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58. Biennale di Venezia – Padiglione Italia: Né altra Né questa: La sfida al Labirinto
Progetto che cerca di dare forma all’intricata complessità dei rapporti che definiscono l’esperienza del conoscere. Avvalendosi della struttura fisica e metaforica del labirinto, la mostra mette in scena l’impossibilità di ridurre l’esistenza a un insieme di traiettorie pulite e prevedibili, cercando piuttosto di evocare la non linearità, il dubbio, la transitorietà e l’intuizione come strumenti ineludibili del sapere umano
Comunicato stampa
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Né altra Né questa: La sfida al Labirinto è un progetto che cerca di dare forma all’intricata
complessità dei rapporti che definiscono l’esperienza del conoscere. Avvalendosi della
struttura fisica e metaforica del labirinto, la mostra mette in scena l’impossibilità di ridurre
l’esistenza a un insieme di traiettorie pulite e prevedibili, cercando piuttosto di evocare la non linearità, il dubbio, la transitorietà e l’intuizione come strumenti ineludibili del sapere umano.
Uno dei concetti chiave di Né altra Né questa, maturato insieme al coordinatore scientifico
Stella Bottai, è l’idea della “sfida al labirinto” formulata dal romanziere e critico Italo Calvino nell’omonimo saggio del 1962, tradotto per la prima volta in inglese nel catalogo della nostra mostra. Ne “La sfida al labirinto”, lo scrittore elabora i termini di un progetto
culturale che cerca una letteratura aperta “a tutti i linguaggi possibili”. In risposta alle
complessità della cultura industriale, Calvino propone un lavoro intellettuale che si senta
corresponsabile nella costruzione di un mondo che ha perso i propri punti di riferimento
tradizionali e non chiede più di essere semplicemente rappresentato. Per visualizzare le
ingarbugliate forme della contemporaneità, Calvino suggerisce così l’efficace metafora, cara
anche a Jorge Luis Borges, del labirinto: un intrico di linee, immagini, tendenze
apparentemente in disaccordo, in realtà costruito secondo regole rigorose. “È la sfida al
labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo
enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto”.
Ogni spazio è, di regola, identificato dalla sua funzione pratica o simbolica: in chiesa o in un
salotto, il nostro sguardo, le nostre azioni e il nostro cammino vengono orientati con
dolcezza o severità, con urgenza o calma, con evidenza o garbato mistero. E appunto in
quanto spazio, anche il labirinto non sfugge a una teleologia spaziale, anzi, ne è forse la più
premeditata delle manifestazioni: il suo determinismo progettuale è schiacciante. Dal
labirinto, una volta entrati, si deve uscire. Nessun’altra azione è concessa se non il tentativo
di andare verso una scappatoia, una fuga. Nella sua ‘sfida’, tuttavia, Calvino non è alla
ricerca di una risoluzione; piuttosto si interroga su come poter vivere dall’interno in maniera
attiva l’esperienza del labirinto esistenziale.
L’essenza labirintica non è altro che costante differimento: la continua diversione del fine
ultimo di questo spazio dell’immaginazione è il suo eterno presente, il suo esserci. Spazioossimoro per eccellenza, fa della contraddizione la sua regola organizzativa. Come se ogni
angolo fosse un continuo “no! no! no!”, che invece di far avvicinare alla meta la fa
progressivamente dimenticare. E solo nella dimenticanza di ciò che sembra essenziale,
urgente, capitale, si trova la libertà. Liberi dall’ideologia dell’arrivo si può cominciare a danzare in tondo, a seguire con piacere le deviazioni, fino a trovar quasi la curva nella retta, o la retta nella curva, negli atomi infiniti dello spazio finalmente dilatato che si fa tempo in purezza, dimentichi del fardello della nostra umanità, o forse pienamente umani.
Gli artisti coinvolti sono Enrico David (Ancona, 1966), Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari,
2017) e Liliana Moro (Milano, 1961). Sebbene molto diversi, le loro opere e biografie – su cui
mi soffermerò a breve – sono significativi percorsi artistici contemporanei che si distinguono
per spirito di ricerca tra passato e presente. Nel labirinto di Né altra Né questa, che abbiamo
disegnato insieme a Liliana ed Enrico, con la compagnia astrale di Chiara e con l’attento
contributo progettuale dell’exhibition designer Valerio Di Lucente, coesistono diversi centri, e
non in perfetto asse. Stanze di varia misura, pareti di diverse altezze, aperture e passaggi
accessibili e non attraversano le due stanze del padiglione rendendole di fatto uno spazio
concettualmente unico. Le opere esposte in stretto dialogo con l’allestimento ne rivelano la
natura rizomatica, penetrano e attraversano le pareti, a generare continuamente nuove vie.
Nel nostro labirinto, per citare Umberto Eco, “anche le scelte sbagliate producono soluzioni e
tuttavia contribuiscono a complicare il problema”.
Le opere d’arte sono collocate strategicamente in diversi punti del percorso con l’intento di
mettere in relazione diretta le tre pratiche artistiche e insieme di enfatizzare meccanismi di
drammaticità e sorpresa nell’incontro tra l’opera e il pubblico. Allo spettatore si affida la
possibilità di prendere decisioni e orientare il proprio percorso in una direzione piuttosto che
in un’altra, creando molteplici narrative percorribili sul modello del meccanismo del librogioco (o libro-game), caro anche allo stesso Calvino, il cui Castello dei Destini Incrociati (1969)
è esempio di letteratura combinatoria in cui le storie nascono da “un numero finito di
elementi le cui combinazioni si moltiplicano”.
L’attivazione del ruolo dello spettatore come partecipante chiave nella creazione di un senso
per la mostra è tratto fondamentale del progetto. L’esplorazione di un labirinto non è, in
fondo, altro che una messa a confronto tra l’individuo e l’esito delle proprie scelte. Il titolo
della mostra, Né altra né questa, che in inglese abbiamo scelto di tradurre con Neither Nor,
riecheggia un titolo del filosofo danese Søren Kierkegaard: Aut-Aut (1843), in inglese Either/
Or. L’opera, che si interroga sulle modalità dell’esistenza, esplora, attraverso gli scritti e i
pensieri di due personaggi immaginari, altrettante possibilità: una è la vita estetica,
edonistica, improntata al piacere, l’altra invece è quella etica, che si basa sulla responsabilità
e il rispetto degli altri. Resta ancora oggi in dubbio quale sia davvero la strada consigliata
dall’autore, il quale descrive con così tanto coinvolgimento e passione la via edonistica da
non sembrare pronto a rinunciarvi completamente. L’attesa del piacere è essa stessa il
piacere, come sosteneva Gotthold Ephraim Lessing?
In attesa di scoprirlo e di fronte alla decisione di avventurarsi o meno nel nostro labirinto, vi
lascio con alcune avvertenze d’uso, consigli per la navigazione o per l’eventuale naufragio:
indugiare e non avere paura. Non esiste il perdersi, ma solo il tornare sui propri passi, ed è
legittimo: regredire non significa peggiorare. Godete il senso di un tempo dilatato e non
abbiate ansia di dover vedere e leggere tutto. Ogni strada si ricongiunge a un’altra, ogni
scelta è giusta, non ne esiste una sbagliata. Lo spazio è generoso, offre ossigeno, non è
soffocante: si apre, non si chiude. Forse a un certo punto potreste persino trovare voi stessi,
come afferma Mario Praz: “Sovente l’uomo vi trova se medesimo, ecco perché in fondo al
labirinto di frequente è collocato uno specchio: l’ultimo mistero della ricerca, dio nascosto o
mostro, è lui stesso”. Se sarete più fortunati, invece, da una breccia nel muro o sotto l’orlo
di un tendaggio che non tocca il pavimento potreste addirittura incontrare qualcun altro
che vi distragga, per un momento, da voi stessi e vi faccia ancora una volta cambiar strada, distogliendovi dalla ricerca infinita di assoluti introvabili, finalmente interrotta da un affetto improvviso o da una simpatia spontanea, trovati dietro un angolo o nel lampo
di un riflesso.
ENRICO DAVID
Dopo aver partecipato due volte all’Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di
Venezia – con Francesco Bonami nel 2003 e Massimiliano Gioni nel 2013 – Enrico David
(Ancona, 1966) rappresenta l’Italia per la prima volta quest’anno. La sua pratica artistica ha
un legame stretto con la memoria e con il passato, sia nei contenuti sia nella forma.
Attraverso le sue opere David mette in scena ricordi personali e collettivi, esprimendo una
vasta gamma di stati emotivi e recuperando tecniche tradizionali. Il suo lavoro riflette un
bagaglio culturale dai tratti italiani sia nei riferimenti estetici e storico-artistici sia nella
scelta di alcuni materiali tipici della manifattura artigianale. Tuttavia il suo immaginario è
ricco di suggestioni maturate nel corso degli anni, a partire dalla formazione avvenuta
prevalentemente a Londra, dove ancora oggi risiede. La figura umana è uno dei temi
ricorrenti di David, che la elabora e la restituisce come testimonianza di continue
trasformazioni, attraverso diversi mezzi espressivi tra cui la scultura, la pittura, il disegno, la
tessitura di arazzi e l’installazione. Le sue figure antropomorfe asessuate e le sue
configurazioni nascono da intuizioni ed evolvono in un processo di sintesi inclusiva che
travalica i confini individuali e diventa traccia riconoscibile e condivisibile collettivamente.
Le immagini che popolano il mondo plastico e pittorico di Enrico sono rassegnate,
sbottonate, contorte, grottesche, claudicanti, a volte mostruose e armate di strumenti a noi
incomprensibili, che talvolta si sdoppiano e si ripetono tanto da formare labirinti
contenutistici e formali.
Congiuntamente alla presentazione di alcune opere storiche, che verranno rivisitate e
aggiornate per Venezia, la selezione dei lavori esposti si concentra su nuove produzioni. Da
figure antropomorfe a scala naturale in bronzo a piccoli oggetti e dipinti, tutte queste opere
sono concepite da David specificatamente per questo itinerario espositivo. David inoltre
risponde direttamente, con una scultura, a un intervento di Chiara Fumai.
CHIARA FUMAI
Scomparsa a soli 39 anni nell’agosto 2017, Chiara Fumai è stata un’importante artista
ammirata sia in Italia che all’estero per aver sviluppato una dedicata rilettura in chiave
femminista del canone storico occidentale da sempre improntato su valori di dominazione
patriarcale. Sebbene cessata prematuramente, la sua carriera ha avuto un’influenza
profonda sulle generazioni successive, visibile soprattutto in questi ultimi anni di riacceso e
diffuso interesse verso pratiche magiche e culti profani in relazione al discorso femminista.
Con il suo lavoro, Fumai ha portato avanti un’indagine rigorosa,
dai toni personali, passionali e non accademici, focalizzata su avvenimenti e personaggi
storici, reali e fittizi, rappresentativi della marginalizzazione subita dalle donne nel corso dei
secoli in varie situazioni e contesti dalla cultura alla religione e la politica. La sua ricerca,
non solo critica ma anche, sempre, profondamente propositiva, si attualizzava nel presente
soprattutto attraverso lavori performativi, spesso in formato di lezione, messi in scena
dall’artista stessa. Con i suoi collages, ambienti e impersonazioni, Fumai riportava alla luce
e ridava voce a figure di opposizione alla cultura dominante, come le femministe Carla
Lonzi e Valerie Solanas, la medium Eusapia Palladino, la dogaressa Elisabetta Querini
Valier, e altre donne ancora, spesso dimenticate, marginalizzate, o villipese come la circense
Zalumma Agra. L’uso della parola - scritta, pronunciata, ricamata, talvolta codificata in sigilli magici – era chiave per Fumai: dalla minaccia all’apologia, dall’augurio al sortilegio, la valenza simbolica e rappresentativa del verbo diventava strumento essenziale per
l’annunciazione, emancipazione e realizzazione pratica di un modus operandi alternativo
all’oppressione patriarcale. Per il Padiglione Italia, verrà presentata in esclusiva e anteprima
assoluta una nuova produzione di Fumai. Questo lavoro, inedito, sarà accompagnato da
opere del passato selezionate con il prezioso aiuto di The Church of Chiara Fumai,
organizzazione di cui sono tra i fondatori, presieduta dalla madre di Chiara, Liliana Fumai,
e diretta da Francesco Urbano Ragazzi.
LILIANA MORO
Invitata a partecipare alla nona edizione di Documenta del 1992, Liliana Moro propose di
installare una Fiat Cinquecento che, perennemente in moto, tentasse invano di trainare con
un cavo la pesante struttura del Fredericianum – sede della mostra in cui erano esposte le
opere dei maggiori rappresentanti dell’Arte Povera. Seppur non realizzato, il progetto vive
oggi in forma di collage e rimane rappresentativo dell’attitudine di quest’artista nei
confronti del passato: il lavoro di Liliana Moro si prende carico della storia e di portarla
oltre. Un’operazione che, a detta dell’artista stessa, si avvale proprio di quella “sottrazione di
peso” stilistica celebrata da Calvino nella prima delle sue Lezioni Americane, La Leggerezza
(1985).
Lavorando con diversi materiali e in diversa scala, Liliana Moro ha attitudine
all’essenzialità. Da non confondersi con uno stile minimal, il suo fare netto e preciso porta
alla creazione di gesti apparentemente semplici che, proprio in quanto tali, si aprono a una
miriade di interpretazioni diverse. Poetica ma non romantica, Moro mette in gioco contenuti
e oggetti d’uso comune non tanto per illustrarli quanto per rivisitare la loro funzione
originale e invitarci ad andare oltre ciò che è visibile. Un importante filo conduttore nella
sua ricerca è l’uso dello spazio nelle sue declinazioni formali, concettuali e semantiche: per
esempio attraverso interventi nello spazio pubblico, o con l’alterazione dei rapporti di scala
tra oggetti, per arrivare alla spazialità intrinseca a molte sue opere, che spesso instaurano
meccanismi di relazione con lo spettatore tali per cui un’azione attiva, come l’abbassarsi o il
salire, diventa implicitamente necessaria all’esperienza.
Per il Padiglione Italia verranno presentate alcune opere storiche accanto a nuove
produzioni, comprendenti non solo nuove commissioni ma anche lavori esistenti e mai
esposti, accumulati dall’artista nel proprio studio nel corso degli anni. Questa costellazione
mette insieme i momenti fondativi della ricerca dell’artista e del suo sviluppo, dando
visibilità alla viscerale coerenza nell’arco di un lungo tempo del suo iter.
Milovan Farronato
Curatore del Padiglione Italia
complessità dei rapporti che definiscono l’esperienza del conoscere. Avvalendosi della
struttura fisica e metaforica del labirinto, la mostra mette in scena l’impossibilità di ridurre
l’esistenza a un insieme di traiettorie pulite e prevedibili, cercando piuttosto di evocare la non linearità, il dubbio, la transitorietà e l’intuizione come strumenti ineludibili del sapere umano.
Uno dei concetti chiave di Né altra Né questa, maturato insieme al coordinatore scientifico
Stella Bottai, è l’idea della “sfida al labirinto” formulata dal romanziere e critico Italo Calvino nell’omonimo saggio del 1962, tradotto per la prima volta in inglese nel catalogo della nostra mostra. Ne “La sfida al labirinto”, lo scrittore elabora i termini di un progetto
culturale che cerca una letteratura aperta “a tutti i linguaggi possibili”. In risposta alle
complessità della cultura industriale, Calvino propone un lavoro intellettuale che si senta
corresponsabile nella costruzione di un mondo che ha perso i propri punti di riferimento
tradizionali e non chiede più di essere semplicemente rappresentato. Per visualizzare le
ingarbugliate forme della contemporaneità, Calvino suggerisce così l’efficace metafora, cara
anche a Jorge Luis Borges, del labirinto: un intrico di linee, immagini, tendenze
apparentemente in disaccordo, in realtà costruito secondo regole rigorose. “È la sfida al
labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo
enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto”.
Ogni spazio è, di regola, identificato dalla sua funzione pratica o simbolica: in chiesa o in un
salotto, il nostro sguardo, le nostre azioni e il nostro cammino vengono orientati con
dolcezza o severità, con urgenza o calma, con evidenza o garbato mistero. E appunto in
quanto spazio, anche il labirinto non sfugge a una teleologia spaziale, anzi, ne è forse la più
premeditata delle manifestazioni: il suo determinismo progettuale è schiacciante. Dal
labirinto, una volta entrati, si deve uscire. Nessun’altra azione è concessa se non il tentativo
di andare verso una scappatoia, una fuga. Nella sua ‘sfida’, tuttavia, Calvino non è alla
ricerca di una risoluzione; piuttosto si interroga su come poter vivere dall’interno in maniera
attiva l’esperienza del labirinto esistenziale.
L’essenza labirintica non è altro che costante differimento: la continua diversione del fine
ultimo di questo spazio dell’immaginazione è il suo eterno presente, il suo esserci. Spazioossimoro per eccellenza, fa della contraddizione la sua regola organizzativa. Come se ogni
angolo fosse un continuo “no! no! no!”, che invece di far avvicinare alla meta la fa
progressivamente dimenticare. E solo nella dimenticanza di ciò che sembra essenziale,
urgente, capitale, si trova la libertà. Liberi dall’ideologia dell’arrivo si può cominciare a danzare in tondo, a seguire con piacere le deviazioni, fino a trovar quasi la curva nella retta, o la retta nella curva, negli atomi infiniti dello spazio finalmente dilatato che si fa tempo in purezza, dimentichi del fardello della nostra umanità, o forse pienamente umani.
Gli artisti coinvolti sono Enrico David (Ancona, 1966), Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari,
2017) e Liliana Moro (Milano, 1961). Sebbene molto diversi, le loro opere e biografie – su cui
mi soffermerò a breve – sono significativi percorsi artistici contemporanei che si distinguono
per spirito di ricerca tra passato e presente. Nel labirinto di Né altra Né questa, che abbiamo
disegnato insieme a Liliana ed Enrico, con la compagnia astrale di Chiara e con l’attento
contributo progettuale dell’exhibition designer Valerio Di Lucente, coesistono diversi centri, e
non in perfetto asse. Stanze di varia misura, pareti di diverse altezze, aperture e passaggi
accessibili e non attraversano le due stanze del padiglione rendendole di fatto uno spazio
concettualmente unico. Le opere esposte in stretto dialogo con l’allestimento ne rivelano la
natura rizomatica, penetrano e attraversano le pareti, a generare continuamente nuove vie.
Nel nostro labirinto, per citare Umberto Eco, “anche le scelte sbagliate producono soluzioni e
tuttavia contribuiscono a complicare il problema”.
Le opere d’arte sono collocate strategicamente in diversi punti del percorso con l’intento di
mettere in relazione diretta le tre pratiche artistiche e insieme di enfatizzare meccanismi di
drammaticità e sorpresa nell’incontro tra l’opera e il pubblico. Allo spettatore si affida la
possibilità di prendere decisioni e orientare il proprio percorso in una direzione piuttosto che
in un’altra, creando molteplici narrative percorribili sul modello del meccanismo del librogioco (o libro-game), caro anche allo stesso Calvino, il cui Castello dei Destini Incrociati (1969)
è esempio di letteratura combinatoria in cui le storie nascono da “un numero finito di
elementi le cui combinazioni si moltiplicano”.
L’attivazione del ruolo dello spettatore come partecipante chiave nella creazione di un senso
per la mostra è tratto fondamentale del progetto. L’esplorazione di un labirinto non è, in
fondo, altro che una messa a confronto tra l’individuo e l’esito delle proprie scelte. Il titolo
della mostra, Né altra né questa, che in inglese abbiamo scelto di tradurre con Neither Nor,
riecheggia un titolo del filosofo danese Søren Kierkegaard: Aut-Aut (1843), in inglese Either/
Or. L’opera, che si interroga sulle modalità dell’esistenza, esplora, attraverso gli scritti e i
pensieri di due personaggi immaginari, altrettante possibilità: una è la vita estetica,
edonistica, improntata al piacere, l’altra invece è quella etica, che si basa sulla responsabilità
e il rispetto degli altri. Resta ancora oggi in dubbio quale sia davvero la strada consigliata
dall’autore, il quale descrive con così tanto coinvolgimento e passione la via edonistica da
non sembrare pronto a rinunciarvi completamente. L’attesa del piacere è essa stessa il
piacere, come sosteneva Gotthold Ephraim Lessing?
In attesa di scoprirlo e di fronte alla decisione di avventurarsi o meno nel nostro labirinto, vi
lascio con alcune avvertenze d’uso, consigli per la navigazione o per l’eventuale naufragio:
indugiare e non avere paura. Non esiste il perdersi, ma solo il tornare sui propri passi, ed è
legittimo: regredire non significa peggiorare. Godete il senso di un tempo dilatato e non
abbiate ansia di dover vedere e leggere tutto. Ogni strada si ricongiunge a un’altra, ogni
scelta è giusta, non ne esiste una sbagliata. Lo spazio è generoso, offre ossigeno, non è
soffocante: si apre, non si chiude. Forse a un certo punto potreste persino trovare voi stessi,
come afferma Mario Praz: “Sovente l’uomo vi trova se medesimo, ecco perché in fondo al
labirinto di frequente è collocato uno specchio: l’ultimo mistero della ricerca, dio nascosto o
mostro, è lui stesso”. Se sarete più fortunati, invece, da una breccia nel muro o sotto l’orlo
di un tendaggio che non tocca il pavimento potreste addirittura incontrare qualcun altro
che vi distragga, per un momento, da voi stessi e vi faccia ancora una volta cambiar strada, distogliendovi dalla ricerca infinita di assoluti introvabili, finalmente interrotta da un affetto improvviso o da una simpatia spontanea, trovati dietro un angolo o nel lampo
di un riflesso.
ENRICO DAVID
Dopo aver partecipato due volte all’Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di
Venezia – con Francesco Bonami nel 2003 e Massimiliano Gioni nel 2013 – Enrico David
(Ancona, 1966) rappresenta l’Italia per la prima volta quest’anno. La sua pratica artistica ha
un legame stretto con la memoria e con il passato, sia nei contenuti sia nella forma.
Attraverso le sue opere David mette in scena ricordi personali e collettivi, esprimendo una
vasta gamma di stati emotivi e recuperando tecniche tradizionali. Il suo lavoro riflette un
bagaglio culturale dai tratti italiani sia nei riferimenti estetici e storico-artistici sia nella
scelta di alcuni materiali tipici della manifattura artigianale. Tuttavia il suo immaginario è
ricco di suggestioni maturate nel corso degli anni, a partire dalla formazione avvenuta
prevalentemente a Londra, dove ancora oggi risiede. La figura umana è uno dei temi
ricorrenti di David, che la elabora e la restituisce come testimonianza di continue
trasformazioni, attraverso diversi mezzi espressivi tra cui la scultura, la pittura, il disegno, la
tessitura di arazzi e l’installazione. Le sue figure antropomorfe asessuate e le sue
configurazioni nascono da intuizioni ed evolvono in un processo di sintesi inclusiva che
travalica i confini individuali e diventa traccia riconoscibile e condivisibile collettivamente.
Le immagini che popolano il mondo plastico e pittorico di Enrico sono rassegnate,
sbottonate, contorte, grottesche, claudicanti, a volte mostruose e armate di strumenti a noi
incomprensibili, che talvolta si sdoppiano e si ripetono tanto da formare labirinti
contenutistici e formali.
Congiuntamente alla presentazione di alcune opere storiche, che verranno rivisitate e
aggiornate per Venezia, la selezione dei lavori esposti si concentra su nuove produzioni. Da
figure antropomorfe a scala naturale in bronzo a piccoli oggetti e dipinti, tutte queste opere
sono concepite da David specificatamente per questo itinerario espositivo. David inoltre
risponde direttamente, con una scultura, a un intervento di Chiara Fumai.
CHIARA FUMAI
Scomparsa a soli 39 anni nell’agosto 2017, Chiara Fumai è stata un’importante artista
ammirata sia in Italia che all’estero per aver sviluppato una dedicata rilettura in chiave
femminista del canone storico occidentale da sempre improntato su valori di dominazione
patriarcale. Sebbene cessata prematuramente, la sua carriera ha avuto un’influenza
profonda sulle generazioni successive, visibile soprattutto in questi ultimi anni di riacceso e
diffuso interesse verso pratiche magiche e culti profani in relazione al discorso femminista.
Con il suo lavoro, Fumai ha portato avanti un’indagine rigorosa,
dai toni personali, passionali e non accademici, focalizzata su avvenimenti e personaggi
storici, reali e fittizi, rappresentativi della marginalizzazione subita dalle donne nel corso dei
secoli in varie situazioni e contesti dalla cultura alla religione e la politica. La sua ricerca,
non solo critica ma anche, sempre, profondamente propositiva, si attualizzava nel presente
soprattutto attraverso lavori performativi, spesso in formato di lezione, messi in scena
dall’artista stessa. Con i suoi collages, ambienti e impersonazioni, Fumai riportava alla luce
e ridava voce a figure di opposizione alla cultura dominante, come le femministe Carla
Lonzi e Valerie Solanas, la medium Eusapia Palladino, la dogaressa Elisabetta Querini
Valier, e altre donne ancora, spesso dimenticate, marginalizzate, o villipese come la circense
Zalumma Agra. L’uso della parola - scritta, pronunciata, ricamata, talvolta codificata in sigilli magici – era chiave per Fumai: dalla minaccia all’apologia, dall’augurio al sortilegio, la valenza simbolica e rappresentativa del verbo diventava strumento essenziale per
l’annunciazione, emancipazione e realizzazione pratica di un modus operandi alternativo
all’oppressione patriarcale. Per il Padiglione Italia, verrà presentata in esclusiva e anteprima
assoluta una nuova produzione di Fumai. Questo lavoro, inedito, sarà accompagnato da
opere del passato selezionate con il prezioso aiuto di The Church of Chiara Fumai,
organizzazione di cui sono tra i fondatori, presieduta dalla madre di Chiara, Liliana Fumai,
e diretta da Francesco Urbano Ragazzi.
LILIANA MORO
Invitata a partecipare alla nona edizione di Documenta del 1992, Liliana Moro propose di
installare una Fiat Cinquecento che, perennemente in moto, tentasse invano di trainare con
un cavo la pesante struttura del Fredericianum – sede della mostra in cui erano esposte le
opere dei maggiori rappresentanti dell’Arte Povera. Seppur non realizzato, il progetto vive
oggi in forma di collage e rimane rappresentativo dell’attitudine di quest’artista nei
confronti del passato: il lavoro di Liliana Moro si prende carico della storia e di portarla
oltre. Un’operazione che, a detta dell’artista stessa, si avvale proprio di quella “sottrazione di
peso” stilistica celebrata da Calvino nella prima delle sue Lezioni Americane, La Leggerezza
(1985).
Lavorando con diversi materiali e in diversa scala, Liliana Moro ha attitudine
all’essenzialità. Da non confondersi con uno stile minimal, il suo fare netto e preciso porta
alla creazione di gesti apparentemente semplici che, proprio in quanto tali, si aprono a una
miriade di interpretazioni diverse. Poetica ma non romantica, Moro mette in gioco contenuti
e oggetti d’uso comune non tanto per illustrarli quanto per rivisitare la loro funzione
originale e invitarci ad andare oltre ciò che è visibile. Un importante filo conduttore nella
sua ricerca è l’uso dello spazio nelle sue declinazioni formali, concettuali e semantiche: per
esempio attraverso interventi nello spazio pubblico, o con l’alterazione dei rapporti di scala
tra oggetti, per arrivare alla spazialità intrinseca a molte sue opere, che spesso instaurano
meccanismi di relazione con lo spettatore tali per cui un’azione attiva, come l’abbassarsi o il
salire, diventa implicitamente necessaria all’esperienza.
Per il Padiglione Italia verranno presentate alcune opere storiche accanto a nuove
produzioni, comprendenti non solo nuove commissioni ma anche lavori esistenti e mai
esposti, accumulati dall’artista nel proprio studio nel corso degli anni. Questa costellazione
mette insieme i momenti fondativi della ricerca dell’artista e del suo sviluppo, dando
visibilità alla viscerale coerenza nell’arco di un lungo tempo del suo iter.
Milovan Farronato
Curatore del Padiglione Italia
08
maggio 2019
58. Biennale di Venezia – Padiglione Italia: Né altra Né questa: La sfida al Labirinto
Dall'otto maggio al 24 novembre 2019
arte contemporanea
Location
ARSENALE
Venezia, Campo Della Tana (Castello), (Venezia)
Venezia, Campo Della Tana (Castello), (Venezia)
Orario di apertura
Chiuso il lunedì (escluso lunedì 13 maggio, 2 settembre e 18 novembre)
Giardini e Arsenale
h. 10.00 – 18.00
Solo sede Arsenale: venerdì e sabato fino al 5 ottobre chiusura alle h. 20.00
Vernissage
8 Maggio 2019, su invito
Ufficio stampa
PAOLA MANFREDI
Autore
Curatore