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A noi fu dato in sorte questo tempo 1938-1947
Mostra multimediale interattiva progettata e realizzata da N!03 studio ennezerotre
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Il “noi” del titolo della mostra individua un gruppo di giovani amici torinesi, studenti o
appena laureati, che le leggi razziali del 1938 avevano costretto a riconoscersi come ebrei o
amici di ebrei. Si chiamavano: Primo Levi, Luciana Nissim, Emanuele Artom, Franco Momigliano,
Vanda Maestro, Silvio Ortona, Ada Della Torre, Giorgio Segre, Alberto Salmoni, Bianca Guidetti
Serra, Franco Sacerdoti, Lino Jona, Eugenio Gentili Tedeschi.
A loro è dedicata la mostra A noi fu dato in sorte questo tempo 1938 -1947, nata dagli studi di
Alessandra Chiappano sull’archivio privato di Luciana Nissim Momigliano e su altri documenti
inediti. La mostra che si colloca all’interno delle celebrazioni del Giorno della Memoria, verrà
inaugurata il 26 gennaio 2010 presso l’Archivio di Stato – Sezioni Riunite di Torino di via
Piave 21.
Non una mostra sul fascismo, né sulle leggi razziali, né sulla Shoah, ma il racconto a più
voci per i giovani di oggi delle storie intrecciate di quei giovani di allora che, come disse uno
di loro, Silvio Ortona, ebbero in sorte questo tempo, arrivando a subire alcuni il dramma della
deportazione e tutti le tensioni delle scelte irrevocabili.
Il progetto di allestimento, multimediale e innovativo, è ideato e realizzato da N!03 studio
ennezerotre ed è un percorso interattivo, fatto di voci, di luci, di immagini, in cui la storia dei
singoli si intreccia con la grande storia, creando un rapporto intimo tra il pubblico e le storie dei
protagonisti. Grazie a una cartolina ricevuta all’ingresso, il visitatore accede alle postazioni
multimediali e ripercorre la storia di quegli anni attraverso i pensieri, le parole pronunciate, i ricordi
di Luciana Nissim, di Primo Levi, di Franco Momigliano e degli altri protagonisti.
La montagna, la giovinezza, la negazione della libertà, la memoria sono le parole, le scansioni
attorno alle quali si sviluppa il percorso e l’allestimento scenografico della mostra, segnando allo
stesso tempo la cronologia degli avvenimenti accaduti dal 1938 al 1947.
Così rivivono le vicende di quel gruppo di giovani che, spinti dall’esclusione imposta loro dalle leggi
razziali del 1938, presero a incontrasi – prima presso la biblioteca della Scuola Ebraica di Torino,
poi a Milano nella casa di Ada della Torre -, a conoscersi, a discutere di letteratura, ad andare in
montagna, a intrecciare legami di amicizia e d’amore. Poi il 1943 e la scelta della Resistenza,
quando la montagna e le città vicine si trasformano in luogo di lotta, di rifugio o in trappola mortale,
fino al dramma per alcuni dell’arresto e della deportazione, dapprima a Fossoli, poi ad Auschwitz. Il
percorso si conclude con il racconto di chi è tornato e ha testimoniato anche per coloro che dai
campi di concentramento non hanno mai fatto ritorno.
Hanno collaborato all’iniziativa: CGIL Lombardia, Istituto piemontese per la Storia della Resistenza
e della società contemporanea “Giorgio Agosti”, Fondazione ex campo Fossoli, Archivio
nazionale cinematografico della Resistenza, Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea in provincia di Modena, Istituto storico della Resistenza e della società
contemporanea in Valle d’Aosta, Fondazione Memoria della Deportazione, Centro di
documentazione ebraica contemporanea di Milano e i familiari dei protagonisti della mostra.
La mostra A noi fu dato in sorte questo tempo 1937-1948 sarà a Torino dal 27 gennaio al 20
marzo, successivamente sarà allestita nell’ex campo di Fossoli (Modena) dal 25 aprile al 22
maggio e presso il Forte di Bard in Valle d’Aosta dal 3 luglio al 10 agosto.
Il catalogo della mostra è a cura di Alessandra Chiappano e, per la parte grafica, di Vanda
Maestro. Il sito della mostra è www.iltempoinsorte.it.
La mostra è incentrata sulla storia di giovani assolutamente “normali” che, come afferma Silvio
Ortona, hanno avuto in sorte “un tempo straordinario” e hanno dovuto confrontarsi con scelte
drammatiche; alcuni di loro hanno conosciuto l’esperienza estrema della deportazione. Le storie dei
singoli incrociano la grande storia e si inquadrano in eventi assai complessi che sottendono nodi
storiografici di grande rilevanza, come il rapporto resistenza- fascismo-mondo ebraico; tuttavia questa
non vuole essere una mostra sul fascismo, né sulle leggi razziali né sulla shoah, ma si propone di
raccontare la storia d’amore e di amicizia di un gruppo di giovani e del tempo che hanno attraversato.
La maggior parte di loro erano ebrei ed hanno dovuto fare i conti con il fatto di essere rifiutati ed
esclusi dalla società civile. Hanno provato allora a confrontarsi fra di loro, allontanandosi da quel
regime fascista che li aveva costretti a vedersi discriminati in quanto ebrei. Erano tutti intellettuali,
studenti o appena laureati e amanti della montagna, che ha giocato un ruolo non irrilevante nelle loro
vicende umane ed esistenziali. Le amicizie, che hanno cominciato a stringere durante gli anni che
vanno dall’emanazione delle leggi razziali alla fatidica estate del 1943, in alcuni casi si sono
mantenute per tutta la vita, anche se il dipanarsi delle loro sorti li ha portati ad allontanarsi dalla Torino
della Biblioteca della scuola ebraica, che ha rappresentato il loro primo luogo di ritrovo. Gli amici si
chiamavano Emanuele Artom, Luciana Nissim, Vanda Maestro, Primo Levi, Eugenio Gentili Tedeschi,
Giorgio Segre, Franco Momigliano, Giorgio Diena, Ada Della Torre, Silvio Ortona, Alberto Salmoni,
Bianca Guidetti Serra, Lino Jona. Alcuni di loro costituivano il gruppo più assiduo dei frequentatori
della Biblioteca, altri erano più marginali, tuttavia si conoscevano e si frequentavano, magari in modo
più episodico. Tutti quanti in varia misura parteciparono alla resistenza, alcuni conobbero il buco nero
di Auschwitz: Primo Levi, Vanda Maestro, Luciana Nissim, a cui a Fossoli si unirà Franco Sacerdoti,
un giovane ebreo napoletano, che si era trasferito a Torino e che fu arrestato in Val di Lanzo. Dei
quattro deportati fecero ritorno solo Luciana e Primo e scrissero, subito dopo la liberazione, due testi
divenuti due “classici” della letteratura concentrazionaria: I ricordi della casa dei morti, edito presso
Ramella nel 1946, e Se questo è un uomo, uscito dapprima a puntate sul periodico vercellese diretto
da Silvio Ortona, “Il giornale del popolo” e poi presso la casa editrice De Silva, di Franco Antonicelli,
nel 1947. Primo per tutta la vita e Luciana solo negli ultimi dieci anni della sua esistenza
testimoniarono anche per coloro che non fecero ritorno.
Questa storia è dedicata soprattutto a coloro che, in quegli anni drammatici, persero la vita nel Lager o
sulle montagne.
La mostra si divide in quattro sezioni:
La “foto di gruppo”
In questo primo ambiente vengono presentati tutti i personaggi. Alcuni di loro erano legati da vincoli di
parentela, ma si è andato formando un gruppo amicale coeso ed unito e più esteso quando le leggi
razziali, emanate nel 1938 dal regime fascista, dopo una violenta campagna antisemita, hanno di fatto
separato la minoranza ebraica dal resto del paese, costringendo moltissimi ebrei che si consideravano
ed erano perfettamente assimilati, a chiedersi che cosa significava essere ebrei.
“La biblioteca e la montagna”
La Biblioteca della scuola ebraica, completamente distrutta in un bombardamento del 1942, ha
rappresentato il luogo in cui questo gruppo di ragazzi si è formato e si è conosciuto. Ogni mercoledì,
soprattutto per impulso di Emanuele Artom, che insegnava presso la scuola ebraica, i ragazzi si
incontravano e discutevano liberamente di tutto, si scambiavano i pareri sulle letture fatte, parlavano
di politica, cominciando a prendere, sebbene in questa fase in modo ancora poco chiaro, le distanze
2
dal fascismo. Ovviamente si innamoravano e si lasciavano. Soprattutto andavano in montagna: la
passione per la montagna costituisce uno dei fili rossi del loro stare insieme. La montagna ha
rappresentato il rifugio, il momento dell’evasione, della fuga da una società che li aveva di fatto
emarginati. A partire dalla fine del 1942 una parte del gruppo si trasferisce a Milano e continua ad
incontrarsi, qui in casa di Ada Della Torre: la sua casa diventerà il centro di ritrovo di questi torinesi
che erano venuti a Milano per cercare un impiego, magari sotto falso nome. La casa di Ada è
metaforicamente simile alla Biblioteca e costituisce l’ultimo rifugio, prima che la grande storia
costringa tutti i ragazzi e le ragazze del gruppo a compiere una precisa scelta di campo.
“L’8 settembre”
Con l’8 settembre 1943 per gli ebrei non si trattò più di vivere l’esperienza della negazione dei diritti,
ma delle loro stesse vite. L’Italia era divisa in due, i tedeschi con i loro alleati fascisti iniziarono
immediatamente ad organizzare rastrellamenti di ebrei. La prima strage di ebrei avvenne sul Lago
Maggiore, a Meina e nelle sue vicinanze: è il 13 settembre 1943. La prima grande “azione” contro gli
ebrei fu organizzata a Roma, il 16 ottobre 1943: più di mille persone, uomini, donne, bambini, furono
chiuse nei vagoni piombati e deportate ad Auschwitz, il più grande campo di sterminio, di cui gli ebrei
italiani ignoravano l’esistenza. Il gruppo della Biblioteca iniziò a disperdersi: alcuni scelsero senza
esitazione la via della montagna, altri furono più esitanti, tuttavia proprio la montagna sembrò essere il
luogo a cui tutti naturalmente guardarono come ad un rifugio. Per molti lo sarà, ad alcuni risulterà
fatale.
I viaggi: la Resistenza, Fossoli, Auschwitz.
I giovani si dispersero dunque in vallate diverse: Primo, Luciana e Vanda erano insieme ad Amay,
sopra Saint-Vincent, furono arrestati la notte del 13 dicembre 1943. Si dichiararono ebrei e dopo un
mese trascorso nella caserma di Aosta furono trasferiti a Fossoli, presso Carpi (Modena) che era il più
grande campo di transito italiano. Da qui partirono cinque convogli diretti ad Auschwitz. Tuttavia,
almeno nel periodo in cui vi furono rinchiusi Primo, Luciana e Vanda, le condizioni di vita erano
sopportabili e le famiglie potevano restare unite. Qui Luciana, Primo e Vanda restarono un mese e a
loro si unì Franco Sacerdoti. Essi costituirono ben presto un quartetto indivisibile: quando fu loro
comunicato che l’indomani sarebbero dovuti partire per “ignota destinazione”, stavano cucinandosi
degli spaghetti.
Caricati con violenza sui carri bestiame videro sulla fiancata del vagone la scritta “Auschwitz”: ma a
loro questo nome non diceva nulla.
Dopo un viaggio di quattro giorni arrivarono a destinazione. Presso la Judenrampe, il binario morto
che correva fra Auschwitz I e Birkenau, dove venivano scaricati i convogli di ebrei provenienti da tutta
l’Europa occupata, furono subito divisi. Si scambiarono un timido saluto pensando di rivedersi. Franco
e Primo furono immatricolati a Monowitz, il grande complesso industriale che costituiva uno dei tre
grandi Lager che facevano parte del complesso concentrazionario di Auschwitz. Luciana e Vanda
entrarono a Birkenau, dove era situato il Lager femminile: qui erano collocate le grandi strutture di
messa a morte, fornite di camera a gas e forni inceneritori, che nel febbraio 1944 funzionavano a
pieno ritmo. Di ogni convoglio di ebrei solo il 10% circa entrava in campo: tutti gli altri “finivano in gas”.
Per i quattro amici iniziarono vite diverse: Luciana e Primo ebbero la possibilità, che si potrebbe
definire fortunata, di lavorare, Luciana come medico nell’infermeria del campo, Primo nel laboratorio
chimico di Monowitz. Franco e Vanda non ebbero la stessa opportunità. Vanda fu da subito una
“sommersa”, ridotta in breve tempo pelle e ossa. Luciana andava a trovarla ogni sera, ma poteva fare
ben poco per lei.
In agosto Luciana ebbe la straordinaria possibilità di andarsene dall’inferno di Birkenau. Infatti fu
trasferita a Hessich Licthenau, un campo di lavoro che dipendeva, da un punto di vista amministrativo,
da Buchenwald. Fu liberata dalle truppe americane nell’aprile del 1945 e, dopo un breve soggiorno in
un campo profughi, fece ritorno in Italia nel luglio. Vanda era morta in una delle ultime gassazioni
nell’autunno del 1944. Franco aveva resistito ai rigori del Lager, ma durante l’evacuazione da
Auschwitz, nel gennaio del 1945, fu ucciso nei pressi di Gleiwitz.
Primo, ammalatosi di scarlattina durante l’evacuazione, rimase a Monowitz, e fu liberato dai soldati
dell’Armata Rossa il 27 gennaio 1945. Dopo aver vagato per mezza Europa, fece ritorno a Torino
nell’ottobre del 1945.
3
Luciana nella sua testimonianza su Birkenau scrisse:“Di Franco e Vanda non ci restano che due
fotografie.” Gli altri componenti del gruppo erano entrati in diverse brigate partigiane: Silvio Ortona fu
comandante garibaldino nel Biellese, Bianca Guidetti Serra fece la staffetta a Torino e restò, fino alla
fine della guerra, il punto di contatto per gli amici ebrei: a lei, infatti, che non era ebrea, furono inviate
le poche missive che Luciana e Primo riuscirono a far giungere dal Lager. Eugenio Gentili Tedeschi,
dopo un breve periodo di carcere ad Aosta, operò con la banda “Verraz”. Dopo il rastrellamento del 2
novembre 1944 riparò in Francia e da lì raggiunse Roma ormai libera, dove rimase a disposizione del
Ministero della Guerra.
Franco Momigliano, Emanuele Artom e Giorgio Segre erano in Val Pellice. Emanuele, nonostante la
sua timidezza e la sua fragilità, seppe sopportare la durezza della vita partigiana. Tuttavia nel marzo
1944, durante un rastrellamento in Val Germanasca, fu preso e morì sotto le torture. Il suo corpo non
è mai stato trovato. Franco Momigliano e Giorgio Segre riuscirono a fuggire; Franco, divenuto noto ai
nemici, fu trasferito a Milano, ospite di Carla Consonni. Riconosciuto per strada come partigiano, fu
rinchiuso a San Vittore, dove durante durissimi interrogatori fu scoperta la sua vera identità. Quando
ormai temeva per la sua vita, fu orchestrato, da Vittorio Foa e da sua moglie Lisetta, un audace piano
di fuga. Franco riparò a Torino, dove riprese l’attività cospirativa. Intorno a lui gravitava un gruppo di
donne coraggiose impegnate nella Resistenza: sua sorella Mila, Anna Maria Levi, Ada Marchesini
Gobetti, Silvia Pons.
Alberto Salmoni, dopo un primo breve periodo nel Canavese, dove era andato a raggiungere il suo
compagno di Università Sandro Dalmastro (che sarebbe poi stato ucciso per strada a Cuneo
nell’aprile 1944, nel tentativo di sottrarsi alla cattura) si spostò in Val Susa dove si unì alla banda
giellista di Ada Gobetti. Con Paolo, il figlio di Ada, egli sarà protagonista di un’avventurosa traversata
delle montagne per andare a rifornirsi di armi in Francia. I rastrellamenti lo costrinsero a spostarsi in
Val Chisone dove combatté in una formazione di Giustizia e Libertà. Nei primi mesi del 1945 si spostò
più a sud, nelle Langhe dove svolse funzioni di commissario politico del Gruppo della III divisione
Langhe. Con questa formazione scese a Torino nei giorni dell’insurrezione dove prima occupò la
Caserma di via Asti, poi fu inviato da Giorgio Agosti a prendere e tenere le Carceri Nuove.
Alla fine della guerra Bianca si sposò con Alberto e nel novembre del 1946 Luciana si unì a Franco
Momigliano, Carla Consonni ad Aldo Maestro, fratello di Vanda: la vita riprese impetuosa.
La Memoria
Luciana e Primo sentirono l’esigenza di affidare alla parola scritta l’esperienza estrema del Lager
perché essa si facesse memoria. Da allora alle loro voci se ne sono aggiunte altre migliaia che hanno
cercato di spiegare, di raccontare la shoah: esse costituiscono, oggi, una polifonia attraverso la quale
cerchiamo di comprendere quell’orrore. Tuttavia, gli scritti di Luciana e di Primo, per la loro vicinanza a
quei fatti, hanno il valore dell’immediatezza, del racconto in presa diretta e costituiscono per così dire
una sorta di “archetipo” della memoria.
Ma tutti coloro che sopravvissero a queste terribili esperienze ebbero immediatamente l’intuizione di
dover testimoniare, con le azioni se non con le parole. In una lettera dell’agosto 1945 Luciana scrisse
a Franco Momigliano: “ Non si esce da un’ esperienza come questa, senza il retaggio di precisi doveri
verso sé stessi e verso gli altri. Non credo che Dio mi abbia salvato da Auschwitz perché io debba
essere di esempio al mondo - ma sento che un’avventura come questa deve pur significare qualcosa.
Quando partivo da Grimma, un francese salutandomi, mi ha detto “e faccia buon uso della libertà, ora
che ne conosce il valore”…, frase che mi gira continuamente dentro, ad indicarmi dei doveri e dei
compiti”.
E’ questo impegno morale il lascito più importante di quei giovani.
Alessandra Chiappano
Responsabile sezione didattica INSMLI
Quattro sono i concetti chiave attorno ai quali abbiamo lavorato per progettare l'allestimento
della mostra.
La montagna, la giovinezza, la negazione della libertà, la memoria.
Queste quattro parole segnano anche lo sviluppo concettuale e contenutistico della mostra,
riflettendo allo stesso tempo la cronologia reale degli avvenimenti accaduti tra il 1938 e il
1947. Lungo il percorso della mostra la macrostoria, quella scritta sui libri e imparata a
scuola, fa da sfondo e si intreccia con la microsotria, ai più ignota, che riguarda la vita dei
nostri giovani protagonisti.
Ci è sembrato fin da subito evidente che avremmo dovuto creare un legame intimo tra il
pubblico e i personaggi, volevamo che ciascun visitatore entrasse nel racconto in modo
speciale. Così è nata l'idea di far immedesimare ogni visitatore con uno dei protagonisti. Negli
anni '30 e '40 si usava spedire alle persone care una propria foto con poche righe di saluti
riportate sul retro: quante ne abbiamo viste nei cassetti dei nostri nonni? Queste "stesse" foto
si trovano all'ingresso della mostra: ogni visitatore ne sceglie una e inizia il proprio viaggio in
compagnia di Primo o di Luciana, di Emanuele o di Vanda, oppure di Silvio, di Bianca, di uno
degli altri ragazzi. Ogni visitatore seguirà il suo compagno per vedere la sua storia e la Storia
attraverso i sui ricordi e le sue parole di allora. La foto è lo strumento per attivare le postazioni
interattive lungo il percorso della mostra e avere accesso alle informazioni che riguardano il
personaggio scelto.
La nostra ambizione e la nostra speranza è quella di riuscire a riprodurre anche solo in
minima parte la capacità di coinvolgimento delle parole di "Se questo è un uomo". Il
linguaggio asciutto e la scrittura veloce di Primo ci danno la netta impressione di essere
assieme a lui in ogni istante, quasi fossimo la sua ombra.
Oltre alle storie racchiuse nelle postazioni interattive, la mostra sviluppa un racconto
diacronico fatto di piccoli accadimenti in cui si alternano e si sovrappongono voci, luci e
immagini, come in una partitura musicale in cui ogni nota contribuisce all’armonia
dell'insieme.
L'allestimento architettonico-scenografico è stato pensato per interpretare i concetti chiave
citati in precedenza, in particolare per evocare l'idea della montagna e la contrapposizione tra
libertà e costrizione. Nella prima parte del percorso i moduli bianchi, che definiscono le
superfici di supporto per l'esposizione dei documenti, delle immagini e delle videoproiezioni,
sono disposti in maniera caotica a suggerire l'idea di una parete di ghiaccio di montagna e del
senso di libertà ad essa associato.
La seconda parte del percorso è dedicata agli avvenimenti successivi al 1943: i moduli sono
disposti in maniera regolare a rappresentare l'omologazione, l'assenza di libertà del carcere e
dei campi di concentramento, l'annientamento dell'individuo, ma anche la montagna della
Resistenza dove bisogna nascondersi, organizzarsi con disciplina e affrontare il nemico nella
lotta per la Liberazione.
Chiude la mostra una postazione interattiviva che racconta cosa fece ogni personaggio
sopravvisuto dopo il '45 e come ciascuno cercò a proprio modo di tenere viva la memoria di
quanto era successo perchè simili orrori non venissero a ripetersi mai più
Il titolo della mostra fa pensare perché ci porta dentro un tempo lontano, una stagione tra le più
difficili e dolorose della nostra storia. Lo fa con la freschezza che è consentita dal racconto delle
vite di un gruppo di ragazzi, quasi tutti ebrei che insieme sono giunti alle soglie della giovinezza.
Mentre guardano al loro futuro e si preparano studiando, divertendosi e intrecciando amicizie, pur
nelle difficoltà di una guerra che sembra lontana e delle discriminazioni sancite per legge,
vengono gettati in un vortice di violenza e disperazione che troncherà la vita di alcuni di loro e che
porterà gli altri a conoscere il limite del dolore e il confine estremo del male. È quindi l’intreccio
della vicenda dei singoli e la storia del gruppo il nodo della mostra, l’elemento di originalità in cui
vogliamo sperare che molti giovani possano riconoscere i tratti dei coetanei di quasi settant’anni fa
e insieme avvicinare quello che a parole è difficile trasmettere, perché a quell’età è difficile capire:
come in breve volgere di tempo si possano perdere non solo tutte le cose che ci sembravano
sicure, ma addirittura la propria condizione di uomo o di donna, di persone, di esseri umani. Certo,
ci sono nella mostra figure che tutti possiamo riconoscere, persone eccezionali, come Primo Levi
o Emanuele Artom, ma loro come gli altri sono colti nella loro prima giovinezza, quando tutto
sembra possibile, prima che il destino si compia, prima che lo scarto incolmabile e incomprensibile
di quello che avviene per volontà di altri uomini li travolga e ne spenga la vita o la segni per
sempre.
Per realizzare questa mostra molti hanno lavorato e collaborato, a cominciare dalla prof.
Chiappano, docente distaccata dal MIUR presso il nostro Istituto, che ha avuto l’idea di tradurre in
un linguaggio diverso quello che le sue ricerche sulla deportazione femminile e in particolare su
Luciana Nissim l’avevano portata a scoprire, seguendo i fili incrociati delle biografie di persone
perseguitate. Quell’intuizione iniziale ha trovato gli elementi che hanno contribuito a farla crescere:
la disponibilità generosa delle famiglie a fornire materiali, notizie e testimonianze - in primis quella
di Alberto Momigliano che ha donato il prezioso archivio della madre Luciana Nissim all’Istituto
piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea – e le capacità,
l’intelligenza organizzativa e propulsiva della dott. Ersilia Alessandrone Perona, la presidente del
Museo diffuso e direttrice del nostro Istituto di Torino. L’ Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia ha il merito di aver colto il valore della proposta e di avere
ricercato i soggetti pubblici e privati che hanno concorso, in varia misura, ma con eguale
disponibilità, a reperire le risorse e i mezzi necessari alla realizzazione. A molti quindi vanno i
nostri ringraziamenti perché in questa occasione, pur tra le notevoli difficoltà che questo tempo
riserva ad ogni iniziativa culturale, una consapevole collaborazione tra tanti ha prodotto in tempi
strettissimi il risultato che si offre al pubblico. Basta scorrere l’elenco degli enti privati e pubblici che
hanno promosso e sostenuto l’iniziativa per rendersene conto; li ringraziamo tutti.
Ci resta da sottolineare la collaborazione davvero di eccezione tra gli enti territoriali del Piemonte,
dell’Emilia e Romagna e della Valle d’Aosta. Ciascuna regione è coinvolta nelle esperienze che la
mostra racconta: il Piemonte e Torino come luoghi di origine e di residenza dei ragazzi e delle loro
famiglie, la Valle d’Aosta come teatro dell’organizzazione della banda e luogo degli arresti di
Luciana Nissim con Primo Levi e degli altri compagni e compagne; l’Emilia e Romagna come
luogo della prima fase della deportazione dei giovani a Fossoli. Questa collaborazione ha avuto il
sostegno immediato del vicepresidente del Consiglio della Regione Piemonte dott. Roberto
Placido, che ho avuto modo di conoscere come organizzatore di straordinarie iniziative rivolte ai
giovani e che anche questa volta si è speso con generosità. Un grazie ai giovani professionisti del
gruppo N!03 che hanno realizzato e tradotto in immagini efficaci storie difficili da raccontare.
Grazie infine a Vanda Maestro che ha contribuito a costruire questo catalogo e il sito dedicato alla
mostra: è stato, come ci ha detto, il suo modo per onorare il ricordo della zia Vanda che fece parte
del gruppo dei giovani ebrei, ne condivise l’esperienza e morì poi ad Auschwitz.
Tante energie, tante qualità per aiutarci a mantenere intatti i fili della memoria; uno dei compiti che
l’Istituto nazionale, a volte con forze inadeguate, cerca di promuovere perché quei fili possano
legare le generazioni e aiutarle nella ricerca della propria strada, come hanno diritto di fare e di
salvaguardare il rispetto delle persone e i racconti che ne fanno cogliere la necessità per il bene di
tutti.
Il Presidente dell’Istituto nazionale per la Storia del Movimento di liberazione in Italia
Oscar Luigi Scàlfaro
Milano, dicembre 2009
appena laureati, che le leggi razziali del 1938 avevano costretto a riconoscersi come ebrei o
amici di ebrei. Si chiamavano: Primo Levi, Luciana Nissim, Emanuele Artom, Franco Momigliano,
Vanda Maestro, Silvio Ortona, Ada Della Torre, Giorgio Segre, Alberto Salmoni, Bianca Guidetti
Serra, Franco Sacerdoti, Lino Jona, Eugenio Gentili Tedeschi.
A loro è dedicata la mostra A noi fu dato in sorte questo tempo 1938 -1947, nata dagli studi di
Alessandra Chiappano sull’archivio privato di Luciana Nissim Momigliano e su altri documenti
inediti. La mostra che si colloca all’interno delle celebrazioni del Giorno della Memoria, verrà
inaugurata il 26 gennaio 2010 presso l’Archivio di Stato – Sezioni Riunite di Torino di via
Piave 21.
Non una mostra sul fascismo, né sulle leggi razziali, né sulla Shoah, ma il racconto a più
voci per i giovani di oggi delle storie intrecciate di quei giovani di allora che, come disse uno
di loro, Silvio Ortona, ebbero in sorte questo tempo, arrivando a subire alcuni il dramma della
deportazione e tutti le tensioni delle scelte irrevocabili.
Il progetto di allestimento, multimediale e innovativo, è ideato e realizzato da N!03 studio
ennezerotre ed è un percorso interattivo, fatto di voci, di luci, di immagini, in cui la storia dei
singoli si intreccia con la grande storia, creando un rapporto intimo tra il pubblico e le storie dei
protagonisti. Grazie a una cartolina ricevuta all’ingresso, il visitatore accede alle postazioni
multimediali e ripercorre la storia di quegli anni attraverso i pensieri, le parole pronunciate, i ricordi
di Luciana Nissim, di Primo Levi, di Franco Momigliano e degli altri protagonisti.
La montagna, la giovinezza, la negazione della libertà, la memoria sono le parole, le scansioni
attorno alle quali si sviluppa il percorso e l’allestimento scenografico della mostra, segnando allo
stesso tempo la cronologia degli avvenimenti accaduti dal 1938 al 1947.
Così rivivono le vicende di quel gruppo di giovani che, spinti dall’esclusione imposta loro dalle leggi
razziali del 1938, presero a incontrasi – prima presso la biblioteca della Scuola Ebraica di Torino,
poi a Milano nella casa di Ada della Torre -, a conoscersi, a discutere di letteratura, ad andare in
montagna, a intrecciare legami di amicizia e d’amore. Poi il 1943 e la scelta della Resistenza,
quando la montagna e le città vicine si trasformano in luogo di lotta, di rifugio o in trappola mortale,
fino al dramma per alcuni dell’arresto e della deportazione, dapprima a Fossoli, poi ad Auschwitz. Il
percorso si conclude con il racconto di chi è tornato e ha testimoniato anche per coloro che dai
campi di concentramento non hanno mai fatto ritorno.
Hanno collaborato all’iniziativa: CGIL Lombardia, Istituto piemontese per la Storia della Resistenza
e della società contemporanea “Giorgio Agosti”, Fondazione ex campo Fossoli, Archivio
nazionale cinematografico della Resistenza, Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea in provincia di Modena, Istituto storico della Resistenza e della società
contemporanea in Valle d’Aosta, Fondazione Memoria della Deportazione, Centro di
documentazione ebraica contemporanea di Milano e i familiari dei protagonisti della mostra.
La mostra A noi fu dato in sorte questo tempo 1937-1948 sarà a Torino dal 27 gennaio al 20
marzo, successivamente sarà allestita nell’ex campo di Fossoli (Modena) dal 25 aprile al 22
maggio e presso il Forte di Bard in Valle d’Aosta dal 3 luglio al 10 agosto.
Il catalogo della mostra è a cura di Alessandra Chiappano e, per la parte grafica, di Vanda
Maestro. Il sito della mostra è www.iltempoinsorte.it.
La mostra è incentrata sulla storia di giovani assolutamente “normali” che, come afferma Silvio
Ortona, hanno avuto in sorte “un tempo straordinario” e hanno dovuto confrontarsi con scelte
drammatiche; alcuni di loro hanno conosciuto l’esperienza estrema della deportazione. Le storie dei
singoli incrociano la grande storia e si inquadrano in eventi assai complessi che sottendono nodi
storiografici di grande rilevanza, come il rapporto resistenza- fascismo-mondo ebraico; tuttavia questa
non vuole essere una mostra sul fascismo, né sulle leggi razziali né sulla shoah, ma si propone di
raccontare la storia d’amore e di amicizia di un gruppo di giovani e del tempo che hanno attraversato.
La maggior parte di loro erano ebrei ed hanno dovuto fare i conti con il fatto di essere rifiutati ed
esclusi dalla società civile. Hanno provato allora a confrontarsi fra di loro, allontanandosi da quel
regime fascista che li aveva costretti a vedersi discriminati in quanto ebrei. Erano tutti intellettuali,
studenti o appena laureati e amanti della montagna, che ha giocato un ruolo non irrilevante nelle loro
vicende umane ed esistenziali. Le amicizie, che hanno cominciato a stringere durante gli anni che
vanno dall’emanazione delle leggi razziali alla fatidica estate del 1943, in alcuni casi si sono
mantenute per tutta la vita, anche se il dipanarsi delle loro sorti li ha portati ad allontanarsi dalla Torino
della Biblioteca della scuola ebraica, che ha rappresentato il loro primo luogo di ritrovo. Gli amici si
chiamavano Emanuele Artom, Luciana Nissim, Vanda Maestro, Primo Levi, Eugenio Gentili Tedeschi,
Giorgio Segre, Franco Momigliano, Giorgio Diena, Ada Della Torre, Silvio Ortona, Alberto Salmoni,
Bianca Guidetti Serra, Lino Jona. Alcuni di loro costituivano il gruppo più assiduo dei frequentatori
della Biblioteca, altri erano più marginali, tuttavia si conoscevano e si frequentavano, magari in modo
più episodico. Tutti quanti in varia misura parteciparono alla resistenza, alcuni conobbero il buco nero
di Auschwitz: Primo Levi, Vanda Maestro, Luciana Nissim, a cui a Fossoli si unirà Franco Sacerdoti,
un giovane ebreo napoletano, che si era trasferito a Torino e che fu arrestato in Val di Lanzo. Dei
quattro deportati fecero ritorno solo Luciana e Primo e scrissero, subito dopo la liberazione, due testi
divenuti due “classici” della letteratura concentrazionaria: I ricordi della casa dei morti, edito presso
Ramella nel 1946, e Se questo è un uomo, uscito dapprima a puntate sul periodico vercellese diretto
da Silvio Ortona, “Il giornale del popolo” e poi presso la casa editrice De Silva, di Franco Antonicelli,
nel 1947. Primo per tutta la vita e Luciana solo negli ultimi dieci anni della sua esistenza
testimoniarono anche per coloro che non fecero ritorno.
Questa storia è dedicata soprattutto a coloro che, in quegli anni drammatici, persero la vita nel Lager o
sulle montagne.
La mostra si divide in quattro sezioni:
La “foto di gruppo”
In questo primo ambiente vengono presentati tutti i personaggi. Alcuni di loro erano legati da vincoli di
parentela, ma si è andato formando un gruppo amicale coeso ed unito e più esteso quando le leggi
razziali, emanate nel 1938 dal regime fascista, dopo una violenta campagna antisemita, hanno di fatto
separato la minoranza ebraica dal resto del paese, costringendo moltissimi ebrei che si consideravano
ed erano perfettamente assimilati, a chiedersi che cosa significava essere ebrei.
“La biblioteca e la montagna”
La Biblioteca della scuola ebraica, completamente distrutta in un bombardamento del 1942, ha
rappresentato il luogo in cui questo gruppo di ragazzi si è formato e si è conosciuto. Ogni mercoledì,
soprattutto per impulso di Emanuele Artom, che insegnava presso la scuola ebraica, i ragazzi si
incontravano e discutevano liberamente di tutto, si scambiavano i pareri sulle letture fatte, parlavano
di politica, cominciando a prendere, sebbene in questa fase in modo ancora poco chiaro, le distanze
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dal fascismo. Ovviamente si innamoravano e si lasciavano. Soprattutto andavano in montagna: la
passione per la montagna costituisce uno dei fili rossi del loro stare insieme. La montagna ha
rappresentato il rifugio, il momento dell’evasione, della fuga da una società che li aveva di fatto
emarginati. A partire dalla fine del 1942 una parte del gruppo si trasferisce a Milano e continua ad
incontrarsi, qui in casa di Ada Della Torre: la sua casa diventerà il centro di ritrovo di questi torinesi
che erano venuti a Milano per cercare un impiego, magari sotto falso nome. La casa di Ada è
metaforicamente simile alla Biblioteca e costituisce l’ultimo rifugio, prima che la grande storia
costringa tutti i ragazzi e le ragazze del gruppo a compiere una precisa scelta di campo.
“L’8 settembre”
Con l’8 settembre 1943 per gli ebrei non si trattò più di vivere l’esperienza della negazione dei diritti,
ma delle loro stesse vite. L’Italia era divisa in due, i tedeschi con i loro alleati fascisti iniziarono
immediatamente ad organizzare rastrellamenti di ebrei. La prima strage di ebrei avvenne sul Lago
Maggiore, a Meina e nelle sue vicinanze: è il 13 settembre 1943. La prima grande “azione” contro gli
ebrei fu organizzata a Roma, il 16 ottobre 1943: più di mille persone, uomini, donne, bambini, furono
chiuse nei vagoni piombati e deportate ad Auschwitz, il più grande campo di sterminio, di cui gli ebrei
italiani ignoravano l’esistenza. Il gruppo della Biblioteca iniziò a disperdersi: alcuni scelsero senza
esitazione la via della montagna, altri furono più esitanti, tuttavia proprio la montagna sembrò essere il
luogo a cui tutti naturalmente guardarono come ad un rifugio. Per molti lo sarà, ad alcuni risulterà
fatale.
I viaggi: la Resistenza, Fossoli, Auschwitz.
I giovani si dispersero dunque in vallate diverse: Primo, Luciana e Vanda erano insieme ad Amay,
sopra Saint-Vincent, furono arrestati la notte del 13 dicembre 1943. Si dichiararono ebrei e dopo un
mese trascorso nella caserma di Aosta furono trasferiti a Fossoli, presso Carpi (Modena) che era il più
grande campo di transito italiano. Da qui partirono cinque convogli diretti ad Auschwitz. Tuttavia,
almeno nel periodo in cui vi furono rinchiusi Primo, Luciana e Vanda, le condizioni di vita erano
sopportabili e le famiglie potevano restare unite. Qui Luciana, Primo e Vanda restarono un mese e a
loro si unì Franco Sacerdoti. Essi costituirono ben presto un quartetto indivisibile: quando fu loro
comunicato che l’indomani sarebbero dovuti partire per “ignota destinazione”, stavano cucinandosi
degli spaghetti.
Caricati con violenza sui carri bestiame videro sulla fiancata del vagone la scritta “Auschwitz”: ma a
loro questo nome non diceva nulla.
Dopo un viaggio di quattro giorni arrivarono a destinazione. Presso la Judenrampe, il binario morto
che correva fra Auschwitz I e Birkenau, dove venivano scaricati i convogli di ebrei provenienti da tutta
l’Europa occupata, furono subito divisi. Si scambiarono un timido saluto pensando di rivedersi. Franco
e Primo furono immatricolati a Monowitz, il grande complesso industriale che costituiva uno dei tre
grandi Lager che facevano parte del complesso concentrazionario di Auschwitz. Luciana e Vanda
entrarono a Birkenau, dove era situato il Lager femminile: qui erano collocate le grandi strutture di
messa a morte, fornite di camera a gas e forni inceneritori, che nel febbraio 1944 funzionavano a
pieno ritmo. Di ogni convoglio di ebrei solo il 10% circa entrava in campo: tutti gli altri “finivano in gas”.
Per i quattro amici iniziarono vite diverse: Luciana e Primo ebbero la possibilità, che si potrebbe
definire fortunata, di lavorare, Luciana come medico nell’infermeria del campo, Primo nel laboratorio
chimico di Monowitz. Franco e Vanda non ebbero la stessa opportunità. Vanda fu da subito una
“sommersa”, ridotta in breve tempo pelle e ossa. Luciana andava a trovarla ogni sera, ma poteva fare
ben poco per lei.
In agosto Luciana ebbe la straordinaria possibilità di andarsene dall’inferno di Birkenau. Infatti fu
trasferita a Hessich Licthenau, un campo di lavoro che dipendeva, da un punto di vista amministrativo,
da Buchenwald. Fu liberata dalle truppe americane nell’aprile del 1945 e, dopo un breve soggiorno in
un campo profughi, fece ritorno in Italia nel luglio. Vanda era morta in una delle ultime gassazioni
nell’autunno del 1944. Franco aveva resistito ai rigori del Lager, ma durante l’evacuazione da
Auschwitz, nel gennaio del 1945, fu ucciso nei pressi di Gleiwitz.
Primo, ammalatosi di scarlattina durante l’evacuazione, rimase a Monowitz, e fu liberato dai soldati
dell’Armata Rossa il 27 gennaio 1945. Dopo aver vagato per mezza Europa, fece ritorno a Torino
nell’ottobre del 1945.
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Luciana nella sua testimonianza su Birkenau scrisse:“Di Franco e Vanda non ci restano che due
fotografie.” Gli altri componenti del gruppo erano entrati in diverse brigate partigiane: Silvio Ortona fu
comandante garibaldino nel Biellese, Bianca Guidetti Serra fece la staffetta a Torino e restò, fino alla
fine della guerra, il punto di contatto per gli amici ebrei: a lei, infatti, che non era ebrea, furono inviate
le poche missive che Luciana e Primo riuscirono a far giungere dal Lager. Eugenio Gentili Tedeschi,
dopo un breve periodo di carcere ad Aosta, operò con la banda “Verraz”. Dopo il rastrellamento del 2
novembre 1944 riparò in Francia e da lì raggiunse Roma ormai libera, dove rimase a disposizione del
Ministero della Guerra.
Franco Momigliano, Emanuele Artom e Giorgio Segre erano in Val Pellice. Emanuele, nonostante la
sua timidezza e la sua fragilità, seppe sopportare la durezza della vita partigiana. Tuttavia nel marzo
1944, durante un rastrellamento in Val Germanasca, fu preso e morì sotto le torture. Il suo corpo non
è mai stato trovato. Franco Momigliano e Giorgio Segre riuscirono a fuggire; Franco, divenuto noto ai
nemici, fu trasferito a Milano, ospite di Carla Consonni. Riconosciuto per strada come partigiano, fu
rinchiuso a San Vittore, dove durante durissimi interrogatori fu scoperta la sua vera identità. Quando
ormai temeva per la sua vita, fu orchestrato, da Vittorio Foa e da sua moglie Lisetta, un audace piano
di fuga. Franco riparò a Torino, dove riprese l’attività cospirativa. Intorno a lui gravitava un gruppo di
donne coraggiose impegnate nella Resistenza: sua sorella Mila, Anna Maria Levi, Ada Marchesini
Gobetti, Silvia Pons.
Alberto Salmoni, dopo un primo breve periodo nel Canavese, dove era andato a raggiungere il suo
compagno di Università Sandro Dalmastro (che sarebbe poi stato ucciso per strada a Cuneo
nell’aprile 1944, nel tentativo di sottrarsi alla cattura) si spostò in Val Susa dove si unì alla banda
giellista di Ada Gobetti. Con Paolo, il figlio di Ada, egli sarà protagonista di un’avventurosa traversata
delle montagne per andare a rifornirsi di armi in Francia. I rastrellamenti lo costrinsero a spostarsi in
Val Chisone dove combatté in una formazione di Giustizia e Libertà. Nei primi mesi del 1945 si spostò
più a sud, nelle Langhe dove svolse funzioni di commissario politico del Gruppo della III divisione
Langhe. Con questa formazione scese a Torino nei giorni dell’insurrezione dove prima occupò la
Caserma di via Asti, poi fu inviato da Giorgio Agosti a prendere e tenere le Carceri Nuove.
Alla fine della guerra Bianca si sposò con Alberto e nel novembre del 1946 Luciana si unì a Franco
Momigliano, Carla Consonni ad Aldo Maestro, fratello di Vanda: la vita riprese impetuosa.
La Memoria
Luciana e Primo sentirono l’esigenza di affidare alla parola scritta l’esperienza estrema del Lager
perché essa si facesse memoria. Da allora alle loro voci se ne sono aggiunte altre migliaia che hanno
cercato di spiegare, di raccontare la shoah: esse costituiscono, oggi, una polifonia attraverso la quale
cerchiamo di comprendere quell’orrore. Tuttavia, gli scritti di Luciana e di Primo, per la loro vicinanza a
quei fatti, hanno il valore dell’immediatezza, del racconto in presa diretta e costituiscono per così dire
una sorta di “archetipo” della memoria.
Ma tutti coloro che sopravvissero a queste terribili esperienze ebbero immediatamente l’intuizione di
dover testimoniare, con le azioni se non con le parole. In una lettera dell’agosto 1945 Luciana scrisse
a Franco Momigliano: “ Non si esce da un’ esperienza come questa, senza il retaggio di precisi doveri
verso sé stessi e verso gli altri. Non credo che Dio mi abbia salvato da Auschwitz perché io debba
essere di esempio al mondo - ma sento che un’avventura come questa deve pur significare qualcosa.
Quando partivo da Grimma, un francese salutandomi, mi ha detto “e faccia buon uso della libertà, ora
che ne conosce il valore”…, frase che mi gira continuamente dentro, ad indicarmi dei doveri e dei
compiti”.
E’ questo impegno morale il lascito più importante di quei giovani.
Alessandra Chiappano
Responsabile sezione didattica INSMLI
Quattro sono i concetti chiave attorno ai quali abbiamo lavorato per progettare l'allestimento
della mostra.
La montagna, la giovinezza, la negazione della libertà, la memoria.
Queste quattro parole segnano anche lo sviluppo concettuale e contenutistico della mostra,
riflettendo allo stesso tempo la cronologia reale degli avvenimenti accaduti tra il 1938 e il
1947. Lungo il percorso della mostra la macrostoria, quella scritta sui libri e imparata a
scuola, fa da sfondo e si intreccia con la microsotria, ai più ignota, che riguarda la vita dei
nostri giovani protagonisti.
Ci è sembrato fin da subito evidente che avremmo dovuto creare un legame intimo tra il
pubblico e i personaggi, volevamo che ciascun visitatore entrasse nel racconto in modo
speciale. Così è nata l'idea di far immedesimare ogni visitatore con uno dei protagonisti. Negli
anni '30 e '40 si usava spedire alle persone care una propria foto con poche righe di saluti
riportate sul retro: quante ne abbiamo viste nei cassetti dei nostri nonni? Queste "stesse" foto
si trovano all'ingresso della mostra: ogni visitatore ne sceglie una e inizia il proprio viaggio in
compagnia di Primo o di Luciana, di Emanuele o di Vanda, oppure di Silvio, di Bianca, di uno
degli altri ragazzi. Ogni visitatore seguirà il suo compagno per vedere la sua storia e la Storia
attraverso i sui ricordi e le sue parole di allora. La foto è lo strumento per attivare le postazioni
interattive lungo il percorso della mostra e avere accesso alle informazioni che riguardano il
personaggio scelto.
La nostra ambizione e la nostra speranza è quella di riuscire a riprodurre anche solo in
minima parte la capacità di coinvolgimento delle parole di "Se questo è un uomo". Il
linguaggio asciutto e la scrittura veloce di Primo ci danno la netta impressione di essere
assieme a lui in ogni istante, quasi fossimo la sua ombra.
Oltre alle storie racchiuse nelle postazioni interattive, la mostra sviluppa un racconto
diacronico fatto di piccoli accadimenti in cui si alternano e si sovrappongono voci, luci e
immagini, come in una partitura musicale in cui ogni nota contribuisce all’armonia
dell'insieme.
L'allestimento architettonico-scenografico è stato pensato per interpretare i concetti chiave
citati in precedenza, in particolare per evocare l'idea della montagna e la contrapposizione tra
libertà e costrizione. Nella prima parte del percorso i moduli bianchi, che definiscono le
superfici di supporto per l'esposizione dei documenti, delle immagini e delle videoproiezioni,
sono disposti in maniera caotica a suggerire l'idea di una parete di ghiaccio di montagna e del
senso di libertà ad essa associato.
La seconda parte del percorso è dedicata agli avvenimenti successivi al 1943: i moduli sono
disposti in maniera regolare a rappresentare l'omologazione, l'assenza di libertà del carcere e
dei campi di concentramento, l'annientamento dell'individuo, ma anche la montagna della
Resistenza dove bisogna nascondersi, organizzarsi con disciplina e affrontare il nemico nella
lotta per la Liberazione.
Chiude la mostra una postazione interattiviva che racconta cosa fece ogni personaggio
sopravvisuto dopo il '45 e come ciascuno cercò a proprio modo di tenere viva la memoria di
quanto era successo perchè simili orrori non venissero a ripetersi mai più
Il titolo della mostra fa pensare perché ci porta dentro un tempo lontano, una stagione tra le più
difficili e dolorose della nostra storia. Lo fa con la freschezza che è consentita dal racconto delle
vite di un gruppo di ragazzi, quasi tutti ebrei che insieme sono giunti alle soglie della giovinezza.
Mentre guardano al loro futuro e si preparano studiando, divertendosi e intrecciando amicizie, pur
nelle difficoltà di una guerra che sembra lontana e delle discriminazioni sancite per legge,
vengono gettati in un vortice di violenza e disperazione che troncherà la vita di alcuni di loro e che
porterà gli altri a conoscere il limite del dolore e il confine estremo del male. È quindi l’intreccio
della vicenda dei singoli e la storia del gruppo il nodo della mostra, l’elemento di originalità in cui
vogliamo sperare che molti giovani possano riconoscere i tratti dei coetanei di quasi settant’anni fa
e insieme avvicinare quello che a parole è difficile trasmettere, perché a quell’età è difficile capire:
come in breve volgere di tempo si possano perdere non solo tutte le cose che ci sembravano
sicure, ma addirittura la propria condizione di uomo o di donna, di persone, di esseri umani. Certo,
ci sono nella mostra figure che tutti possiamo riconoscere, persone eccezionali, come Primo Levi
o Emanuele Artom, ma loro come gli altri sono colti nella loro prima giovinezza, quando tutto
sembra possibile, prima che il destino si compia, prima che lo scarto incolmabile e incomprensibile
di quello che avviene per volontà di altri uomini li travolga e ne spenga la vita o la segni per
sempre.
Per realizzare questa mostra molti hanno lavorato e collaborato, a cominciare dalla prof.
Chiappano, docente distaccata dal MIUR presso il nostro Istituto, che ha avuto l’idea di tradurre in
un linguaggio diverso quello che le sue ricerche sulla deportazione femminile e in particolare su
Luciana Nissim l’avevano portata a scoprire, seguendo i fili incrociati delle biografie di persone
perseguitate. Quell’intuizione iniziale ha trovato gli elementi che hanno contribuito a farla crescere:
la disponibilità generosa delle famiglie a fornire materiali, notizie e testimonianze - in primis quella
di Alberto Momigliano che ha donato il prezioso archivio della madre Luciana Nissim all’Istituto
piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea – e le capacità,
l’intelligenza organizzativa e propulsiva della dott. Ersilia Alessandrone Perona, la presidente del
Museo diffuso e direttrice del nostro Istituto di Torino. L’ Istituto nazionale per la storia del
movimento di liberazione in Italia ha il merito di aver colto il valore della proposta e di avere
ricercato i soggetti pubblici e privati che hanno concorso, in varia misura, ma con eguale
disponibilità, a reperire le risorse e i mezzi necessari alla realizzazione. A molti quindi vanno i
nostri ringraziamenti perché in questa occasione, pur tra le notevoli difficoltà che questo tempo
riserva ad ogni iniziativa culturale, una consapevole collaborazione tra tanti ha prodotto in tempi
strettissimi il risultato che si offre al pubblico. Basta scorrere l’elenco degli enti privati e pubblici che
hanno promosso e sostenuto l’iniziativa per rendersene conto; li ringraziamo tutti.
Ci resta da sottolineare la collaborazione davvero di eccezione tra gli enti territoriali del Piemonte,
dell’Emilia e Romagna e della Valle d’Aosta. Ciascuna regione è coinvolta nelle esperienze che la
mostra racconta: il Piemonte e Torino come luoghi di origine e di residenza dei ragazzi e delle loro
famiglie, la Valle d’Aosta come teatro dell’organizzazione della banda e luogo degli arresti di
Luciana Nissim con Primo Levi e degli altri compagni e compagne; l’Emilia e Romagna come
luogo della prima fase della deportazione dei giovani a Fossoli. Questa collaborazione ha avuto il
sostegno immediato del vicepresidente del Consiglio della Regione Piemonte dott. Roberto
Placido, che ho avuto modo di conoscere come organizzatore di straordinarie iniziative rivolte ai
giovani e che anche questa volta si è speso con generosità. Un grazie ai giovani professionisti del
gruppo N!03 che hanno realizzato e tradotto in immagini efficaci storie difficili da raccontare.
Grazie infine a Vanda Maestro che ha contribuito a costruire questo catalogo e il sito dedicato alla
mostra: è stato, come ci ha detto, il suo modo per onorare il ricordo della zia Vanda che fece parte
del gruppo dei giovani ebrei, ne condivise l’esperienza e morì poi ad Auschwitz.
Tante energie, tante qualità per aiutarci a mantenere intatti i fili della memoria; uno dei compiti che
l’Istituto nazionale, a volte con forze inadeguate, cerca di promuovere perché quei fili possano
legare le generazioni e aiutarle nella ricerca della propria strada, come hanno diritto di fare e di
salvaguardare il rispetto delle persone e i racconti che ne fanno cogliere la necessità per il bene di
tutti.
Il Presidente dell’Istituto nazionale per la Storia del Movimento di liberazione in Italia
Oscar Luigi Scàlfaro
Milano, dicembre 2009
26
gennaio 2010
A noi fu dato in sorte questo tempo 1938-1947
Dal 26 gennaio al 20 marzo 2010
Location
ARCHIVIO DI STATO
Torino, Piazza Castello, 209, (Torino)
Torino, Piazza Castello, 209, (Torino)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì dalle 8.30 alle 18.30. Sabato dalle 8.30 alle 14.00
Vernissage
26 Gennaio 2010, ore 18.30
Sito web
www.iltempoinsorte.it
Ufficio stampa
STILEMA
Autore
Curatore