli mutanti hanno ereditato un fattore X che li ha modificati, rendendoli orfani, separandoli da una piena appartenenza alla terra natia: questo fattore X è lo stesso che dona loro il potere di generare un nuovo sguardo sulla terra e così dire in altro modo quello che il nome deciso dai predecessori aveva marchiato, avvelenandolo con logiche lontane dalla dis-chiusura dell’essenza delle cose, cioè da un rapporto pieno di fiducia con il mondo, ma mediato da meccanismi economici e sociali.
L’ingresso nel simbolo di Caino è in realtà l’inizio di quella catastrofe, localizzata nell’olocausto, il culmine del non riconoscimento dell’Altro come fratello, che Primo Levi definisce nei termini di una vergogna, “la vergogna di essere uomo”, che stabilisce il nostro prima di cui e dopo di cui, e che apre una zona di indeterminazione temporale che si sprofonda in un pensare anacronistico e spaziale: alla società dei fratelli dei greci; la catastrofe consiste nel fatto che ‹‹questi fratelli non possano più guardare in faccia sé stessi o gli altri senza una “fatica”, forse un diffidenza, che diventano movimenti infiniti di pensiero, che non sopprimono l’amicizia, ma le danno il suo colore moderno di cubismo››.
L’ingresso di Caino evoca perciò il suo contrario: il problema della responsabilità, ricaduta sui figli, chiama in causa una nuova esigenza di confrontarsi, di non avere più legittimazioni che provengano dal padre. Per questo Kain sancisce l’inizio della società degli amici, la ricerca delle opinioni che ci legano al mondo e alla nostra terra.
“ Bisogna dunque che l’immanenza del vissuto a un soggetto trascendentale faccia dell’opinione una proto-opinone alla cui costituzione partecipano l’arte e la cultura, e che si esprime come un atto di trascendenza di questo soggetto nel vissuto, in modo da formare una comunità di amici
La vergogna dell’atto fratricida fondativo chiede l’attuazione di un perdono che non è umano, ma divino, perché impossibile. E questo perdono impossibile è la forma di superamento dell’età della colpa e il passaggio all’età del perdono cosmico.
«Pietro si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù a lui: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22).
Non c’è perdono se si resta tra le cose umane. Bisogna uscire dalla logica dello scambio, accettare in un certo senso l’impossibilità del perdono, accettare l’imperdonabile, e accettare che si dia perdono solamente là dove non si dà commercio, solamente là dove il perdono non è richiesto, dove non si prospetta la punizione e non si mira alla riabilitazione. Il perdono fonda il riconoscimento dell’altro, ne diventa la precondizione. «Al principio ci sarà stata la parola “perdono”», dice Derrida. Al principio di ogni convivenza, deve esserci la possibilità di riconoscere una pluralità di soggetti. Il perdono è la soglia che tiene insieme la distanza dall’altro, e dunque la possibilità di essere in due, e la non assolutizzazione di tale distanza, la capacità di entrare in relazione con l’altro, e dunque, di nuovo, la possibilità di essere in due. Al principio di ogni rivolgersi all’altro, di ogni parlare e di ogni scrivere, c’è un atto di perdono richiesto e accordato.
I falò interventi poetici, e incontri, piccoli lampi e fuochi fatui nella radura sabbiosa luoghi di approdo e dialogo dopo l’arrivo degli eredi di Caino in spiaggia, alla fine della tempesta e dell’esodo, affinché il linguaggio fondi nuove comunità di sabbia, che sappia perdonare l’imperdonabile e scongiurare il massacro tra fratelli.
"Quando il Baal Schem, il fondatore dello chassidismo,
doveva assolvere un compito difficile, andava in un
certo posto nel bosco, accendeva un fuoco, diceva le
preghiere e ciò che voleva si realizzava. Quando, una
generazione dopo, il Maggid di Meseritsch si trovò di
fronte allo stesso problema, si recò in quel posto nel bo-
sco e disse: “Non sappiamo piú accendere il fuoco, ma
possiamo dire le preghiere” – e tutto avvenne secondo
il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi
Mosche Leib di Sassov si trovò nella stessa situazione,
andò nel bosco e disse: “Non sappiamo piú accendere
il fuoco, non sappiamo piú dire le preghiere, ma cono-
sciamo il posto nel bosco, e questo deve bastare”. E in-
fatti bastò. Ma quando un’altra generazione trascorse
e Rabbi Israel di Rischin dovette anch’egli misurarsi
con la stessa difficoltà, restò nel suo castello, si mise a sedere sulla sua sedia dorata e disse: “Non sappiamo
piú accendere il fuoco, non siamo capaci di recitare le
preghiere e non conosciamo nemmeno il posto nel bo-
sco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia”.
E, ancora una volta, questo bastò."
La sabbia delle urne e i falò
Operazione mitopoietica di affratellamento tra stranieri, come scrive Paul Celan, "consegna delle braci", seguendo il nostro primo ospite Gm.Cornelio
Falò per fuggiaschi e naufraghi appena scesi in spiaggia.
Falò e cenere. Ciò che resta del fuoco.
Falò come quelli di Pavese, ritirati nelle montagne a guardare lo sfacelo dei fascismi, nascosti nei boschi.
Falò come le piccole fiamme di candele invocate da Bachelard, fuoco dell'immaginazione labile.
Il fuoco come traccia dei racconti passati.
Falò, come punto di sosta e depensamento, come nei vagabondaggi di Dark Souls.
Tanti faló per dialogare segretamente e non un fuoco centrale, da cui gli altri sono dipendenti: un recupero della funzione sciamanica della poesia.
Faló, infine, come ne La strada di Cormac McCarthy, alla cui memoria il festival è dedicato.
"Perché noi portiamo il fuoco
SEZIONE/
La sabbia delle urne/ il falò:
-Next Generation /
Sabbie
dialoghi e fotografie sul popolo migrante residente a Roma, Arianna Massimi, a cura di Emanuele Paragallo
-Caino nella tradizione poetica del novecento
Ceneri
Matteo Tasca
Italòi
Crisocolle
-Fughe e deragliamenti geo-poietici per liriche neo-classiche
una raccolta di poesie di Giacomo Navarra
-Nati da un nido di stagno
Fuochi e fuochi fatui
Poesie di Fosca Navarra e Luciano De Vivo
-Affetti Instabili
Gesso e ghiaia
Poesie di Alessia Lombardi
- Campi perduti
Per isole di akibu e spiriti nascituri
Da Tundra e Peive e poesie di Francesca Matteoni
Il festival dell’arte nomadica
Un festival geo-filosofico
Festival dell’arte Nomadica
III Edizione
Κάιν
קַיִן
Per una neo-cosmologia del pensiero nomade:
dall'età della colpa all'età del perdono cosmico
Breve premessa: che cos'è il Festival dell'arte nomadica
Il festival dell’arte nomadica è nato il 7 Settembre 2021 e questa premessa è la copia del progetto inviato due anni fa come proposta. Il festival è un progetto di ri-mappatura memoriale collettiva e “biologale”. Secondo Andrea Zanzotto il biologale è ciò che si riferisce ad un paesaggio:
abitato non da uno soltanto, ma da innumerevoli cervelli ambulanti, da mille specchi diversi ma contigui che lo creano e che, a loro volta, da esso sono creati di continuo: il paesaggio diviene pertanto qualcosa di “biologale”, una certa qual trascendente unità cui puntano miriadi di raggi, di tentativi di auto-definizione, di notificazioni di presenza
Ri-mappare un paese, cioè ri-simbolizzarlo, creando nuove mitopoiesi, vuol dire dire costruire un mega-teatro della memoria all’aperto, pensare le strade come stanze in cui sono custoditi i ricordi di ognuno di noi, entrare in una via e sentire echeggiare i nostri passi lontani nel tempo, fare gran rumore, venire da tempi perduti per chiamarsi al ricordo.
Andare a Piazza x perché sulla mappa c’è segnato il ricordo di un amico che aiuterà a proseguire nella ricerca di un nostro caro che non riusciamo a trovare.
Omeopatia. Mimetizzarsi con la nostra esperienza passata, farne un gioco, per esorcizzarla.
Un tentativo di elaborare il trauma collettivo. Le mappe sono chiaramente metafore di uno sforzo di tracciare via di riconoscibilità all’interno di uno spazio di smarrimento. Uno sforzo di memoria, perché spazializzare vuol dire ricordare, fissare i punti dei nostri incontri che più che nel tempo, sono radicati nei luoghi. E infine, uno sforzo di pensare l’altro che non c’è, perché fare una ricognizione delle passeggiate di chi non vediamo, è desiderio di incontrarlo, di far sì che esista, di presupporne, anche presuntuosamente, la vita.
Si potrebbe dire incontri, malgrado tutto, prendendo in prestito il titolo di un celebre testo di Georges Didi Huberman, Immagini malgrado tutto, un libro dedicato alla possibilità di immaginare e descrivere l’esperienza dei sommersi e dei salvati dell’Olocausto, nonostante l’inimmaginabilitá dell’evento.
E proprio questo è stato il compito del festival, dare un volto a questo trauma, non sopprimere il tempo trascorso.
Cartografie della memoria, sismografi del trauma o atlanti dell’esili.
Un teatro della memoria itinerante in cui è possibile visitare i nostri ricordi come se fossero scatole in una soffitta, come un serie tv, una serie tv all’aperto, distesa come una planimetria. Questa spazializzazione della memoria richiama l’arte memoriale evocata da Frances Yates, quella dei palazzi memoriali della retorica di Quintiliano, quella del teatrum mundi di Giordano Bruno, che unisce luoghi disparati uniti in uno stesso spazio come siti della memoria segnati nel corso di un viaggio, quelli, infine, del montaggio cinematografico, dei fotogrammi disposti come stanze dai disegni architettonici di Bernard Tschumi.
Un percorso che dialoga con la realtà viva del paese, con la memoria di pietra delle mura, seguendo in questo senso l’adagio del restauratore e dell’urbanista, che stratifica, non congela.
Un invito a realizzare la propria mappa del sogno, la mappa delle proprie fughe possibili e virtuali durante un periodo di ristretta mobilità.
Questa proposta fa capo all’idea, presente anche in cartografia, che una mappa risulta incompleta, se presenta soltanto un punto di vista. Ecco, le nostre mappe disegnate in solitudine, se sono mappe di qualcosa, sono mappe di una lacuna, di una mancanza, di un desiderio dell’altro.
La nostra mappa lacunosa, delle rovine non sarebbe una mappa urbanista, come quella pensata da Sisto V per Roma come memoriale di sé stessa, una città i cui “monumenti e memoriali” sarebbero ‹‹collegati da strade e percorsi significativi››, ma una mappa post-urbanista, un intrico
di soglie da setacciare scavando, ‹‹meno quel che esiste ancora che quanto manca: ciò che è irrimediabilmente scomparso, che è stato trafugato o si è magari solo decomposto e però sussiste ancora come spazio cavo: i punti vuoti, o le forme vuote››; mappa di soglie “immaginarie e reali”.
Nella mappa post-urbana non ci troviamo in un territorio in cui l’iscrizione commemorativa e la sua assenza sono distinti nettamente, ma ‹‹nel regno degli ipogrammi, sottotesti o infratesti ipotizzati[…] come tropi indicanti contemporaneamente la firma e la sua cancellazione.››
Kάιν: genesi dello spazio e della comunità degli amici
Dopo l’eco della I Edizione, Ἠχώ o Le transumanze dell’eco, il tempo della II edizione, Chronos, la III Edizione inaugura lo spazio: Κάιν.
Immaginando che il mondo precedente sia stato obliato dalla fenditura traumatica della pandemia, il festival dell’arte nomadica ambisce dal suo inizio, nel 2021, ad una palingenesi che procede dapprima attraverso l’eco sbiadito del mondo precedente, poi alla registrazione/conformazione temporale, all’imposizione del padre Crono che divora i suoi figli, e infine alla distensione spaziale, la condanna al nomadismo di Caino. Un trauma storico è infatti un buco nero: esiste sempre un prima e un dopo l’Evento traumatico, in mezzo al quale si dilata un grande vuoto, un ritorno al caos in cui la memoria è lacerata e indicibile.
Questa sarebbe in un certo senso una cosmologia ciclica conforme, in accordo a quella proposta da Roger Penrose: la fine di un universo coincide con l’inizio di uno nuovo, dato che la bassa entropia successiva alla morte termica dell'Universo (il momento in cui invece l'entropia è massima) sarebbe la stessa che c'era prima del Big Bang, a causa dell'evaporazione dei buchi neri.
Come nel teatro greco, i figli ereditano le colpe dei padri, così Caino ripete la colpa del padre simbolico Chronos, divoratore di figli. L’eredità cainitica consiste nel non aver mai realmente compiuto la rivoluzione, scegliendo piuttosto di allearsi con il padre, rivolgendosi invece contro i fratelli stessi, motori della rivoluzione mancata, e perciò perpetuando il sacrificio del futuro da parte del passato nel presente.
Nell’esplosione rivoluzionaria in quanto Evento, traluce un’altra dimensione utopica, la dimensione dell’emancipazione universale, la quale è appunto quell’eccedenza tradita dalla realtà del mercato che ha preso il sopravvento “il giorno dopo” - sicché, quest’eccedenza non è semplicemente abolita e congedata come irrilevante, ma viene per così dire invertita allo stato virtuale, e continua a ossessionare l’immaginario dell’emancipazione come un sogno che attende di essere realizzato. L’eccedenza dell’entusiasmo rivoluzionario sulla sua “base sociale effettiva” o sostanza è letteralmente quella di un effetto-attributo sulla sua causa sostanziale, un Evento spettrale che attende di potersi incarnare appropriatamente.
Nella seconda edizione, Aion, la divorata, il tempo vissuto, la figlia di Chronos, si sacrificava, poiché in essa dormiva il padre, il tempo storico che schiaccia il tempo della vita. In questo sacrificio rituale si sacrificava perciò il tempo stesso, per inaugurare lo spazio, il luogo delle filiazioni, delle eredità che si propagano orizzontalmente, senza tempo, entropicamente. Filogrammi della segnatura: miceli le cui efflorescenze sono le Arche, i relitti riaffiorati dalla città sommersa, progetti collaterali di mostre mobili-organiche che individuano luoghi antichi marginalizzati, i cosiddetti “inconsci spaziali” della città, per ri-investirli simbolicamente di nuovi significati: la chiesa di S.Lucia, l’Arca-luce degli iper-oggetti, l’eremo di S.Celestino V, l’Arca-fuga, e il mercato romano, l’arca-sogno).
Chronos, che veniva considerato nella dimensione sincretica proposta da Cicerone, che già legava concettualmente il dio orfico Chronos a quello greco Krònos e poi a quello latino Saturno:
«Krònos, altro non è che una leggera variante di chrònos, tempo. Quanto poi al nome Saturno deriva dal fatto che questo dio è saturo di anni. La finzione che divorasse i suoi figli sta a simboleggiare che il tempo distrugge i giorni che passano e fa degli anni trascorsi il suo nutrimento senza mai saziarsi. Analogamente si immaginò che il figlio Giove lo incatenasse per evitare che si abbandonasse a movimenti disordinati e per conservarlo avvinto ai moti degli astri»
aveva un legame spaziale specifico con il territorio ciociaro, dal momento che si dice che, dopo la cacciata, fuggì in esilio in queste terre, fondando le città saturnine, che infatti mostrano questa genealogia nelle sue mura ciclopiche. Potremmo, forzando un po’, immaginare che le mura siano state edificate con la carne stessa, il sangue dei suoi figli ciclopi.
Questa colpa contamina la terra che ospita il festival, la Valle del Sacco, uno dei territori più inquinati d’Italia, il cui fiume Sacco è sede di continui sversamenti e dello smaltimento dei rifiuti prodotti dalle industrie createsi intorno, tra cui eternit e soprattutto, come segnala Oniro, che ha recentemente realizzato un murales ecologico all’interno del paese, “il beta-esclorocicloesano, la sostanza alla base del lindano”. Una terra avvelenata di rimorso, come direbbe Ernesto de Martino, i cui frutti nascono marciti di colpa.
Una terra, dunque, che non è casa per i propri figli, ma esilio, deserto, contaminazione: i figli ereditano il marchio della fuga e dell’esilio, nascono contaminati dalle sue acque inquinate. Se il nomade è individuato dalla presenza del deserto, allora questa è una terra segnata dal nomadismo, essendo essa un deserto, dal punto di vista delle strutture, delle proposte culturali, del livello di salute.
Oltre all’industrializzazione, anche l’abusivismo edilizio e il generale abbandono di questi territori, se non, soprattutto, il declino dell’architettura e dell’urbanistica a settori dell’igiene, cioè a discipline che hanno indirizzi ideologici che si esplicano, non in una scienza dell’abitare, ma in schemi che inducano a tenere comportamenti igienici e morali, all’interno di dispositivi istituzionali concentrazionari, caratterizzano qualcosa che potremmo indicare come “perdita del genius loci”.
Considerando che, per la concezione miticoreligiosa, ‹‹il mondo coincide con il suo racconto›› ed essendo le parti di tale racconto circoscritte al luogo in cui esiste tale racconto, lo sradicamento da questo mondo comporterebbe una separazione dal racconto, cioè una separazione dal mondo stesso, dalla possibilità di indicarlo e di farvi riferimento.
L’eredità nomadica è stata l’opportunità per trovare una casa più grande, che non fosse localizzata nel territorio, ma nell’essere stesso. ‹‹La filosofia è propriamente nostalgia, un impulso ad essere a casa propria ovunque. […]essere sempre e allo stesso tempo nella totalità››, totalità che è il mondo, laddove ‹‹il nostro essere è un essere-sospinti.››
I figli mutanti hanno ereditato un fattore X che li ha modificati, rendendoli orfani, separandoli da una piena appartenenza alla terra natia: questo fattore X è lo stesso che dona loro il potere di generare un nuovo sguardo sulla terra e così dire in altro modo quello che il nome deciso dai predecessori aveva marchiato, avvelenandolo con logiche lontane dalla dis-chiusura dell’essenza delle cose, cioè da un rapporto pieno di fiducia con il mondo, ma mediato da meccanismi economici e sociali.
L’ingresso nel simbolo di Caino è in realtà l’inizio di quella catastrofe, localizzata nell’olocausto, il culmine del non riconoscimento dell’Altro come fratello, che Primo Levi definisce nei termini di una vergogna, “la vergogna di essere uomo”, che stabilisce il nostro prima di cui e dopo di cui, e che apre una zona di indeterminazione temporale che si sprofonda in un pensare anacronistico e spaziale: alla società dei fratelli dei greci; la catastrofe consiste nel fatto che ‹‹questi fratelli non possano più guardare in faccia sé stessi o gli altri senza una “fatica”, forse un diffidenza, che diventano movimenti infiniti di pensiero, che non sopprimono l’amicizia, ma le danno il suo colore moderno di cubismo››.
L’ingresso di Caino evoca perciò il suo contrario: il problema della responsabilità, ricaduta sui figli, chiama in causa una nuova esigenza di confrontarsi, di non avere più legittimazioni che provengano dal padre. Per questo Kain sancisce l’inizio della società degli amici, la ricerca delle opinioni che ci legano al mondo e alla nostra terra.
“ Bisogna dunque che l’immanenza del vissuto a un soggetto trascendentale faccia dell’opinione una proto-opinone alla cui costituzione partecipano l’arte e la cultura, e che si esprime come un atto di trascendenza di questo soggetto nel vissuto, in modo da formare una comunità di amici
La vergogna dell’atto fratricida fondativo chiede l’attuazione di un perdono che non è umano, ma divino, perché impossibile. E questo perdono impossibile è la forma di superamento dell’età della colpa e il passaggio all’età del perdono cosmico.
«Pietro si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte perdonerò mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù a lui: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22).
Non c’è perdono se si resta tra le cose umane. Bisogna uscire dalla logica dello scambio, accettare in un certo senso l’impossibilità del perdono, accettare l’imperdonabile, e accettare che si dia perdono solamente là dove non si dà commercio, solamente là dove il perdono non è richiesto, dove non si prospetta la punizione e non si mira alla riabilitazione. Il perdono fonda il riconoscimento dell’altro, ne diventa la precondizione. «Al principio ci sarà stata la parola “perdono”», dice Derrida. Al principio di ogni convivenza, deve esserci la possibilità di riconoscere una pluralità di soggetti. Il perdono è la soglia che tiene insieme la distanza dall’altro, e dunque la possibilità di essere in due, e la non assolutizzazione di tale distanza, la capacità di entrare in relazione con l’altro, e dunque, di nuovo, la possibilità di essere in due. Al principio di ogni rivolgersi all’altro, di ogni parlare e di ogni scrivere, c’è un atto di perdono richiesto e accordato.
15
settembre 2023
Κάιν: III Edizione Festival dell’arte Nomadica
Dal 15 al 23 settembre 2023
arte contemporanea
cinema
fotografia
libri ed editoria
musica
teatro
altro
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Location
SEDI VARIE – Ferentino
Ferentino, -, (Frosinone)
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Orario di apertura
15 Settembre ore 18
dal 22 al 23: 15-18(mostre)
22: dalle 21(spettacolo)
23: dalle 19 alle 22( dialoghi di poesia)
23: dalle 22 e 30( concerto)
24: dalle 15( giochi di ruolo)
Sito web
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Frosinonecity
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