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Alessia Musolino / Ilario Principe – Mostrarsi
Utilizzare la fotografia per guardarci dentro… Fare un lavoro sulle proprie emozioni, la propria essenza, come metodo per avviare e/o approfondire un processo creativo unico e personale(…) E’ il lavoro interiore di ogni artista. Cristina Nuñez, fotografa e ideatrice del Selfportrait Performance
Comunicato stampa
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ALESSIA MUSOLINO – FOTOGRAFIA
"Utilizzare la fotografia per guardarci dentro… Fare un lavoro sulle proprie emozioni, la propria essenza, come metodo per avviare e/o approfondire un processo creativo unico e personale, che si può sviluppare poi con qualsiasi mezzo di espressione creativa/artistica. Approfondire il dialogo tra la nostra mente pensante e la nostra pancia o il nostro cuore, per attingere ad una fonte inesauribile d...i contenuti che hanno bisogno di essere espressi, ciclicamente durante tutta la carriera creativa. E’ il lavoro interiore di ogni artista…"
(Cristina Nuñez, fotografa e ideatrice del Selfportrait Performance).
Alessia Musolino in questa esposizione propone una serie di autoritratti e ritratti di figure femminili utilizzando il mezzo fotografico come strumento di indagine e riscoperta della propria identità; adottando angolazioni e punti di vista differenti, osservandosi all'interno di certi sguardi, di un morbido panneggio, nella delicata tornitura di una spalla nuda, come nelle tessere di un mosaico, infinite e diverse visioni di se stessa convergono l'una dentro l'altra facendo affiorare il volto dell'artista. Il sé e il proprio visibile costituiscono la silenziosa strada per guardarsi dentro e rintracciare la propria personalità.
In questo processo di osservazione dell'Io da molteplici e diversi punti di vista, non solo si mostra una "naturale determinazione ad affermare il proprio esistere" (C. Nuñez) catturando e riappropiandosi così della propria identità, ma Alessia arriva a travalicare i confini della propria individualità, cosicché dalla ricerca del sé si giunge alla scoperta della donna in sé; ovvero arriva a indagare la poliedrica e misteriosa natura dell'universo femminile. Se in certe culture africane o indiane si teme che fotografando una persona le si rubi l'anima, Alessia all'opposto, senza tirarsi indietro, tramite l'obiettivo si mostra, arrivando così a catturare la quintessenza dell'interiorità femminile, a cogliere la forza espressiva di un gesto o di uno sguardo.
Si tratta dunque di una sorta di ritratto intimista, dove l'artista non solo cerca con grande coraggio e abilità di avvicinare l’orizzonte professionale a quello personale, ma si improvvisa anche sensibile regista di piccoli racconti visivi: ora vestendo se stessa e le sue modelle con abiti eleganti e raffinati (La vraie vie est ailleurs, La différance), ora curando personalmente trucco ed acconciature (Edwardian Baccante, Lagrimas negras). Grande attenzione viene poi profusa nella cura dei dettagli o dei particolari, così come nella ricreazione delle ambientazioni: alcune caratterizzate da atmosfere sospese e rarefatte dove si muovono moderne bellezze pre-raffaellite inondate di luce simbolista (Flora, Like a Virgin), altre riproducenti interni dal gusto un pò retrò (Maja vestida) o esterni di periferia, oppure alle volte servendosi di semplici tessuti che si trasformano in elementi altamente scenografici (Chercher l’Oubli(que)).
Nelle sue foto Alessia unisce un glamour, che ricorda in parte la fotografia al femminile di Sarah Moon, Deborah Turbeville, Francesca Spanio, ad una personalissima vena ironica: nelle sue fotografie non abbiamo modelle in studiate pose accattivanti, ma ragazze eleganti e ben vestite che conservano sempre la loro freschezza e genuinità, ovvero la loro umanità (Alberti side-face, Isolde nostalgia); figure che trovano proprio in quel dettaglio apparentemente casuale, o forse meglio dire quotidiano, la loro più grande efficacia e forza espressiva. Una sorta quindi di glamuor parodia del glamour, che crea scarti tra l'eleganza e raffinatezza della figura e l'ambientazione più dimessa (Red rhapsody); che ironizza su certi atteggiamenti delle foto di moda (Les yeux de la Fortune, À l'ombre des jeunes filles en fleurs), che accentua i dettagli o li sdrammatizza. Infatti, se fin dai tempi di Toulouse Lautrec si era usato il potere di fascinazione femminile come potentissimo strumento persuasivo per attirare l'attenzione sulla vendita di profumi o liquori, l'artista arriva in questo modo a sottrarre la figura femminile dal tradizionale clichè estetico della donna-oggetto (I’m not on sale, A trip to the end of the night) mostrandone invece le molteplici sfaccettature della sua interiorità.
La ricerca di Alessia ci insegna dunque che sentire, apparire, sembrare ed essere sono tutte facce della stessa medaglia, e ci mostra come sia possibile ampliare la sfera delle esperienze estetiche rompendo con coraggio i confini tra arte e vita e trasformando così la vita stessa in forma d'arte. Come avvertiva in fondo Oscar Wilde quando suggeriva che “il vero mistero del mondo è ciò che si vede e non l'invisibile”.
Virginia Bazzechi Ganucci Cancellieri
ILARIO PRINCIPE – FOTOGRAFIA E SCULTURA
“Sono diventato artista per caso, se mai posso chiamarmi artista. Una dozzina d’anni fa mi trovavo nella marmeria di alcuni amici, al mio paese, il più piccolo della Calabria, e dall’oscurità una pietra si è fatta improvvisamente vedere al mio sguardo. Di pietre ne avevo viste tantissime altre, come tutti, ma questa era speciale. Molto abrasiva, la usavano i marmisti per affilare le seghe circolari e per provare le punte dei trapani. Era diventata in tal modo un palinsesto di tagli e di buchi, disposti però secondo un ordine che non obbediva alle leggi del caso sebbene a quelle, si sarebbe detto, della natura. L’ho raccolta e me la sono portata via. I miei amici ridevano. È cominciata così. La scultura voglio dire. La fotografia no, è una passione di lunga data: presa, lasciata, poi ripresa, oggi sempre mi accompagna se non con la macchina almeno con l’occhio fotografico. Non è stato piacevole passare dall’analogico al digitale ma la foto analogica è diventata troppo d’élite, il digitale permette una latitudine di scatto prima impossibile. Non è vero che per ciò tutti sono diventati fotografi. Tutti fanno fotografie, pochi sono fotografi; così come tutti vedono le cose però pochi sanno restituirle in opere che per comodità si definiscono sculture. Per comodità perché la scultura, come la intendo io, non è più legata al concetto michelangiolesco del titano che toglie il superfluo dal blocco di marmo: il superfluo lo toglie, ma da sé stesso. Per l’artista una scultura, o una pittura, o una fotografia, o una poesia, è un autoritratto nel quale egli progressivamente si spoglia delle sue concrezioni esistenziali per mostrarsi in quell’umanità di cui l’opera diventa epifania visibile, o udibile nel caso ad esempio della musica. Con troppa facilità, soprattutto nei giovani, ci si improvvisa fotografi, scultori, pittori, s’inventano filmini chiamati corti o ci si arrampica sulle acclività lascive della grafica. Intanto sarebbe necessaria una consapevolezza esistenziale, ai giorni nostri restata assai indietro nel comune sentire delle persone. Tutti esistono altrove: nei telefonini, negli schermi televisivi, nel computer, nei videogiochi, in sciocche riviste patinate. Saper vedere, non guardare soltanto, questo il problema. Saper vedere entro sé stessi prima di vedere l’altro: persona, cosa, animale, vegetale, minerale poco importa. Poi, capire attraverso informazione ed esperienza quali possano essere le coordinate da tracciare per rendere gesto un’idea, opera un gesto. Il silenzio interiore aiuta, ma non basta. Gesto, idea, opera, sono strumenti comunicativi, fino a un certo punto non di massa e al di sotto di un certo punto spie di insofferenza strettamente individuale, perciò inane a sviluppare qualità sociali legate alla pratica dell’arte: libertà, etica, civiltà, cultura, e quanto appartiene all’orizzonte dell’invisibile. Non si può definire l’arte, neppure con parole così blasonate. Ognuno la cerca se vuole, la trova se può, la racconta se deve. Volere, potere, dovere; sembra una triade fascista, pericolosa in questi tempi di rilassamento morale. Ci soccorre il rigore, unica parola che prenderei a prestito dai campi di calcio. Ma cosa vuol dire rigore? Alcune mie opere, come ad esempio le pietre, non le ho fatte, le ho raccolte così com’erano delegando a quel che vedevo di mostrare quel che sono; altre le ho assemblate a partire da elementi raccolti nei diversi luoghi dove la risacca delle cose depositava la sua memoria; altre infine le ho create io, in particolare le fusioni in bronzo e le fotografie. La scelta è stata rigorosa, posso garantirlo, vale a dire doveva esprimere soprattutto ciò che sentivo e non soltanto ciò che vedevo: ed è proprio questo il criterio da utilizzare quando si collega l’idea all’opera attraverso il gesto. La mostra non vuole suggerire come si deve fare arte, non sono io la persona più indicata: è semplicemente un’operazione che segue nel tessuto del quotidiano l’apertura culturale fornita dalla dimensione di quello che è pratica di vita. Non vi sono né tematismi né percorsi. Le opere sono misure di una geo grafia dell’esistenza per comprendere il mondo circostante e per vedere con la mente e con il cuore quel che gli occhi non mostrano direttamente: necessarie allora ad accompagnare e dare un senso inequivoco all’azione inscritta nel gesto di cercare, trovare, raccontare. L’arte, dicono, non è una risposta. Ma allora perché fin dall’origine dell’umanità la si è sempre cercata, trovata, raccontata?
"Utilizzare la fotografia per guardarci dentro… Fare un lavoro sulle proprie emozioni, la propria essenza, come metodo per avviare e/o approfondire un processo creativo unico e personale, che si può sviluppare poi con qualsiasi mezzo di espressione creativa/artistica. Approfondire il dialogo tra la nostra mente pensante e la nostra pancia o il nostro cuore, per attingere ad una fonte inesauribile d...i contenuti che hanno bisogno di essere espressi, ciclicamente durante tutta la carriera creativa. E’ il lavoro interiore di ogni artista…"
(Cristina Nuñez, fotografa e ideatrice del Selfportrait Performance).
Alessia Musolino in questa esposizione propone una serie di autoritratti e ritratti di figure femminili utilizzando il mezzo fotografico come strumento di indagine e riscoperta della propria identità; adottando angolazioni e punti di vista differenti, osservandosi all'interno di certi sguardi, di un morbido panneggio, nella delicata tornitura di una spalla nuda, come nelle tessere di un mosaico, infinite e diverse visioni di se stessa convergono l'una dentro l'altra facendo affiorare il volto dell'artista. Il sé e il proprio visibile costituiscono la silenziosa strada per guardarsi dentro e rintracciare la propria personalità.
In questo processo di osservazione dell'Io da molteplici e diversi punti di vista, non solo si mostra una "naturale determinazione ad affermare il proprio esistere" (C. Nuñez) catturando e riappropiandosi così della propria identità, ma Alessia arriva a travalicare i confini della propria individualità, cosicché dalla ricerca del sé si giunge alla scoperta della donna in sé; ovvero arriva a indagare la poliedrica e misteriosa natura dell'universo femminile. Se in certe culture africane o indiane si teme che fotografando una persona le si rubi l'anima, Alessia all'opposto, senza tirarsi indietro, tramite l'obiettivo si mostra, arrivando così a catturare la quintessenza dell'interiorità femminile, a cogliere la forza espressiva di un gesto o di uno sguardo.
Si tratta dunque di una sorta di ritratto intimista, dove l'artista non solo cerca con grande coraggio e abilità di avvicinare l’orizzonte professionale a quello personale, ma si improvvisa anche sensibile regista di piccoli racconti visivi: ora vestendo se stessa e le sue modelle con abiti eleganti e raffinati (La vraie vie est ailleurs, La différance), ora curando personalmente trucco ed acconciature (Edwardian Baccante, Lagrimas negras). Grande attenzione viene poi profusa nella cura dei dettagli o dei particolari, così come nella ricreazione delle ambientazioni: alcune caratterizzate da atmosfere sospese e rarefatte dove si muovono moderne bellezze pre-raffaellite inondate di luce simbolista (Flora, Like a Virgin), altre riproducenti interni dal gusto un pò retrò (Maja vestida) o esterni di periferia, oppure alle volte servendosi di semplici tessuti che si trasformano in elementi altamente scenografici (Chercher l’Oubli(que)).
Nelle sue foto Alessia unisce un glamour, che ricorda in parte la fotografia al femminile di Sarah Moon, Deborah Turbeville, Francesca Spanio, ad una personalissima vena ironica: nelle sue fotografie non abbiamo modelle in studiate pose accattivanti, ma ragazze eleganti e ben vestite che conservano sempre la loro freschezza e genuinità, ovvero la loro umanità (Alberti side-face, Isolde nostalgia); figure che trovano proprio in quel dettaglio apparentemente casuale, o forse meglio dire quotidiano, la loro più grande efficacia e forza espressiva. Una sorta quindi di glamuor parodia del glamour, che crea scarti tra l'eleganza e raffinatezza della figura e l'ambientazione più dimessa (Red rhapsody); che ironizza su certi atteggiamenti delle foto di moda (Les yeux de la Fortune, À l'ombre des jeunes filles en fleurs), che accentua i dettagli o li sdrammatizza. Infatti, se fin dai tempi di Toulouse Lautrec si era usato il potere di fascinazione femminile come potentissimo strumento persuasivo per attirare l'attenzione sulla vendita di profumi o liquori, l'artista arriva in questo modo a sottrarre la figura femminile dal tradizionale clichè estetico della donna-oggetto (I’m not on sale, A trip to the end of the night) mostrandone invece le molteplici sfaccettature della sua interiorità.
La ricerca di Alessia ci insegna dunque che sentire, apparire, sembrare ed essere sono tutte facce della stessa medaglia, e ci mostra come sia possibile ampliare la sfera delle esperienze estetiche rompendo con coraggio i confini tra arte e vita e trasformando così la vita stessa in forma d'arte. Come avvertiva in fondo Oscar Wilde quando suggeriva che “il vero mistero del mondo è ciò che si vede e non l'invisibile”.
Virginia Bazzechi Ganucci Cancellieri
ILARIO PRINCIPE – FOTOGRAFIA E SCULTURA
“Sono diventato artista per caso, se mai posso chiamarmi artista. Una dozzina d’anni fa mi trovavo nella marmeria di alcuni amici, al mio paese, il più piccolo della Calabria, e dall’oscurità una pietra si è fatta improvvisamente vedere al mio sguardo. Di pietre ne avevo viste tantissime altre, come tutti, ma questa era speciale. Molto abrasiva, la usavano i marmisti per affilare le seghe circolari e per provare le punte dei trapani. Era diventata in tal modo un palinsesto di tagli e di buchi, disposti però secondo un ordine che non obbediva alle leggi del caso sebbene a quelle, si sarebbe detto, della natura. L’ho raccolta e me la sono portata via. I miei amici ridevano. È cominciata così. La scultura voglio dire. La fotografia no, è una passione di lunga data: presa, lasciata, poi ripresa, oggi sempre mi accompagna se non con la macchina almeno con l’occhio fotografico. Non è stato piacevole passare dall’analogico al digitale ma la foto analogica è diventata troppo d’élite, il digitale permette una latitudine di scatto prima impossibile. Non è vero che per ciò tutti sono diventati fotografi. Tutti fanno fotografie, pochi sono fotografi; così come tutti vedono le cose però pochi sanno restituirle in opere che per comodità si definiscono sculture. Per comodità perché la scultura, come la intendo io, non è più legata al concetto michelangiolesco del titano che toglie il superfluo dal blocco di marmo: il superfluo lo toglie, ma da sé stesso. Per l’artista una scultura, o una pittura, o una fotografia, o una poesia, è un autoritratto nel quale egli progressivamente si spoglia delle sue concrezioni esistenziali per mostrarsi in quell’umanità di cui l’opera diventa epifania visibile, o udibile nel caso ad esempio della musica. Con troppa facilità, soprattutto nei giovani, ci si improvvisa fotografi, scultori, pittori, s’inventano filmini chiamati corti o ci si arrampica sulle acclività lascive della grafica. Intanto sarebbe necessaria una consapevolezza esistenziale, ai giorni nostri restata assai indietro nel comune sentire delle persone. Tutti esistono altrove: nei telefonini, negli schermi televisivi, nel computer, nei videogiochi, in sciocche riviste patinate. Saper vedere, non guardare soltanto, questo il problema. Saper vedere entro sé stessi prima di vedere l’altro: persona, cosa, animale, vegetale, minerale poco importa. Poi, capire attraverso informazione ed esperienza quali possano essere le coordinate da tracciare per rendere gesto un’idea, opera un gesto. Il silenzio interiore aiuta, ma non basta. Gesto, idea, opera, sono strumenti comunicativi, fino a un certo punto non di massa e al di sotto di un certo punto spie di insofferenza strettamente individuale, perciò inane a sviluppare qualità sociali legate alla pratica dell’arte: libertà, etica, civiltà, cultura, e quanto appartiene all’orizzonte dell’invisibile. Non si può definire l’arte, neppure con parole così blasonate. Ognuno la cerca se vuole, la trova se può, la racconta se deve. Volere, potere, dovere; sembra una triade fascista, pericolosa in questi tempi di rilassamento morale. Ci soccorre il rigore, unica parola che prenderei a prestito dai campi di calcio. Ma cosa vuol dire rigore? Alcune mie opere, come ad esempio le pietre, non le ho fatte, le ho raccolte così com’erano delegando a quel che vedevo di mostrare quel che sono; altre le ho assemblate a partire da elementi raccolti nei diversi luoghi dove la risacca delle cose depositava la sua memoria; altre infine le ho create io, in particolare le fusioni in bronzo e le fotografie. La scelta è stata rigorosa, posso garantirlo, vale a dire doveva esprimere soprattutto ciò che sentivo e non soltanto ciò che vedevo: ed è proprio questo il criterio da utilizzare quando si collega l’idea all’opera attraverso il gesto. La mostra non vuole suggerire come si deve fare arte, non sono io la persona più indicata: è semplicemente un’operazione che segue nel tessuto del quotidiano l’apertura culturale fornita dalla dimensione di quello che è pratica di vita. Non vi sono né tematismi né percorsi. Le opere sono misure di una geo grafia dell’esistenza per comprendere il mondo circostante e per vedere con la mente e con il cuore quel che gli occhi non mostrano direttamente: necessarie allora ad accompagnare e dare un senso inequivoco all’azione inscritta nel gesto di cercare, trovare, raccontare. L’arte, dicono, non è una risposta. Ma allora perché fin dall’origine dell’umanità la si è sempre cercata, trovata, raccontata?
07
maggio 2011
Alessia Musolino / Ilario Principe – Mostrarsi
Dal 07 al 13 maggio 2011
fotografia
Location
CIVICO69
Firenze, Via Ghibellina, 69, (Firenze)
Firenze, Via Ghibellina, 69, (Firenze)
Orario di apertura
martedi- venerdi 10-13,30 e 16-19
sabato 16-20
Vernissage
7 Maggio 2011, ore 18,00
Autore
Curatore