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Aldo Mondino / Corrado Bonomi – Il doppio senso dell’ironia
L’incontro tra Aldo Mondino e Corrado Bonomi conferma come questo modo di fare arte possa sfruttare le capacità euristiche dell’ironia e dell’umorismo, trasformandole in strumenti di avvicinamento alla sostanza delle cose
Comunicato stampa
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Stratagemmi di un’arte che diverte
di Nicola Davide Angerame
L’artista è un essere soprannaturale
Renzo Arbore
Vi sono artisti che non si fissano, che scivolano, che galleggiano sul senso delle cose, giocandovi. Marcel Duchamp, per esempio. Questa mostra rappresenta uno degli esiti possibili della “deriva” inaugurata da colui che ha reso l’arte più liquida e aperta, compromettendola definitivamente con il mondo delle idee svagate, delle trovate argute, dell’umorismo e dei motti di spirito che rappresentano, nella modernità, l’ascesa della più agile cultura popolare ai danni della prosopopea pomposa degli accademismi.
L’incontro tra Aldo Mondino e Corrado Bonomi conferma come questo modo di fare arte possa sfruttare le capacità euristiche dell’ironia e dell’umorismo, trasformandole in strumenti di avvicinamento alla sostanza delle cose: dove il semplice fenomeno (il dato elementare della coscienza che si rapporta alla realtà) diventa epifania (illuminazione e squarcio del Velo di Maja), grazie ad un’arte usata come "anomalia", come un agente corrosivo rivolto contro regole secolari avvertite come obsolete, da parte di generazioni d'artisti che devono confrontarsi con il mondo moderno. Come fanno Socrate o Arlecchino, due “maschere” all’origine della modernità. Perché “moderno” è danzare sulle cose del mondo, sapendo che la verità non acceca ma si offre come uno straccio gettato in terra, come la piega abbandonata dell’abito di una vestale svanita. In un mondo secolarizzato e laico, in cui “dio è morto” per indigestione di talk e reality show, Mondino e Bonomi forniscono una risposta, nel “limite” della loro capacità umoristica: perché le loro opere devono “divertire” affinché possano funzionare. Divertire nel senso di “volgere altrove, allontanare, distogliere”, portare fuori strada, per altri sentieri, meno battuti, forse “interrotti”, come voleva Martin Heidegger: strade che si perdono nella radura dell’essere e che, proprio perché non portano da nessuna parte, rappresentano il succo vitale del pensiero, lì dove la domanda e la sospensione del senso non significano un’assenza ma un incontro ravvicinato, per quanto impalpabile, con un senso ulteriore, un nuovo modello di senso che l’arte è chiamata ad offrire. Le opere di Mondino e Bonomi funzionano come indicazioni devianti verso lande dove le idee non sono più se stesse, dove la parola può essere usata, grazie ad un’arguzia da enigmisti, come un grimaldello con cui scassinare (sottilmente e senza farlo capire) gli accessi di alcuni luoghi nascosti.
Ancora una volta è Duchamp la sorgente: quale esempio più caustico di un’opera come L.H.O.O.Q., la Gioconda di Leonardo rivisitata con barba e baffi (sublime espressione dell’istinto infantile!), dal titolo provocatorio che letto suona: “elle a chaud au cul”. È la polisemia, questo arcano “confuseggiar di sensi” che s’agita nelle menti primitive, a piacere ai moderni. Stanchi di dover studiare l’organo della percezione e satolli della koinè positivista, che nell’Ottocento ha decretato la conoscibilità solo di ciò che si può testare sperimentalmente, i moderni vogliono sondare i meandri della parola poetica e della visione artistica; assaporarne le delizie, le ricchezze da mondo esotico, la libertà da prateria selvaggia (Mondino compirà inesausti viaggi in Oriente). Vogliono fotografare la polvere e produrre Grandi Vetri, giocare con il caso e spaziare nella concettualità più ardita. Soprattutto, vogliono spalancare le porte dell’arte al mondo. Un tale desiderio giunge fino ai Nostri che, privi di schematismi ideologici, fanno incetta di materiali da utilizzare nelle opere: Mondino dipinge su tappeti di cocco o scolpisce con caramelle, Bonomi riproduce pesci dentro scatolette di sardine o crea “Castelli in aria” con batuffoli di cotone. La pittura per loro, al contrario dei cugini dell’Arte Povera, non è tabù. Il concetto vive e prolifera nei colori gioiosi e nei titoli giocosi delle loro opere. Degni successori di un pittore velocemente amato e presto dimenticato, ma soprattutto frainteso, come Giambattista Tiepolo: smisuratamente “allegro”, fino al limite della vacuità, eppure profondamente serio nel giudicare il mondo, anche grazie a quella “sprezzatura” di cui ammanta molta sua arte. Come questa, anche i lavori di Mondino e Bonomi possono apparire “innocui” a chi è abituato alle pontificazioni gravose dell’arte, ma risultano produttivi di nuove sinapsi in chi guarda con attenzione e si lascia portare lì dove l’opera lo guida.
In una sua parodia, Woody Allen immagine le avventure di un Van Gogh dentista, alle prese con dentiere sbilenche e radiografie bislacche: con lui, l’intero gotha della pittura impressionista è trasformato in un’accozzaglia di buffi individui impegnati a trapanare e incapsulare. L’esito è divertente: Van Gogh perde soldi e clienti come dentista, ma i risultati del suo operare gli fruttano ammiratori nel mondo dell’arte. “Avrei dovuto dare ascolto al babbo – concluderà - e fare il pittore, non è eccitante ma almeno è una vita normale”. Lo stratagemma di Allen fa ridere ma la “morale” è seria: l’artista moderno può anche “fare il dentista”, se la dentiera inservibile che produce è un’opera arte.
Mondino e Bonomi non si fermano alla dentiera e rimpolpano il concettualismo usando ogni strumento utile, senza pregiudiziali, e rivolgendo alla figurazione un ruolo di primo piano. Una via originale. La pittura è tutt’altro che superata o incapace d’incarnare il concetto, per loro. In questo, la loro evoluzione porta ancora più lontano, dove il ricongiungimento, in stile moderno, con la tradizione sprigiona nuove potenzialità: perché rassicurando l’occhio del pubblico (che è il primo censore) ne raggiungono meglio la mente, seducendola e portandola nella dimensione di un concettualismo all’italiana, maccheronico, divertito e non lontano da riverberi pop, sposato da Munari e da Pascali, da Boetti e da Mondino, e di cui Bonomi rappresenta una sopravvivenza, tanto più intensa quanto il suo lavoro assume toni intimistici, fatti di relazioni personali con la realtà che si risolvono in un’arte quasi disarmata, indebolita, accogliente. Mentre Mondino subisce e ripete il fascino del dandy, caro anche al primo Schifano, portando nella sua vita i ritmi, le astuzie e gli stereotipi legati al successo di un “uomo di mondo”, Bonomi pensa un’arte i cui meccanismi fungono da culla per quel “fanciullino” di pascoliana concezione che tutti portiamo dentro fino alla fine: una sorta di nocciolo duro la cui voce risulta inaudibile nel mondo adulto, ma che può farsi sentire grazie all’enigmistica del senso e al gioco delle interpretazioni messe a punto con un concettualismo “caldo” e delicato, vibrante d’ironia e spiritoso.
Possiamo apprezzare queste opere nella misura in cui le lasciamo giudicare al fanciullo che è in noi e non all’adulto che siamo. In questa spaccatura del Soggetto, progettata in maniera istintiva, i piani s’intersecano, i sensi scivolano e le polarità s’incrociano: la visione ne risente e l’arte può avere il suo effetto spiazzante, giocoso e serio al tempo stesso. Anche toccante. Se ciò avviene, evocazioni e suggestioni non restano soltanto ciò che sono ma acquistano la sostanza di ragionamenti all’interno di una logica altra rispetto a quella razionale.
L’arte, come il mito, il linguaggio e tutta la conoscenza, sono “simboli”, scriveva Ernst Cassirer in una sua celebre opera, “non in quanto essi designino in forma d’immagine, di allegoria che allude e spiega, un reale sottomano, ma in quanto ciascuno fa emergere da se medesimo un suo proprio mondo di senso”. E questo fanno Mondino e Bonomi, alimentando un “proprio mondo di senso” con opere che mirano ad un concettualismo soggettivo, personale e intimo (altra differenza rispetto al “nonno” Marcel), capace di scavarsi una via di comunicazione dentro luoghi della mente abbandonati, lì dove vige un’altra logica: quella del bimbo o del primitivo. Dove i soldatini, le fatine e i trenini utilizzati da Bonomi, oppure i cioccolatini e lo zucchero usati da Mondino, risplendono magnifici come soltanto la vera carne dell’arte sa essere. Questa trasfigurazione della materia reale in materia simbolica si deve all’indebolimento, reale e non simulato, dell’artista. La sua incapacità di strutturare ideologie diventa la sua forza. Gli escamotage concettuali ed emotivi che inventa riportano chi guarda al grado zero della conoscenza. Nietzsche scrive ne “La gaia scienza”: “Da quando mi stancai di cercare, io imparai a trovare”. Mondino e Bonomi hanno saputo far questo: escogitare consapevolmente una strategia per trovare trovate, boutade, mot d’esprit e jeu des mots che per l’estetica romantica rappresentano il meglio del pensiero, la forza dello spirito che scorge frammenti di verità.
di Nicola Davide Angerame
L’artista è un essere soprannaturale
Renzo Arbore
Vi sono artisti che non si fissano, che scivolano, che galleggiano sul senso delle cose, giocandovi. Marcel Duchamp, per esempio. Questa mostra rappresenta uno degli esiti possibili della “deriva” inaugurata da colui che ha reso l’arte più liquida e aperta, compromettendola definitivamente con il mondo delle idee svagate, delle trovate argute, dell’umorismo e dei motti di spirito che rappresentano, nella modernità, l’ascesa della più agile cultura popolare ai danni della prosopopea pomposa degli accademismi.
L’incontro tra Aldo Mondino e Corrado Bonomi conferma come questo modo di fare arte possa sfruttare le capacità euristiche dell’ironia e dell’umorismo, trasformandole in strumenti di avvicinamento alla sostanza delle cose: dove il semplice fenomeno (il dato elementare della coscienza che si rapporta alla realtà) diventa epifania (illuminazione e squarcio del Velo di Maja), grazie ad un’arte usata come "anomalia", come un agente corrosivo rivolto contro regole secolari avvertite come obsolete, da parte di generazioni d'artisti che devono confrontarsi con il mondo moderno. Come fanno Socrate o Arlecchino, due “maschere” all’origine della modernità. Perché “moderno” è danzare sulle cose del mondo, sapendo che la verità non acceca ma si offre come uno straccio gettato in terra, come la piega abbandonata dell’abito di una vestale svanita. In un mondo secolarizzato e laico, in cui “dio è morto” per indigestione di talk e reality show, Mondino e Bonomi forniscono una risposta, nel “limite” della loro capacità umoristica: perché le loro opere devono “divertire” affinché possano funzionare. Divertire nel senso di “volgere altrove, allontanare, distogliere”, portare fuori strada, per altri sentieri, meno battuti, forse “interrotti”, come voleva Martin Heidegger: strade che si perdono nella radura dell’essere e che, proprio perché non portano da nessuna parte, rappresentano il succo vitale del pensiero, lì dove la domanda e la sospensione del senso non significano un’assenza ma un incontro ravvicinato, per quanto impalpabile, con un senso ulteriore, un nuovo modello di senso che l’arte è chiamata ad offrire. Le opere di Mondino e Bonomi funzionano come indicazioni devianti verso lande dove le idee non sono più se stesse, dove la parola può essere usata, grazie ad un’arguzia da enigmisti, come un grimaldello con cui scassinare (sottilmente e senza farlo capire) gli accessi di alcuni luoghi nascosti.
Ancora una volta è Duchamp la sorgente: quale esempio più caustico di un’opera come L.H.O.O.Q., la Gioconda di Leonardo rivisitata con barba e baffi (sublime espressione dell’istinto infantile!), dal titolo provocatorio che letto suona: “elle a chaud au cul”. È la polisemia, questo arcano “confuseggiar di sensi” che s’agita nelle menti primitive, a piacere ai moderni. Stanchi di dover studiare l’organo della percezione e satolli della koinè positivista, che nell’Ottocento ha decretato la conoscibilità solo di ciò che si può testare sperimentalmente, i moderni vogliono sondare i meandri della parola poetica e della visione artistica; assaporarne le delizie, le ricchezze da mondo esotico, la libertà da prateria selvaggia (Mondino compirà inesausti viaggi in Oriente). Vogliono fotografare la polvere e produrre Grandi Vetri, giocare con il caso e spaziare nella concettualità più ardita. Soprattutto, vogliono spalancare le porte dell’arte al mondo. Un tale desiderio giunge fino ai Nostri che, privi di schematismi ideologici, fanno incetta di materiali da utilizzare nelle opere: Mondino dipinge su tappeti di cocco o scolpisce con caramelle, Bonomi riproduce pesci dentro scatolette di sardine o crea “Castelli in aria” con batuffoli di cotone. La pittura per loro, al contrario dei cugini dell’Arte Povera, non è tabù. Il concetto vive e prolifera nei colori gioiosi e nei titoli giocosi delle loro opere. Degni successori di un pittore velocemente amato e presto dimenticato, ma soprattutto frainteso, come Giambattista Tiepolo: smisuratamente “allegro”, fino al limite della vacuità, eppure profondamente serio nel giudicare il mondo, anche grazie a quella “sprezzatura” di cui ammanta molta sua arte. Come questa, anche i lavori di Mondino e Bonomi possono apparire “innocui” a chi è abituato alle pontificazioni gravose dell’arte, ma risultano produttivi di nuove sinapsi in chi guarda con attenzione e si lascia portare lì dove l’opera lo guida.
In una sua parodia, Woody Allen immagine le avventure di un Van Gogh dentista, alle prese con dentiere sbilenche e radiografie bislacche: con lui, l’intero gotha della pittura impressionista è trasformato in un’accozzaglia di buffi individui impegnati a trapanare e incapsulare. L’esito è divertente: Van Gogh perde soldi e clienti come dentista, ma i risultati del suo operare gli fruttano ammiratori nel mondo dell’arte. “Avrei dovuto dare ascolto al babbo – concluderà - e fare il pittore, non è eccitante ma almeno è una vita normale”. Lo stratagemma di Allen fa ridere ma la “morale” è seria: l’artista moderno può anche “fare il dentista”, se la dentiera inservibile che produce è un’opera arte.
Mondino e Bonomi non si fermano alla dentiera e rimpolpano il concettualismo usando ogni strumento utile, senza pregiudiziali, e rivolgendo alla figurazione un ruolo di primo piano. Una via originale. La pittura è tutt’altro che superata o incapace d’incarnare il concetto, per loro. In questo, la loro evoluzione porta ancora più lontano, dove il ricongiungimento, in stile moderno, con la tradizione sprigiona nuove potenzialità: perché rassicurando l’occhio del pubblico (che è il primo censore) ne raggiungono meglio la mente, seducendola e portandola nella dimensione di un concettualismo all’italiana, maccheronico, divertito e non lontano da riverberi pop, sposato da Munari e da Pascali, da Boetti e da Mondino, e di cui Bonomi rappresenta una sopravvivenza, tanto più intensa quanto il suo lavoro assume toni intimistici, fatti di relazioni personali con la realtà che si risolvono in un’arte quasi disarmata, indebolita, accogliente. Mentre Mondino subisce e ripete il fascino del dandy, caro anche al primo Schifano, portando nella sua vita i ritmi, le astuzie e gli stereotipi legati al successo di un “uomo di mondo”, Bonomi pensa un’arte i cui meccanismi fungono da culla per quel “fanciullino” di pascoliana concezione che tutti portiamo dentro fino alla fine: una sorta di nocciolo duro la cui voce risulta inaudibile nel mondo adulto, ma che può farsi sentire grazie all’enigmistica del senso e al gioco delle interpretazioni messe a punto con un concettualismo “caldo” e delicato, vibrante d’ironia e spiritoso.
Possiamo apprezzare queste opere nella misura in cui le lasciamo giudicare al fanciullo che è in noi e non all’adulto che siamo. In questa spaccatura del Soggetto, progettata in maniera istintiva, i piani s’intersecano, i sensi scivolano e le polarità s’incrociano: la visione ne risente e l’arte può avere il suo effetto spiazzante, giocoso e serio al tempo stesso. Anche toccante. Se ciò avviene, evocazioni e suggestioni non restano soltanto ciò che sono ma acquistano la sostanza di ragionamenti all’interno di una logica altra rispetto a quella razionale.
L’arte, come il mito, il linguaggio e tutta la conoscenza, sono “simboli”, scriveva Ernst Cassirer in una sua celebre opera, “non in quanto essi designino in forma d’immagine, di allegoria che allude e spiega, un reale sottomano, ma in quanto ciascuno fa emergere da se medesimo un suo proprio mondo di senso”. E questo fanno Mondino e Bonomi, alimentando un “proprio mondo di senso” con opere che mirano ad un concettualismo soggettivo, personale e intimo (altra differenza rispetto al “nonno” Marcel), capace di scavarsi una via di comunicazione dentro luoghi della mente abbandonati, lì dove vige un’altra logica: quella del bimbo o del primitivo. Dove i soldatini, le fatine e i trenini utilizzati da Bonomi, oppure i cioccolatini e lo zucchero usati da Mondino, risplendono magnifici come soltanto la vera carne dell’arte sa essere. Questa trasfigurazione della materia reale in materia simbolica si deve all’indebolimento, reale e non simulato, dell’artista. La sua incapacità di strutturare ideologie diventa la sua forza. Gli escamotage concettuali ed emotivi che inventa riportano chi guarda al grado zero della conoscenza. Nietzsche scrive ne “La gaia scienza”: “Da quando mi stancai di cercare, io imparai a trovare”. Mondino e Bonomi hanno saputo far questo: escogitare consapevolmente una strategia per trovare trovate, boutade, mot d’esprit e jeu des mots che per l’estetica romantica rappresentano il meglio del pensiero, la forza dello spirito che scorge frammenti di verità.
15
giugno 2008
Aldo Mondino / Corrado Bonomi – Il doppio senso dell’ironia
Dal 15 giugno al 13 luglio 2008
arte contemporanea
Location
FORTEZZA CASTELFRANCO
Finale Ligure, Via Generale Enrico Caviglia, (Savona)
Finale Ligure, Via Generale Enrico Caviglia, (Savona)
Orario di apertura
da giovedì a domenica e festivi compresi 15-20
Vernissage
15 Giugno 2008, ore 18
Editore
VANILLA
Autore