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Aghim Muka – Latte di Rondine
una ventina di tele e la proiezione di un video
Comunicato stampa
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“Latte di rondine,… inconscio desiderio di pace costante, irraggiungibile, di un mondo bianco latte di melodie consolanti e oniriche in cui la dimensione umana prevalga e le scelte vengano precedute dalla poesia.
Sapore di pinoli mangiati in spiaggia, amore, calore e respiri di bocconi di cielo.
Litanie pastorali ripetute davanti al fuoco del ricordo, origini ripercorse a ritroso per narrare il domani.
Rituali atavici che scandiscono il passare del tempo.”
Con queste parole, Aghim Muka, introduce la poetica della sua personale che vedrà esposte una ventina di tele e la proiezione di un video dal 22 Ottobre al 20 Novembre 2005 presso la Miniaci Art Gallery di Milano, via Brera 3.
Profondamente romantico e legato alla sua patria, l’Albania, Muka con il detto popolare albanese “latte di rondine” vuole esprimere l’impossibilità di raggiungere uno scopo che in particolare per lui è quello di una pace globale per tutti gli esseri umani che ne delinei dignità e inviolabilità, e nello stesso tempo l’anelito costante al raggiungimento di questa consapevolezza di vincolo per tutti gli uomini e tensione alla pace.
Partendo dalla descrizione delle tradizioni e delle favole albanesi, Muka narra un mondo e parla più lingue, o forse una sola, quella del cuore.
Utopico, onirico, tra il segnico e il materico, il suo messaggio giunge alle menti e ai sentimenti degli osservatori, ricreando un pezzo di mondo, quello albanese, che si estende per metafora a descrivere il mondo intero.
LATTE DI RONDINE
Gianluca Marziani
Densità narrativa, aperture misteriose, cicatrici indelebili, memorie stratificate, bellezza crudele… sono alcune delle principali scoperte che le opere di Aghim Muka propongono allo sguardo recettivo. L’artista, albanese di Fieri, vive da diversi anni a Milano. Appena lo incontri capisci l’importanza delle sue origini, la necessità delle radici forti, la grazia rabbiosa delle attitudini naturali. Oggi rappresenta al meglio la cultura albanese senza che nulla dichiari il legame in modo ideologico. La sua arte ha una dimensione che non si limita a richiami localistici o autoreferenziali, nè ad un falso internazionalismo privo di onestà culturale. Al contrario, incarna la libertà del diario privato che si disvela con generosità e controllo, secondo le necessità etiche che chiedono spazio estetico. Viene da dire, finalmente un artista che non gioca con la retorica del disagio balcanico, che non abusa del degrado sociale per farne una bandiera da biennali e collezionismo snob. Di fatto, Muka distilla il mondo dentro percorsi evocativi ed alchemici, istintivi ma sotto auscultabile controllo. Il lavoro si porta dentro l’accrescimento del viaggio, la scoperta coraggiosa, il moto precario degli spiriti nobilmente nomadi. Opere come pagine di un diario non più “di bordo” ma “sul bordo” delle cose, del vissuto quotidiano, dei sogni speranzosi, della visione morale. Un appuntarsi la vita mentre si cammina tra realtà e geografia mentale, sul confine pericoloso del disvelamento, oltre il limite valicabile della pura bellezza. Aghim Muka compone opere che sembrano ammorbidirsi nel colore, nel tono poetico dei dettagli, nei momenti di quiete materica. In realtà, pulsante sotto il lirismo compositivo, c’è un occhio che si bagna nelle passioni forti, tra carne e sangue, dentro gli organi digerenti dell’esistenza. La sua arte profuma di fiori e fughe, mare e fango, vento e respiro affannoso. Figurazioni di contrasti che si avvinghiano e carezzano, modulati con la vibrazione assonante delle note comuni. Appunti, ricordi, sensazioni, sentimenti, raccolti assieme su fogli in tela che diventano finestre, porte, raccordi, ponti, strade…
Iniziare dalla forma con cui si parte
Partiamo da un’opera, incipit ideale di matericità “brutta” ed invasiva, quasi odorosa nel suo denudarsi come autoritratto epocale. Lacrima o gommone perduto è una grande tela rettangolare dove cuciture e buchi ricordano Alberto Burri e Antoni Tàpies. Muka parte da loro e non lo nega: ma la direzione del suo viaggio immerge l’opera nel dramma generazionale, nella crudeltà del quotidiano, dentro un impianto fisico che restituisce una composizione figurativa senza evasioni astratte. La precarietà del viaggio, la lentezza del tragitto, il pericolo che incombe come diapason piombato: la fuga prende ora la forma del gommone consunto, mangiato da mani che stringono, da piedi impauriti, da corpi indeboliti eppure resistenti, da sguardi colmi di orizzonti ambìti. L’opera registra un’epoca che racchiude altre epoche, altri viaggi ormai lontani, persone su persone con le loro vicende dentro le storie di tante nazioni. Ma nulla si dichiara spudoratamente. La tensione è quella dell’oggetto misterioso, del graal affaticato dove la Storia ha inciso i suoi colori, le sue tonalità, i suoi odori, le sue espressioni compiute. Un gommone che non viaggia più e conserva le esperienze nel loro galleggiamento tra spazio e tempo. E’ una barca che vediamo solo se decidiamo di sentirla, ascoltando il rumore lontano del mare, il respiro delle anime in pena, le onde che si infrangono sul legno alla deriva…
Densità narrativa
Da quel pezzo fino alle opere del 2005, si scivola lungo emozioni diaristiche che seguono il flusso interiore. Ogni volta una storia, un viaggio narrativo dove l’apparente accumulo di forme coglie il respiro letterario del racconto visivo. Il quadro diventa un registratore emozionale, una superficie di sintesi che privilegia la bellezza spontanea di storie da disvelare. La tela si lascia “léggere” con libere divagazioni, permette di partire da qualsiasi punto compositivo, magari isolando un centro ideale che può riguardare il corpo umano, un vaso, un fiore, una casa… La storia plausibile è la storia che ognuno tira fuori dalle concatenazioni diaristiche. Puoi inventarti il prologo, immaginare l’epilogo, ipotizzare il climax massimo e la catarsi necessaria. Sarà compito individuale dare movimento ai protagonisti, ai materiali, alle forme dirette o metaforiche. All’artista la creazione delle domande, al fruitore l’osservazione, il tuffo interpretativo, la vitalità delle singole risposte.
Tutto è sintesi primordiale, forma e formula di riduzioni evocative, semplificate senza che si disperda il carico di energia ideativa. Una composizione che non si adagia al superfluo per poi andare dove il messaggio chiede la giusta soluzione iconografica. Sintesi che riguarda le opere su tela ma anche i video, le installazioni, le performance, le videoinstallazioni. Muka adotta l’apertura linguistica come costante attorno ai suoi quadri multimaterici. Permane la cultura figurativa della precarietà materica, del disorientamento plastico, di una sana imperfezione costruttiva. Non ci sono momenti di puntiglioso manierismo compositivo, benché la crudezza elementare dimostri un istintivo talento per la forma “giusta”. Perchè il “bello”, per essere tale, deve contenere l’adeguatezza risoluta del “giusto”.
Difficile considerare le opere come semplici quadri con la consuetudine della pura pittura. Muka privilegia volumetrie improvvise, anfratti e tagli, cuciture e rigonfiamenti, imperfezioni calibrate, momenti di vuoto scenico e pezzi di solido accumulo. I lavori pulsano come rilevatori sensibili, impaginazioni fluttuanti che si aprono a materiali consunti, legno, uova, cucchiai, stoffe… ma anche a fotografie, ritagli di giornali e riviste, a vecchi quadri che si ricompongono nelle impaginazioni pittoriche. Materia e colore raccordano i brandelli di un continuo peregrinare nel quotidiano. Muka osserva, capta, seleziona, butta, recupera, conserva, finché alcune cose si trasformano in adeguato ingrediente compositivo. La superficie figurativa edifica agglomerati dove pieni e vuoti trovano un loro esperanto architettonico. Osservi un mondo che connette la realtà esterna con l’esperienza interiore, in bilico tra frangenti collettivi e sentimento individuale, società e famiglia, senso del gruppo e sensualità della solitudine.
Altrettanto difficile non considerare i titoli come un significativo completamento. Nulla si dichiara in maniera aperta, così come i quadri celano la prosa del quotidiano dietro forme che si asciugano tra narrazioni metaforiche, simbolismi morbidi, citazioni consapevoli. Il titolo presume l’inizio della visione, la tensione dei passaggi e la formula del contenuto finale. Racchiude l’estetica in una frase dalle parole soffici ma senza manierismi melensi. Alcune volte scoviamo solo una parola, come “esistenza” o “pensieri”. Ma anche qui torna la densità dello sguardo aperto, del contenuto morale che giustifica qualsiasi forma, anche il più infinitesimale tocco cromatico. Perchè, utile ricordarlo, la vera arte giustifica l’estetica attraverso il suo contenuto edificante.
Bellezza e memoria
Scivola nelle opere una bellezza che ammalia ma ferisce. Ascolti il quadro nel suo mancato silenzio, senti rumori echeggianti, stridore, vibrazioni meticcie di una natura spietata. Capisci che la bellezza può diventare crudele in un attimo, avvolgendo gli sguardi con braccia floreali dagli aculei pericolosi. L’arte di Muka ricorda una rosa: morbida ed elegante finchè la osservi o carezzi i petali, d’improvviso pericolosa se la prendi dal gambo e non la maneggi con cura. L’energia delle opere esige un primo sguardo che si lascia ammaliare dalle immagini, giocando su seduzioni sottili ed erotismi plastici attorno all’occhio. Ma il secondo sguardo, quello verso il cuore e la testa delle forme, tocca il dilemma esistenziale, la domanda irrisolta che un bravo artista impone al proprio viaggio creativo.
Donne
E poi torna la figura femminile: madre, compagna, moglie, amante, amica, sorella, un’entità necessaria che appare con posture e fisionomie conturbanti. Un archetipo al centro del viaggio pittorico, sorta di cuore pulsante che irradia energia sullo scenario figurativo. La Donna, generatrice di vita, sembra un sole che espande calore attorno a sè. Vasi, fiori, case, bandiere, ritagli, scritte… ogni cosa si trasforma in un raggio che parte da quel bulbo solare per illuminare e illuminarsi. Non è un caso che ogni quadro abbia una luce intensa, talvolta eccessiva in certe zone. Si sente qualcosa di metafisico, riflesso figurativo di un’interiorità viva, di un’emozione che si rigenera tra esperienza e cultura.
Quadro dopo quadro, vince l’ottimismo dello sguardo coraggioso, la resistenza umana di chi costruisce messaggi aperti attraverso opere che lottano, si appassionano, abbracciano, amano. Aghim Muka non ha paura della poesia e della voce dai toni romantici. Fa regredire l’occhio spirituale ad una dimensione infantile, dalle parti di Gastone Novelli e Francesco Clemente. Del primo mantiene l’automatismo compositivo, l’architettura dai molteplici livelli; del secondo il disegno sinuoso che mescola il corpo tra le nature viventi. Si avvicina ad entrambi pur mantenendo l’autonomia sanata dello sguardo cosciente, in costante empatia con la sua realtà, la sua vita, la sua cultura, la sua verità.
Aperture in chiusura
Chiudiamo il nostro viaggio nel punto in cui il quadro si apre verso la visione del mistero. Feritoie, buchi, fessure, tagli, cuciture precarie che sembrano dischiudersi… finché l’opera somiglia ad un pesce con le sue branchie sventaglianti, entità organica dove le valvole ombelicali pompano ossigeno etico. Muka lascia sempre uno spiraglio, una via di fuga o d’ingresso da cui far scorrere energie. Le aperture si tramutano in una dogana tra individuo e mondo esterno, un diaframma elastico che connette l’opera alla crudezza del quotidiano. Varchi verso il passato e il futuro, tra la fedeltà del presente e il dubbio su altri possibili domani.
Sapore di pinoli mangiati in spiaggia, amore, calore e respiri di bocconi di cielo.
Litanie pastorali ripetute davanti al fuoco del ricordo, origini ripercorse a ritroso per narrare il domani.
Rituali atavici che scandiscono il passare del tempo.”
Con queste parole, Aghim Muka, introduce la poetica della sua personale che vedrà esposte una ventina di tele e la proiezione di un video dal 22 Ottobre al 20 Novembre 2005 presso la Miniaci Art Gallery di Milano, via Brera 3.
Profondamente romantico e legato alla sua patria, l’Albania, Muka con il detto popolare albanese “latte di rondine” vuole esprimere l’impossibilità di raggiungere uno scopo che in particolare per lui è quello di una pace globale per tutti gli esseri umani che ne delinei dignità e inviolabilità, e nello stesso tempo l’anelito costante al raggiungimento di questa consapevolezza di vincolo per tutti gli uomini e tensione alla pace.
Partendo dalla descrizione delle tradizioni e delle favole albanesi, Muka narra un mondo e parla più lingue, o forse una sola, quella del cuore.
Utopico, onirico, tra il segnico e il materico, il suo messaggio giunge alle menti e ai sentimenti degli osservatori, ricreando un pezzo di mondo, quello albanese, che si estende per metafora a descrivere il mondo intero.
LATTE DI RONDINE
Gianluca Marziani
Densità narrativa, aperture misteriose, cicatrici indelebili, memorie stratificate, bellezza crudele… sono alcune delle principali scoperte che le opere di Aghim Muka propongono allo sguardo recettivo. L’artista, albanese di Fieri, vive da diversi anni a Milano. Appena lo incontri capisci l’importanza delle sue origini, la necessità delle radici forti, la grazia rabbiosa delle attitudini naturali. Oggi rappresenta al meglio la cultura albanese senza che nulla dichiari il legame in modo ideologico. La sua arte ha una dimensione che non si limita a richiami localistici o autoreferenziali, nè ad un falso internazionalismo privo di onestà culturale. Al contrario, incarna la libertà del diario privato che si disvela con generosità e controllo, secondo le necessità etiche che chiedono spazio estetico. Viene da dire, finalmente un artista che non gioca con la retorica del disagio balcanico, che non abusa del degrado sociale per farne una bandiera da biennali e collezionismo snob. Di fatto, Muka distilla il mondo dentro percorsi evocativi ed alchemici, istintivi ma sotto auscultabile controllo. Il lavoro si porta dentro l’accrescimento del viaggio, la scoperta coraggiosa, il moto precario degli spiriti nobilmente nomadi. Opere come pagine di un diario non più “di bordo” ma “sul bordo” delle cose, del vissuto quotidiano, dei sogni speranzosi, della visione morale. Un appuntarsi la vita mentre si cammina tra realtà e geografia mentale, sul confine pericoloso del disvelamento, oltre il limite valicabile della pura bellezza. Aghim Muka compone opere che sembrano ammorbidirsi nel colore, nel tono poetico dei dettagli, nei momenti di quiete materica. In realtà, pulsante sotto il lirismo compositivo, c’è un occhio che si bagna nelle passioni forti, tra carne e sangue, dentro gli organi digerenti dell’esistenza. La sua arte profuma di fiori e fughe, mare e fango, vento e respiro affannoso. Figurazioni di contrasti che si avvinghiano e carezzano, modulati con la vibrazione assonante delle note comuni. Appunti, ricordi, sensazioni, sentimenti, raccolti assieme su fogli in tela che diventano finestre, porte, raccordi, ponti, strade…
Iniziare dalla forma con cui si parte
Partiamo da un’opera, incipit ideale di matericità “brutta” ed invasiva, quasi odorosa nel suo denudarsi come autoritratto epocale. Lacrima o gommone perduto è una grande tela rettangolare dove cuciture e buchi ricordano Alberto Burri e Antoni Tàpies. Muka parte da loro e non lo nega: ma la direzione del suo viaggio immerge l’opera nel dramma generazionale, nella crudeltà del quotidiano, dentro un impianto fisico che restituisce una composizione figurativa senza evasioni astratte. La precarietà del viaggio, la lentezza del tragitto, il pericolo che incombe come diapason piombato: la fuga prende ora la forma del gommone consunto, mangiato da mani che stringono, da piedi impauriti, da corpi indeboliti eppure resistenti, da sguardi colmi di orizzonti ambìti. L’opera registra un’epoca che racchiude altre epoche, altri viaggi ormai lontani, persone su persone con le loro vicende dentro le storie di tante nazioni. Ma nulla si dichiara spudoratamente. La tensione è quella dell’oggetto misterioso, del graal affaticato dove la Storia ha inciso i suoi colori, le sue tonalità, i suoi odori, le sue espressioni compiute. Un gommone che non viaggia più e conserva le esperienze nel loro galleggiamento tra spazio e tempo. E’ una barca che vediamo solo se decidiamo di sentirla, ascoltando il rumore lontano del mare, il respiro delle anime in pena, le onde che si infrangono sul legno alla deriva…
Densità narrativa
Da quel pezzo fino alle opere del 2005, si scivola lungo emozioni diaristiche che seguono il flusso interiore. Ogni volta una storia, un viaggio narrativo dove l’apparente accumulo di forme coglie il respiro letterario del racconto visivo. Il quadro diventa un registratore emozionale, una superficie di sintesi che privilegia la bellezza spontanea di storie da disvelare. La tela si lascia “léggere” con libere divagazioni, permette di partire da qualsiasi punto compositivo, magari isolando un centro ideale che può riguardare il corpo umano, un vaso, un fiore, una casa… La storia plausibile è la storia che ognuno tira fuori dalle concatenazioni diaristiche. Puoi inventarti il prologo, immaginare l’epilogo, ipotizzare il climax massimo e la catarsi necessaria. Sarà compito individuale dare movimento ai protagonisti, ai materiali, alle forme dirette o metaforiche. All’artista la creazione delle domande, al fruitore l’osservazione, il tuffo interpretativo, la vitalità delle singole risposte.
Tutto è sintesi primordiale, forma e formula di riduzioni evocative, semplificate senza che si disperda il carico di energia ideativa. Una composizione che non si adagia al superfluo per poi andare dove il messaggio chiede la giusta soluzione iconografica. Sintesi che riguarda le opere su tela ma anche i video, le installazioni, le performance, le videoinstallazioni. Muka adotta l’apertura linguistica come costante attorno ai suoi quadri multimaterici. Permane la cultura figurativa della precarietà materica, del disorientamento plastico, di una sana imperfezione costruttiva. Non ci sono momenti di puntiglioso manierismo compositivo, benché la crudezza elementare dimostri un istintivo talento per la forma “giusta”. Perchè il “bello”, per essere tale, deve contenere l’adeguatezza risoluta del “giusto”.
Difficile considerare le opere come semplici quadri con la consuetudine della pura pittura. Muka privilegia volumetrie improvvise, anfratti e tagli, cuciture e rigonfiamenti, imperfezioni calibrate, momenti di vuoto scenico e pezzi di solido accumulo. I lavori pulsano come rilevatori sensibili, impaginazioni fluttuanti che si aprono a materiali consunti, legno, uova, cucchiai, stoffe… ma anche a fotografie, ritagli di giornali e riviste, a vecchi quadri che si ricompongono nelle impaginazioni pittoriche. Materia e colore raccordano i brandelli di un continuo peregrinare nel quotidiano. Muka osserva, capta, seleziona, butta, recupera, conserva, finché alcune cose si trasformano in adeguato ingrediente compositivo. La superficie figurativa edifica agglomerati dove pieni e vuoti trovano un loro esperanto architettonico. Osservi un mondo che connette la realtà esterna con l’esperienza interiore, in bilico tra frangenti collettivi e sentimento individuale, società e famiglia, senso del gruppo e sensualità della solitudine.
Altrettanto difficile non considerare i titoli come un significativo completamento. Nulla si dichiara in maniera aperta, così come i quadri celano la prosa del quotidiano dietro forme che si asciugano tra narrazioni metaforiche, simbolismi morbidi, citazioni consapevoli. Il titolo presume l’inizio della visione, la tensione dei passaggi e la formula del contenuto finale. Racchiude l’estetica in una frase dalle parole soffici ma senza manierismi melensi. Alcune volte scoviamo solo una parola, come “esistenza” o “pensieri”. Ma anche qui torna la densità dello sguardo aperto, del contenuto morale che giustifica qualsiasi forma, anche il più infinitesimale tocco cromatico. Perchè, utile ricordarlo, la vera arte giustifica l’estetica attraverso il suo contenuto edificante.
Bellezza e memoria
Scivola nelle opere una bellezza che ammalia ma ferisce. Ascolti il quadro nel suo mancato silenzio, senti rumori echeggianti, stridore, vibrazioni meticcie di una natura spietata. Capisci che la bellezza può diventare crudele in un attimo, avvolgendo gli sguardi con braccia floreali dagli aculei pericolosi. L’arte di Muka ricorda una rosa: morbida ed elegante finchè la osservi o carezzi i petali, d’improvviso pericolosa se la prendi dal gambo e non la maneggi con cura. L’energia delle opere esige un primo sguardo che si lascia ammaliare dalle immagini, giocando su seduzioni sottili ed erotismi plastici attorno all’occhio. Ma il secondo sguardo, quello verso il cuore e la testa delle forme, tocca il dilemma esistenziale, la domanda irrisolta che un bravo artista impone al proprio viaggio creativo.
Donne
E poi torna la figura femminile: madre, compagna, moglie, amante, amica, sorella, un’entità necessaria che appare con posture e fisionomie conturbanti. Un archetipo al centro del viaggio pittorico, sorta di cuore pulsante che irradia energia sullo scenario figurativo. La Donna, generatrice di vita, sembra un sole che espande calore attorno a sè. Vasi, fiori, case, bandiere, ritagli, scritte… ogni cosa si trasforma in un raggio che parte da quel bulbo solare per illuminare e illuminarsi. Non è un caso che ogni quadro abbia una luce intensa, talvolta eccessiva in certe zone. Si sente qualcosa di metafisico, riflesso figurativo di un’interiorità viva, di un’emozione che si rigenera tra esperienza e cultura.
Quadro dopo quadro, vince l’ottimismo dello sguardo coraggioso, la resistenza umana di chi costruisce messaggi aperti attraverso opere che lottano, si appassionano, abbracciano, amano. Aghim Muka non ha paura della poesia e della voce dai toni romantici. Fa regredire l’occhio spirituale ad una dimensione infantile, dalle parti di Gastone Novelli e Francesco Clemente. Del primo mantiene l’automatismo compositivo, l’architettura dai molteplici livelli; del secondo il disegno sinuoso che mescola il corpo tra le nature viventi. Si avvicina ad entrambi pur mantenendo l’autonomia sanata dello sguardo cosciente, in costante empatia con la sua realtà, la sua vita, la sua cultura, la sua verità.
Aperture in chiusura
Chiudiamo il nostro viaggio nel punto in cui il quadro si apre verso la visione del mistero. Feritoie, buchi, fessure, tagli, cuciture precarie che sembrano dischiudersi… finché l’opera somiglia ad un pesce con le sue branchie sventaglianti, entità organica dove le valvole ombelicali pompano ossigeno etico. Muka lascia sempre uno spiraglio, una via di fuga o d’ingresso da cui far scorrere energie. Le aperture si tramutano in una dogana tra individuo e mondo esterno, un diaframma elastico che connette l’opera alla crudezza del quotidiano. Varchi verso il passato e il futuro, tra la fedeltà del presente e il dubbio su altri possibili domani.
22
ottobre 2005
Aghim Muka – Latte di Rondine
Dal 22 ottobre al 10 novembre 2005
arte contemporanea
Location
MINIACI ART GALLERY
Milano, Via Brera, 3, (Milano)
Milano, Via Brera, 3, (Milano)
Orario di apertura
tutti i giorni 11-19 e su appuntamento
Vernissage
22 Ottobre 2005, ore 18.30
Ufficio stampa
CRISALIS ARTNETCOMMUNICATION
Autore