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Alejandro Alvarado Carreno / Giulia Corradetti – Cactus. Arena e solitudine
A sottolineare la forte soggettività dell’opera visionaria del maestro Carreno, vengono affiancati ai suoi lavori, in un contrasto disvelante e giocoso, quelli di una giovanissima italiana, da poco uscita dall’accademia, che come lui ha fatto del cactus, o meglio delle succulente -come Giulia Corradetti, più voluttuosamente, ama chiamarle- l’oggetto delle proprie visioni.
Comunicato stampa
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CACTUS
Cactus: la sembianza nota di questo tronco spinoso, di questa sfida vegetale alla brutalità del deserto,evoca una resistenza ostinata, una indipendenza frugale che ha bisogno solo di luce, stille d’acqua, terra arida, cielo e vento.
Albero della vita e del contatto con il divino del mondo, energia primitiva e archetipo della lotta eterna per la sopravvivenza su una terra difficile e magnifica, riserva d’acqua preziosa per chi attraversa il deserto, materia prima, medicamento, totem e talismano tra quotidiano e sacro.
Esso racconta cieli enormi e abbaglianti, terra che si spacca, fiori miracolosi e rari come una visione che dura un’ora soltanto, una allucinazione possibile, riti sciamanici, il vento infuocato del Messico.
Questo altrove di ribellione, icona ideologica per la beat generation, spazio di libertà estrema e primordiale, di astrazione onirica dalla vita quotidiana, ove tutto sembra sospeso tra miraggio e Verità è luogo dell’immaginario in cui sembra sempre di essere su una soglia, su un passaggio possibile.
Tutto questo dicono le spine acuminate, ricordo di foglie, le forme monumentali, labirintiche e contorte nell’opera di Alejandro Alvarado Carreño, a cui la mostra è dedicata in omaggio alla sua maestria di xilografo, depositario e al tempo stesso portabandiera della cultura accademica messicana che sa raccontare gli scenari fantastici realmente vissuti del deserto messicano.
Egli rappresenta l’albero-simbolo di una nazione, di una identità, di una anima collettiva e di un immaginario privato e pensoso nell’incisione su legno, tecnica antichissima e pregiata di stampa, di cui il Messico vanta una lunga ed accreditata tradizione e di cui egli è il massimo interprete vivente.
Il legno è scavato con tutta la fatica del fare, che è la stessa fatica della Natura che innalza i suoi bizzarri monumenti arborei. Vuoti e pieni, scuri netti e bianchi irreali; il gesto dell’intaglio è assoluto, drammatico; solo tratti, linee, essenzialità grafica sulla fragilità della carta di riso che pur sopporta la stampa.
La fatica del gesto artistico è tutto ciò che resta dell’uomo, soggetto sognante ma categoricamente e assolutamente assente nella solitudine del deserto.
Il cactus sa alludere e raccontare. Risponde perfettamente sia in senso simbolico -mito e risorsa di un territorio arido e privo di speranza-, che per ricchezza formale, alla ricerca di ispirazione per chi voglia appropriarsi delle forme naturali ed organiche attraverso la restituzione in visioni oniriche del proprio vissuto. Diviene il genius loci, l’appiglio per un viaggio della mente persa dietro le forme vegetali che presto divengono quasi di una arborea animalità, significanti di altri elementi dell’energia cosmica, del fuoco, dell’aria.
A sottolineare la forte soggettività dell’opera visionaria del maestro Carreno, vengono affiancati ai suoi lavori, in un contrasto disvelante e giocoso, quelli di una giovanissima italiana, da poco uscita dall’accademia, che come lui ha fatto del cactus, o meglio delle succulente -come Giulia Corradetti, più voluttuosamente, ama chiamarle- l’oggetto delle proprie visioni.
L’arsura del deserto, la sabbia e la solitudine che lo caratterizzano, la durezza del segno con cui l’intimismo del Maestro Alvarado si fa dirompente, svaniscono in una bolla di colore morbido, scoprendo il gioco e la sensualità di un mondo fantastico, leggiadro, artificiale, interamente ricreato nell’effimera immaterialità del digitale. (Anna Laura Petrucci e Simonetta Angelini)
Cactus: la sembianza nota di questo tronco spinoso, di questa sfida vegetale alla brutalità del deserto,evoca una resistenza ostinata, una indipendenza frugale che ha bisogno solo di luce, stille d’acqua, terra arida, cielo e vento.
Albero della vita e del contatto con il divino del mondo, energia primitiva e archetipo della lotta eterna per la sopravvivenza su una terra difficile e magnifica, riserva d’acqua preziosa per chi attraversa il deserto, materia prima, medicamento, totem e talismano tra quotidiano e sacro.
Esso racconta cieli enormi e abbaglianti, terra che si spacca, fiori miracolosi e rari come una visione che dura un’ora soltanto, una allucinazione possibile, riti sciamanici, il vento infuocato del Messico.
Questo altrove di ribellione, icona ideologica per la beat generation, spazio di libertà estrema e primordiale, di astrazione onirica dalla vita quotidiana, ove tutto sembra sospeso tra miraggio e Verità è luogo dell’immaginario in cui sembra sempre di essere su una soglia, su un passaggio possibile.
Tutto questo dicono le spine acuminate, ricordo di foglie, le forme monumentali, labirintiche e contorte nell’opera di Alejandro Alvarado Carreño, a cui la mostra è dedicata in omaggio alla sua maestria di xilografo, depositario e al tempo stesso portabandiera della cultura accademica messicana che sa raccontare gli scenari fantastici realmente vissuti del deserto messicano.
Egli rappresenta l’albero-simbolo di una nazione, di una identità, di una anima collettiva e di un immaginario privato e pensoso nell’incisione su legno, tecnica antichissima e pregiata di stampa, di cui il Messico vanta una lunga ed accreditata tradizione e di cui egli è il massimo interprete vivente.
Il legno è scavato con tutta la fatica del fare, che è la stessa fatica della Natura che innalza i suoi bizzarri monumenti arborei. Vuoti e pieni, scuri netti e bianchi irreali; il gesto dell’intaglio è assoluto, drammatico; solo tratti, linee, essenzialità grafica sulla fragilità della carta di riso che pur sopporta la stampa.
La fatica del gesto artistico è tutto ciò che resta dell’uomo, soggetto sognante ma categoricamente e assolutamente assente nella solitudine del deserto.
Il cactus sa alludere e raccontare. Risponde perfettamente sia in senso simbolico -mito e risorsa di un territorio arido e privo di speranza-, che per ricchezza formale, alla ricerca di ispirazione per chi voglia appropriarsi delle forme naturali ed organiche attraverso la restituzione in visioni oniriche del proprio vissuto. Diviene il genius loci, l’appiglio per un viaggio della mente persa dietro le forme vegetali che presto divengono quasi di una arborea animalità, significanti di altri elementi dell’energia cosmica, del fuoco, dell’aria.
A sottolineare la forte soggettività dell’opera visionaria del maestro Carreno, vengono affiancati ai suoi lavori, in un contrasto disvelante e giocoso, quelli di una giovanissima italiana, da poco uscita dall’accademia, che come lui ha fatto del cactus, o meglio delle succulente -come Giulia Corradetti, più voluttuosamente, ama chiamarle- l’oggetto delle proprie visioni.
L’arsura del deserto, la sabbia e la solitudine che lo caratterizzano, la durezza del segno con cui l’intimismo del Maestro Alvarado si fa dirompente, svaniscono in una bolla di colore morbido, scoprendo il gioco e la sensualità di un mondo fantastico, leggiadro, artificiale, interamente ricreato nell’effimera immaterialità del digitale. (Anna Laura Petrucci e Simonetta Angelini)
16
settembre 2008
Alejandro Alvarado Carreno / Giulia Corradetti – Cactus. Arena e solitudine
Dal 16 settembre all'undici ottobre 2008
arte contemporanea
Location
GALLERIA INSIEME
Ascoli Piceno, Corso Giuseppe Mazzini, 199, (Ascoli Piceno)
Ascoli Piceno, Corso Giuseppe Mazzini, 199, (Ascoli Piceno)
Orario di apertura
dal martedì al sabato dalle 16,30 alle 20,00
Vernissage
16 Settembre 2008, ore 18
Autore
Curatore