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Adalberto Abbate – L’altro e il medesimo
L’altro e il medesimo racconta il disagio e la paura attraverso immagini divorate e distrutte. Un autoritratto della società in cui la distruzione coincide con quello che sembra essere “disprezzo sociale”.
Comunicato stampa
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Odore acre, come quando piove su qualcosa che sta bruciando. Odore di stanze chiuse e di polvere. Lamento stridulo che si fa largo, oscuro e lontano, come rumore metallico, storpio, persistente.
Se fosse possibile per le immagini riprodurre suoni e odori, coinvolgendo altri sensi oltre alla vista, allora senza dubbio credo che le opere di Adalberto Abbate sarebbero colme di queste sensazioni. Perché sono state prodotte da intenso dolore e sfiducia verso l’uomo, sono macerie dense nella mente troppo pensanti che non è più possibile tacerle.
Il senso di angoscia e disappunto le nutre e fa crescere dentro un’incessante ribellione, una frattura tra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere.
S’insinua a ogni sguardo una rabbia, intima e lenta, che si manifesta nell’aggressione all’immagine.
Una rabbia che è contestazione del presente, stanchezza di assistere ogni giorno, dappertutto, allo sfacelo, alla corruzione, è impotenza sorda, e a volte vile, dell’individuo in balia della mostruosità. Al contempo corrotto e corruttore. A volte persino inconsapevolmente complice.
L’altro e il medesimo racconta il disagio e la paura attraverso immagini divorate e distrutte. Un autoritratto della società in cui la distruzione coincide con quello che sembra essere “disprezzo sociale”.
Questo gesto significa per Abbate smascherare il mostro, chiarire a sé e agli altri che ci troviamo immersi fino al collo in una realtà esasperata e marcia, in cui non ci sono redentori, in cui non ci sono valori. In cui sembra che tutto sia irrimediabilmente perso.
In un posto così può vivere solo un’umanità aliena, insensibile, insensata, incapace di riconoscere se stessa e di cogliere l’essenza del vivere comune. Priva di una morale.
Adalberto Abbate, che è un provocatore, in questo lavoro non compie un atto empio nei confronti dell’altro, sebbene la sua visione delle cose sia apocalittica e senza possibilità di redenzione.
Crea al contrario un sacrario, dove mostrare i dubbi che lo stordiscono.
Dubbi come eco di paure raccolte dal confronto con gli altri.
Attraverso la sua voce dà voce al coro lamentoso e incessante di quanti cercano di aggrapparsi per sfuggire alla deriva, cercano di non essere travolti dal fango che soffoca e uccide ogni slancio e ogni fiducia.
Nell’aria si avverte una minaccia, la sua ricerca vive un’istintiva ribellione.
La distruzione diventa così per Abbate un esercizio necessario, perché annienta il mostro, impedisce alla vista di trovarsi al cospetto di ciò che mai si vorrebbe vedere. La rabbia continua confluisce in una voglia irrisolta di capire cosa sta accadendo attorno a lui.
Fino a che punto siamo disposti ad arrivare prima di soccombere.
Adalberto è un Edipo contemporaneo, che si strappa gli occhi per non vedere l’orrore, che cerca una verità alternativa, se c’è. Una strada buona e stabile. Sicura.
È un uomo sfigurato da un pessimismo indotto ma oramai calcificato che affiora continuamente, partorendo ombre del passato, ripercorrendo fatti oscuri della nostra storia, creando oggetti ambiguamente destrutturati, individui resi irriconoscibili, simboli rivisitati con dissacrante lucidità.
Abita suo malgrado un mondo capovolto, che però è reale. Quello che può sembrarci un incubo, per Abbate è invece la normalità, la quotidianità che avvelena l’individuo.
La sua visione della realtà è corrosiva, imminente è il suo dissenso. Inevitabile.
Build. Destroy. Rebuild, Rivolta, Catholicism addiction disorder, Errata Corrige, Processo educativo evolutivo, sono questi i nomi con cui Abbate cataloga nel tempo le sue opere, e mentre lo fa si chiede: ma dove è finito tutto ciò che ho amato?
Forse nella purezza dell’arte. Nella bellezza disperata che nasconde la follia. Ingenuamente tutti noi vorremmo che la “purezza dell’arte” affermasse, ora e ancora, il suo ruolo riformatore, finché anch’essa abbia ancora un senso, e non venga sfaldata in mille rivoli, a volte sterili e pieni di vuoto.
L’altro e il medesimo è allora un’azione frontale, uno sfogo. Non dà risposte, anzi suscita delle domande.
È una riflessione perentoria, trasversale a qualunque ideologia, che stempera la tensione con un’ironia amarissima giocata sull’ambiguità e sulla complessità del linguaggio dell’arte contemporanea. Nella speranza che abbia la capacità non solo di stupire, ma piuttosto di amplificare e sviscerare i sentimenti, abituando alla trasformazione, offrendo un nuovo punto di partenza. Anche quando tutto sembra andare verso una direzione sbagliata.
Adalberto Abbate ripensa a Michel Foucault, all’idea che la morale sia una pratica della creatività, sia la capacità di occupare il giusto posto tra forze dinamiche e avverse del vivere per modificare la propria esistenza, ricreando il nuovo. Qui l’arte non è solo strumento effimero ma salvifico per gli individui. Arte più vera del vero. L’unico codice che alla fine è davvero condivisibile e universale.
Credo che in fondo all’atteggiamento visionario e pessimista di Abbate sia ben saldo il senso del giusto, del bene.
Subisce sì la deriva sociale che è in atto, ma si oppone. Si sente inequivocabilmente un “fastidio epidermico”. La sua durezza disarma.
Dice lui di combattere una “battaglia persa”. Io invece penso che si sbagli. E credo anche lui. Soprattutto quando, stremato, mi confessa di volere ancora “difendere l'idea di giusto che ancora un po’, forse, riusciamo ad avvertire”.
Se fosse possibile per le immagini riprodurre suoni e odori, coinvolgendo altri sensi oltre alla vista, allora senza dubbio credo che le opere di Adalberto Abbate sarebbero colme di queste sensazioni. Perché sono state prodotte da intenso dolore e sfiducia verso l’uomo, sono macerie dense nella mente troppo pensanti che non è più possibile tacerle.
Il senso di angoscia e disappunto le nutre e fa crescere dentro un’incessante ribellione, una frattura tra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere.
S’insinua a ogni sguardo una rabbia, intima e lenta, che si manifesta nell’aggressione all’immagine.
Una rabbia che è contestazione del presente, stanchezza di assistere ogni giorno, dappertutto, allo sfacelo, alla corruzione, è impotenza sorda, e a volte vile, dell’individuo in balia della mostruosità. Al contempo corrotto e corruttore. A volte persino inconsapevolmente complice.
L’altro e il medesimo racconta il disagio e la paura attraverso immagini divorate e distrutte. Un autoritratto della società in cui la distruzione coincide con quello che sembra essere “disprezzo sociale”.
Questo gesto significa per Abbate smascherare il mostro, chiarire a sé e agli altri che ci troviamo immersi fino al collo in una realtà esasperata e marcia, in cui non ci sono redentori, in cui non ci sono valori. In cui sembra che tutto sia irrimediabilmente perso.
In un posto così può vivere solo un’umanità aliena, insensibile, insensata, incapace di riconoscere se stessa e di cogliere l’essenza del vivere comune. Priva di una morale.
Adalberto Abbate, che è un provocatore, in questo lavoro non compie un atto empio nei confronti dell’altro, sebbene la sua visione delle cose sia apocalittica e senza possibilità di redenzione.
Crea al contrario un sacrario, dove mostrare i dubbi che lo stordiscono.
Dubbi come eco di paure raccolte dal confronto con gli altri.
Attraverso la sua voce dà voce al coro lamentoso e incessante di quanti cercano di aggrapparsi per sfuggire alla deriva, cercano di non essere travolti dal fango che soffoca e uccide ogni slancio e ogni fiducia.
Nell’aria si avverte una minaccia, la sua ricerca vive un’istintiva ribellione.
La distruzione diventa così per Abbate un esercizio necessario, perché annienta il mostro, impedisce alla vista di trovarsi al cospetto di ciò che mai si vorrebbe vedere. La rabbia continua confluisce in una voglia irrisolta di capire cosa sta accadendo attorno a lui.
Fino a che punto siamo disposti ad arrivare prima di soccombere.
Adalberto è un Edipo contemporaneo, che si strappa gli occhi per non vedere l’orrore, che cerca una verità alternativa, se c’è. Una strada buona e stabile. Sicura.
È un uomo sfigurato da un pessimismo indotto ma oramai calcificato che affiora continuamente, partorendo ombre del passato, ripercorrendo fatti oscuri della nostra storia, creando oggetti ambiguamente destrutturati, individui resi irriconoscibili, simboli rivisitati con dissacrante lucidità.
Abita suo malgrado un mondo capovolto, che però è reale. Quello che può sembrarci un incubo, per Abbate è invece la normalità, la quotidianità che avvelena l’individuo.
La sua visione della realtà è corrosiva, imminente è il suo dissenso. Inevitabile.
Build. Destroy. Rebuild, Rivolta, Catholicism addiction disorder, Errata Corrige, Processo educativo evolutivo, sono questi i nomi con cui Abbate cataloga nel tempo le sue opere, e mentre lo fa si chiede: ma dove è finito tutto ciò che ho amato?
Forse nella purezza dell’arte. Nella bellezza disperata che nasconde la follia. Ingenuamente tutti noi vorremmo che la “purezza dell’arte” affermasse, ora e ancora, il suo ruolo riformatore, finché anch’essa abbia ancora un senso, e non venga sfaldata in mille rivoli, a volte sterili e pieni di vuoto.
L’altro e il medesimo è allora un’azione frontale, uno sfogo. Non dà risposte, anzi suscita delle domande.
È una riflessione perentoria, trasversale a qualunque ideologia, che stempera la tensione con un’ironia amarissima giocata sull’ambiguità e sulla complessità del linguaggio dell’arte contemporanea. Nella speranza che abbia la capacità non solo di stupire, ma piuttosto di amplificare e sviscerare i sentimenti, abituando alla trasformazione, offrendo un nuovo punto di partenza. Anche quando tutto sembra andare verso una direzione sbagliata.
Adalberto Abbate ripensa a Michel Foucault, all’idea che la morale sia una pratica della creatività, sia la capacità di occupare il giusto posto tra forze dinamiche e avverse del vivere per modificare la propria esistenza, ricreando il nuovo. Qui l’arte non è solo strumento effimero ma salvifico per gli individui. Arte più vera del vero. L’unico codice che alla fine è davvero condivisibile e universale.
Credo che in fondo all’atteggiamento visionario e pessimista di Abbate sia ben saldo il senso del giusto, del bene.
Subisce sì la deriva sociale che è in atto, ma si oppone. Si sente inequivocabilmente un “fastidio epidermico”. La sua durezza disarma.
Dice lui di combattere una “battaglia persa”. Io invece penso che si sbagli. E credo anche lui. Soprattutto quando, stremato, mi confessa di volere ancora “difendere l'idea di giusto che ancora un po’, forse, riusciamo ad avvertire”.
31
ottobre 2012
Adalberto Abbate – L’altro e il medesimo
Dal 31 ottobre 2012 al 06 gennaio 2013
arte contemporanea
Location
BAD NEW BUSINESS
Milano, Via Marco Formentini, 4/6, (Milano)
Milano, Via Marco Formentini, 4/6, (Milano)
Orario di apertura
dal lun al ven dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00
Vernissage
31 Ottobre 2012, h 18.00
Autore
Curatore