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Alberto Petrò – Il tentativo borghese di non cadere
Il tentativo di Alberto Petrò, come si evince dal titolo, è di non decadere in garage, ovvero il suo studio. Mettere in mostra i propri quindici anni di fotografie corrisponde ad uscire nuovamente allo scoperto riproponendo, in una sorta di retrospettiva, tutti i lavori realizzati dal 2002 ad oggi
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Il tentativo di Alberto Petrò, come si evince dal titolo, è di non decadere in garage, ovvero
il suo studio. Mettere in mostra i propri quindici anni di fotografie corrisponde ad uscire
nuovamente allo scoperto riproponendo, in una sorta di retrospettiva, tutti i lavori realizzati
dal 2002 ad oggi.
Provare a riemergere dal piatto, mostrando come reliquie preziose i propri lavori con l’aiuto
di un pubblico, è un privilegio della classe borghese, già decaduta da anni, ma tenuta in
vita da goffi tentativi di esistere, come questo, che con la loro mediocrità non fanno altro
che alimentare un inutile perbenismo politically correct. Nonostante il titolo, la mostra
risulta interessante perché carica di tutta l’adrenalina creativa e la varietà, anche tecnica,
che hanno contraddistinto i suoi lavori fin dagli esordi.
Breve bio
Si appassiona alla fotografia proprio quando il digitale subentra all’analogico. Grazie ad un
amico collezionista si ritrova tra le mani un tesoro di inestimabile valore: i primi 150 anni di
storia della fotografia, dagli emozionanti tentativi degli esordi agli ultimi baluardi della
nostra epoca. Migliaia di immagini straordinarie, che può persino toccare, lo travolgono
accompagnandone il suo percorso culturale e le sue curiosità tecniche. Sviluppa così una
sensibilità artistica che lo porta ad esporre in diverse gallerie in Italia e all’estero, fino a
quando lo scontro con il digitale si rivela ineluttabile. Diventa lentamente professionista,
mantenendosi costantemente in bilico tra il mondo reale – quello del commercio e delle
partite iva – e un mondo più reale, quello anacronistico di apparecchi fotografici a soffietto
in via d’estinzione e pellicole scadute. Passa le giornate in una sorta di limbo alternando
momenti di bricolage a tentativi di catarsi e visioni ancestrali, mantenendo sempre un
occhio di riguardo per la bellezza e l’altro puntato attraverso l’oculare della fotocamera
pronto a catturarla.
Alberto Petrò nasce nel 1980. Si avvicina alla fotografia a diciott’anni, lavorando come
assistente presso alcuni fotografi e archiviatore presso una collezione privata. Dopo varie
esperienze e un periodo all’estero, tra cui una residenza d’artista presso il Tacheles
Arthouse di Berlino ritorna in Italia. Ha esposto in varie gallerie d’arte nazionali ed estere,
in mostre personali e collettive. Nel 2011 apre il suo studio a Brescia presso il quale si
occupa di fotografia, grafica ed organizzazione di eventi culturali.
IL TENTATIVO BORGHESE DI NON DECADERE IN GARAGE
di Marcello Barison
Il titolo, brutto perché volutamente sgraziato, cioè un poco goffo e grottesco, awkward, come
lo spirito dei tempi, che Petrò ha voluto dare alla sua mostra, è però rivelativo perché, per chi
abbia orecchie, parla dell’affaticata condizione dell’artista che, quotidianamente, deve malgré
sois fare i conti con la propria irrilevanza, con la disattenzione endemica del pubblico (esiste
ancora, peraltro, un pubblico dell’arte sufficientemente educato, non necessariamente
conformista e diverso da quello che frequenta il concerto di una popstar o assedia un mall il
giorno dei saldi?) e tutto il carico di conseguente apatia creativa, di resa isolamento rifiuto, che
annienta l’estro dell’artefice che si fa muto perché mancano interlocutori adeguati. Ma il titolo
della mostra, problematico, non si limita a sottendere una diagnosi che potrebbe apparire,
appunto, mero sintomo, per la verità non poco compiaciuto, di decadentismo - quando mai
l’artista non s’è sentito incompreso o rifiutato dal discorso estetico o economico dominante
nella sua epoca e conseguentemente escluso dalle dinamiche produttivamente dialettiche
dell’Anerkennung? -; si parla infatti, non senza ironia, di “tentativo borghese” - e su questo
bisognerà riflettere perché il riferimento lascia intendere che l’artista, emarginato in un garage-
laboratorio che lo fa più hipster che reietto (mai stati nello studio di Petrò in via Portapile - il
nesso autobiografico è evidente), non s’intruppa - sarebbe insopportabile - in un’inesistente
generazione di artistes maudits che si arrabattano in digiuna ristrettezza, ma ammette la sua,
forse addirittura annoiata, contraddizione: il benessere non manca, si vivacchia non senz’agio,
ed è proprio in questa medietà senza picchi o fratture, scevra di urgenza - dove non c’è Not:
né bisogno, quindi, né necessità - e di veri referenti che davvero chiedano conto
dell’autonomia, dell’originalità e dell’impatto del lavoro fatto, che la vocazione artistica a poco
a poco si spegne e declina. E rimane in garage, a impolverarsi impilata sotto una coltre infinita
d’altri progetti mai realizzati del tutto, o nella soffitta della mente, nelle cantine di un esprit
immalinconito ed essenzialmente disincantato che non pulsa più perché tanto “non è poi così
importante e in ogni caso si sopravvive comunque”: anche senz’arte, o quando l’arte, messa al
bando dal mondo e da chi ha provato inutilmente a farla vivere, finisce dimenticata in un
garage. Appunto.
In altri tempi, recenti ma che oggi sembrano remoti, si dibatteva, nelle infinite variazioni del
marxismo, sul ruolo sovrastrutturale dell’arte, cioè, essenzialmente, sul suo grado di
dipendenza - o di indipendenza - rispetto all’ordine economico dei rapporti di produzione. Se
per Marx, benché in un compendio piuttosto volgare, si può dire che l’arte, in quanto prodotto
sociale, è un fenomeno essenzialmente borghese che riflette valori e relazioni di classe
borghesi, è altrettanto vero che nella nutrita filiera del marxismo occidentale, figure come
Benjamin, Adorno, Marcuse (e molti altri) hanno invece posto l’accento sul carattere di
inassimilabilità dell’arte, ossia sul suo potenziale costitutivamente critico, mai completamente
riducibile alla forma economica del potere dominante, motivo per cui, anche nel mondo
borghese - e anche se praticata da borghesi - l’arte non potrebbe mai essere un fenomeno
interamente borghese; in essa, viceversa, vi è sempre alcunché di drammaticamente
sovversivo, contraddittorio rispetto al principio di realtà economico-politico che vorrebbe
disciplinare ogni pratica al nomos universale della valorizzazione capitalistica. Ne La
dimensione estetica, Marcuse muove addirittura oltre, negando altresì che l’arte, come
sembrerebbe indicare una rigida lettura del modello psicoanalitico, sia una sublimazione
repressiva che, trasferendo ogni critica dell’esistente su di un piano meramente estetico, cioè
impolitico ed astratto, finisce col non intaccare mai la struttura reale del potere borghese che si
articola a livello dei rapporti mondani concreti. Viceversa, sostiene il pensatore di Eros e
civiltà, l’arte scardina la realtà dall’interno, incistando nei suoi gangli sociali e istituzionali un
movimento rivoluzionario e liberatorio poiché ciò che viene artisticamente prodotto è un’opera
oggettivamente presente che, nella realtà, parla un linguaggio diverso da quello del potere - lo
critica, mira a dissolverlo e lavora per un superamento della sua forma economica borghese.
Ora, dove si colloca, rispetto alla traiettoria dell’epistemologia marxista dell’arte, l’ironica
provocazione di Alberto Petrò che immagina la sua mostra come un “tentativo borghese di non
decadere in garage”? Petrò non si concede illusioni. Ha abdicato alla mitologia di un ruolo
politico dell’arte ed è consapevole dell’intrascendibile incardinamento borghese che determina
la sua stessa soggettività di autore. (L’idea che molta arte contemporanea, da Koons a La
Chapelle, da Marina Abramovič a Maurizio Cattelan, intenda la propria pratica come una
critica politica dell’esistente, fa semplicemente sorridere, visto che le loro opere rispondono
essenzialmente al paradigma promozionale della merce, sicché la loro sussistenza dipende
interamente da quelle stesse logiche di mercato che vorrebbero apparentemente
destabilizzare. Ciascuno dei loro ‘pezzi’ non differisce in nulla da una borsa di Gucci o da un
paio di scarpe Nike). In altre parole: nel mondo contemporaneo l’artista che Petrò riconosce
lucidamente di essere è un borghese la cui arte né dipende integralmente dai rapporti
economici dominanti che determinano la forma capitalistica della società attuale, né, come nel
modello di Adorno o Marcuse, può in alcun modo sovvertire l’ordinamento politico vigente.
L’artista vive quindi semplicemente nell’avvilente condizione di essere un borghese che
realizza opere che alla borghesia non interessano (mentre essa è alquanto interessata a
collezionare le merci feticciali di Cattelan o Koons) e che per giunta non sono in nessun modo
in grado di ispirare o determinare un movimento rivoluzionario contro questa stessa borghesia
priva di interesse perché essa sia soppiantata da una forma sociale dominante diversa e
soprattutto migliore (cioè esteticamente educata). Dunque Petrò, borghese, non interessa alla
borghesia (cioè non è riconosciuto dagli attuali detentori del potere economico e sociale, e, in
genere, dal mercato dell’arte) ed è quindi costretto a mettere la sua opera in un ripostiglio - o
in un garage, se preferite -, rinunciando svogliatamente a prendersene cura, a volerla esporre
e, soprattutto, a continuare a crearla. Questo per dire che se è vero che le sue opere non
ricevono l’attenzione che dovrebbero per via della loro qualità oggettiva (e, si badi bene, non
c’è niente di meno soggettivo o indeterminato del bello artistico), è innegabile che la sordità di
un mondo ineducato ad apprezzare l’arte più matura e meditata, cioè esteticamente coerente
e necessaria, spinge l’autore - in questo caso Petrò, ma è un fenomeno epocale che intacca
oggi la vita di chiunque crei nonostante le attuali condizioni storiche - a non promuovere i suoi
lavori, cioè a non impegnarsi socialmente più che tanto perché escano dal garage. In altre
parole - questa, almeno, è la mia lettura -: non è corretto limitarsi a constatare che il mondo
ignora ingiustamente Petrò, non fosse perché questa è soltanto la conseguenza finale, il
‘risultato’ ultimo della condizione strutturale in cui il vero artista - cioè né l’impostore né il
paesaggista della domenica - (soprav)vive nel nostro tempo - e, non meno, perché, di fatto, si
presenta qui una sua mostra. Ben più decisivo, infatti, è capire quanto segue, e cioè che
l’ignoranza del mondo e la sua inadeguatezza costringono Petrò a ignorarlo. E di qui
l’eremitaggio urbano nel garage. Della serie: siccome il mondo borghese non ha più strumenti
adeguati per comprendere, e visto che la sua Weltanschauung è oramai interamente plagiata
da una compulsiva celebrazione della merce, cioè della non-arte per definizione, vien meno
ogni slancio di rivolgersi ad esso. Di cercare riconoscimento o approvazione. In una parola: di
avere un ‘mercato’.
Non so quanto egli ne sia consapevole, ma il suo rapporto con la borghesia è esattamente
quello che emerge dalla fotografia che ha scelto come manifesto per questa mostra. I
manichini in vetrina, anonimi e reificati, sono il pubblico borghese dell’arte contemporanea (di
cui Prada, peraltro, è uno tra i maggiori brand). In modo del tutto indifferente, guardano verso
l’esterno, dove s’impone un elemento anomalo, dissonante: un vaso arrovesciato andato in
pezzi che, per morfologia e sentimento, è appunto l’oggetto d’arte decadente. I borghesi,
ironicamente decollati perché, di fatto, non vedono né davvero percepiscono, non entrano
minimamente in contatto con l’opera d’arte. Non l’osservano nemmeno - e come potrebbero,
se non hanno occhi per vedere? - e, in ogni caso, un’algida lastra di vetro li separa
inesorabilmente dall’evento plasticamente sovversivo che accade innanzi a loro. All’arte di
Petrò, succede un po’ lo stesso: è vittima consapevole del disinteresse generale e, nello zoo
borghese contemporaneo delle Fondazioni Prada e delle Biennali clownesche, degli impostori
e dei galleristi da aperitivo, la sua opera, tristemente trascurata, sopravvive solo nei bassifondi
di un garage-studio in via Portapile di cui il grande pubblico ignora l’esistenza ma su cui gli
archeologi del futuro dovranno concentrare i propri scavi per capire dove, mentre tutti gli altri,
o quasi tutti, facevano finta, si faceva ancora Arte. L’Arte autentica - borghese, certo, ma che
importa? - che oggi passa inosservata e che questa mostra ci permette per un’attimo di poter
contemplare in uno spazio pubblico prima che, forse inevitabilmente, ritorni a decadere nel
garage dov’è stata finora conservata e che, forse, è il solo luogo cui davvero appartiene.
il suo studio. Mettere in mostra i propri quindici anni di fotografie corrisponde ad uscire
nuovamente allo scoperto riproponendo, in una sorta di retrospettiva, tutti i lavori realizzati
dal 2002 ad oggi.
Provare a riemergere dal piatto, mostrando come reliquie preziose i propri lavori con l’aiuto
di un pubblico, è un privilegio della classe borghese, già decaduta da anni, ma tenuta in
vita da goffi tentativi di esistere, come questo, che con la loro mediocrità non fanno altro
che alimentare un inutile perbenismo politically correct. Nonostante il titolo, la mostra
risulta interessante perché carica di tutta l’adrenalina creativa e la varietà, anche tecnica,
che hanno contraddistinto i suoi lavori fin dagli esordi.
Breve bio
Si appassiona alla fotografia proprio quando il digitale subentra all’analogico. Grazie ad un
amico collezionista si ritrova tra le mani un tesoro di inestimabile valore: i primi 150 anni di
storia della fotografia, dagli emozionanti tentativi degli esordi agli ultimi baluardi della
nostra epoca. Migliaia di immagini straordinarie, che può persino toccare, lo travolgono
accompagnandone il suo percorso culturale e le sue curiosità tecniche. Sviluppa così una
sensibilità artistica che lo porta ad esporre in diverse gallerie in Italia e all’estero, fino a
quando lo scontro con il digitale si rivela ineluttabile. Diventa lentamente professionista,
mantenendosi costantemente in bilico tra il mondo reale – quello del commercio e delle
partite iva – e un mondo più reale, quello anacronistico di apparecchi fotografici a soffietto
in via d’estinzione e pellicole scadute. Passa le giornate in una sorta di limbo alternando
momenti di bricolage a tentativi di catarsi e visioni ancestrali, mantenendo sempre un
occhio di riguardo per la bellezza e l’altro puntato attraverso l’oculare della fotocamera
pronto a catturarla.
Alberto Petrò nasce nel 1980. Si avvicina alla fotografia a diciott’anni, lavorando come
assistente presso alcuni fotografi e archiviatore presso una collezione privata. Dopo varie
esperienze e un periodo all’estero, tra cui una residenza d’artista presso il Tacheles
Arthouse di Berlino ritorna in Italia. Ha esposto in varie gallerie d’arte nazionali ed estere,
in mostre personali e collettive. Nel 2011 apre il suo studio a Brescia presso il quale si
occupa di fotografia, grafica ed organizzazione di eventi culturali.
IL TENTATIVO BORGHESE DI NON DECADERE IN GARAGE
di Marcello Barison
Il titolo, brutto perché volutamente sgraziato, cioè un poco goffo e grottesco, awkward, come
lo spirito dei tempi, che Petrò ha voluto dare alla sua mostra, è però rivelativo perché, per chi
abbia orecchie, parla dell’affaticata condizione dell’artista che, quotidianamente, deve malgré
sois fare i conti con la propria irrilevanza, con la disattenzione endemica del pubblico (esiste
ancora, peraltro, un pubblico dell’arte sufficientemente educato, non necessariamente
conformista e diverso da quello che frequenta il concerto di una popstar o assedia un mall il
giorno dei saldi?) e tutto il carico di conseguente apatia creativa, di resa isolamento rifiuto, che
annienta l’estro dell’artefice che si fa muto perché mancano interlocutori adeguati. Ma il titolo
della mostra, problematico, non si limita a sottendere una diagnosi che potrebbe apparire,
appunto, mero sintomo, per la verità non poco compiaciuto, di decadentismo - quando mai
l’artista non s’è sentito incompreso o rifiutato dal discorso estetico o economico dominante
nella sua epoca e conseguentemente escluso dalle dinamiche produttivamente dialettiche
dell’Anerkennung? -; si parla infatti, non senza ironia, di “tentativo borghese” - e su questo
bisognerà riflettere perché il riferimento lascia intendere che l’artista, emarginato in un garage-
laboratorio che lo fa più hipster che reietto (mai stati nello studio di Petrò in via Portapile - il
nesso autobiografico è evidente), non s’intruppa - sarebbe insopportabile - in un’inesistente
generazione di artistes maudits che si arrabattano in digiuna ristrettezza, ma ammette la sua,
forse addirittura annoiata, contraddizione: il benessere non manca, si vivacchia non senz’agio,
ed è proprio in questa medietà senza picchi o fratture, scevra di urgenza - dove non c’è Not:
né bisogno, quindi, né necessità - e di veri referenti che davvero chiedano conto
dell’autonomia, dell’originalità e dell’impatto del lavoro fatto, che la vocazione artistica a poco
a poco si spegne e declina. E rimane in garage, a impolverarsi impilata sotto una coltre infinita
d’altri progetti mai realizzati del tutto, o nella soffitta della mente, nelle cantine di un esprit
immalinconito ed essenzialmente disincantato che non pulsa più perché tanto “non è poi così
importante e in ogni caso si sopravvive comunque”: anche senz’arte, o quando l’arte, messa al
bando dal mondo e da chi ha provato inutilmente a farla vivere, finisce dimenticata in un
garage. Appunto.
In altri tempi, recenti ma che oggi sembrano remoti, si dibatteva, nelle infinite variazioni del
marxismo, sul ruolo sovrastrutturale dell’arte, cioè, essenzialmente, sul suo grado di
dipendenza - o di indipendenza - rispetto all’ordine economico dei rapporti di produzione. Se
per Marx, benché in un compendio piuttosto volgare, si può dire che l’arte, in quanto prodotto
sociale, è un fenomeno essenzialmente borghese che riflette valori e relazioni di classe
borghesi, è altrettanto vero che nella nutrita filiera del marxismo occidentale, figure come
Benjamin, Adorno, Marcuse (e molti altri) hanno invece posto l’accento sul carattere di
inassimilabilità dell’arte, ossia sul suo potenziale costitutivamente critico, mai completamente
riducibile alla forma economica del potere dominante, motivo per cui, anche nel mondo
borghese - e anche se praticata da borghesi - l’arte non potrebbe mai essere un fenomeno
interamente borghese; in essa, viceversa, vi è sempre alcunché di drammaticamente
sovversivo, contraddittorio rispetto al principio di realtà economico-politico che vorrebbe
disciplinare ogni pratica al nomos universale della valorizzazione capitalistica. Ne La
dimensione estetica, Marcuse muove addirittura oltre, negando altresì che l’arte, come
sembrerebbe indicare una rigida lettura del modello psicoanalitico, sia una sublimazione
repressiva che, trasferendo ogni critica dell’esistente su di un piano meramente estetico, cioè
impolitico ed astratto, finisce col non intaccare mai la struttura reale del potere borghese che si
articola a livello dei rapporti mondani concreti. Viceversa, sostiene il pensatore di Eros e
civiltà, l’arte scardina la realtà dall’interno, incistando nei suoi gangli sociali e istituzionali un
movimento rivoluzionario e liberatorio poiché ciò che viene artisticamente prodotto è un’opera
oggettivamente presente che, nella realtà, parla un linguaggio diverso da quello del potere - lo
critica, mira a dissolverlo e lavora per un superamento della sua forma economica borghese.
Ora, dove si colloca, rispetto alla traiettoria dell’epistemologia marxista dell’arte, l’ironica
provocazione di Alberto Petrò che immagina la sua mostra come un “tentativo borghese di non
decadere in garage”? Petrò non si concede illusioni. Ha abdicato alla mitologia di un ruolo
politico dell’arte ed è consapevole dell’intrascendibile incardinamento borghese che determina
la sua stessa soggettività di autore. (L’idea che molta arte contemporanea, da Koons a La
Chapelle, da Marina Abramovič a Maurizio Cattelan, intenda la propria pratica come una
critica politica dell’esistente, fa semplicemente sorridere, visto che le loro opere rispondono
essenzialmente al paradigma promozionale della merce, sicché la loro sussistenza dipende
interamente da quelle stesse logiche di mercato che vorrebbero apparentemente
destabilizzare. Ciascuno dei loro ‘pezzi’ non differisce in nulla da una borsa di Gucci o da un
paio di scarpe Nike). In altre parole: nel mondo contemporaneo l’artista che Petrò riconosce
lucidamente di essere è un borghese la cui arte né dipende integralmente dai rapporti
economici dominanti che determinano la forma capitalistica della società attuale, né, come nel
modello di Adorno o Marcuse, può in alcun modo sovvertire l’ordinamento politico vigente.
L’artista vive quindi semplicemente nell’avvilente condizione di essere un borghese che
realizza opere che alla borghesia non interessano (mentre essa è alquanto interessata a
collezionare le merci feticciali di Cattelan o Koons) e che per giunta non sono in nessun modo
in grado di ispirare o determinare un movimento rivoluzionario contro questa stessa borghesia
priva di interesse perché essa sia soppiantata da una forma sociale dominante diversa e
soprattutto migliore (cioè esteticamente educata). Dunque Petrò, borghese, non interessa alla
borghesia (cioè non è riconosciuto dagli attuali detentori del potere economico e sociale, e, in
genere, dal mercato dell’arte) ed è quindi costretto a mettere la sua opera in un ripostiglio - o
in un garage, se preferite -, rinunciando svogliatamente a prendersene cura, a volerla esporre
e, soprattutto, a continuare a crearla. Questo per dire che se è vero che le sue opere non
ricevono l’attenzione che dovrebbero per via della loro qualità oggettiva (e, si badi bene, non
c’è niente di meno soggettivo o indeterminato del bello artistico), è innegabile che la sordità di
un mondo ineducato ad apprezzare l’arte più matura e meditata, cioè esteticamente coerente
e necessaria, spinge l’autore - in questo caso Petrò, ma è un fenomeno epocale che intacca
oggi la vita di chiunque crei nonostante le attuali condizioni storiche - a non promuovere i suoi
lavori, cioè a non impegnarsi socialmente più che tanto perché escano dal garage. In altre
parole - questa, almeno, è la mia lettura -: non è corretto limitarsi a constatare che il mondo
ignora ingiustamente Petrò, non fosse perché questa è soltanto la conseguenza finale, il
‘risultato’ ultimo della condizione strutturale in cui il vero artista - cioè né l’impostore né il
paesaggista della domenica - (soprav)vive nel nostro tempo - e, non meno, perché, di fatto, si
presenta qui una sua mostra. Ben più decisivo, infatti, è capire quanto segue, e cioè che
l’ignoranza del mondo e la sua inadeguatezza costringono Petrò a ignorarlo. E di qui
l’eremitaggio urbano nel garage. Della serie: siccome il mondo borghese non ha più strumenti
adeguati per comprendere, e visto che la sua Weltanschauung è oramai interamente plagiata
da una compulsiva celebrazione della merce, cioè della non-arte per definizione, vien meno
ogni slancio di rivolgersi ad esso. Di cercare riconoscimento o approvazione. In una parola: di
avere un ‘mercato’.
Non so quanto egli ne sia consapevole, ma il suo rapporto con la borghesia è esattamente
quello che emerge dalla fotografia che ha scelto come manifesto per questa mostra. I
manichini in vetrina, anonimi e reificati, sono il pubblico borghese dell’arte contemporanea (di
cui Prada, peraltro, è uno tra i maggiori brand). In modo del tutto indifferente, guardano verso
l’esterno, dove s’impone un elemento anomalo, dissonante: un vaso arrovesciato andato in
pezzi che, per morfologia e sentimento, è appunto l’oggetto d’arte decadente. I borghesi,
ironicamente decollati perché, di fatto, non vedono né davvero percepiscono, non entrano
minimamente in contatto con l’opera d’arte. Non l’osservano nemmeno - e come potrebbero,
se non hanno occhi per vedere? - e, in ogni caso, un’algida lastra di vetro li separa
inesorabilmente dall’evento plasticamente sovversivo che accade innanzi a loro. All’arte di
Petrò, succede un po’ lo stesso: è vittima consapevole del disinteresse generale e, nello zoo
borghese contemporaneo delle Fondazioni Prada e delle Biennali clownesche, degli impostori
e dei galleristi da aperitivo, la sua opera, tristemente trascurata, sopravvive solo nei bassifondi
di un garage-studio in via Portapile di cui il grande pubblico ignora l’esistenza ma su cui gli
archeologi del futuro dovranno concentrare i propri scavi per capire dove, mentre tutti gli altri,
o quasi tutti, facevano finta, si faceva ancora Arte. L’Arte autentica - borghese, certo, ma che
importa? - che oggi passa inosservata e che questa mostra ci permette per un’attimo di poter
contemplare in uno spazio pubblico prima che, forse inevitabilmente, ritorni a decadere nel
garage dov’è stata finora conservata e che, forse, è il solo luogo cui davvero appartiene.
04
giugno 2017
Alberto Petrò – Il tentativo borghese di non cadere
Dal 04 giugno al 30 luglio 2017
fotografia
Location
LEONESIARTE
Puegnago Del Garda, Via Garibaldi Palazzi, 15, (Brescia)
Puegnago Del Garda, Via Garibaldi Palazzi, 15, (Brescia)
Orario di apertura
Sabato 15/19
Domenica e festivi 11/19. Su appuntamento: leonesiarte@gmail.com
Vernissage
4 Giugno 2017, h 11
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