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Alessio Vaccari – La distanza delle cose
Proprio la resistenza paziente, spesso nei confronti delle distrazioni, che separano l’interiorità dall’essenziale, forse dall’unica luce che conta, col fine di cogliere quel qualcosa che sta oltre il mondo apparente, emerge come uno dei temi centrali dalla pittura di Vaccari
Comunicato stampa
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Ci sono pittori che vivono e lavorano percorrendo le suggestive, colorate, e spesso caotiche e
frammentarie vie del mondo; ce ne sono pochi altri che scelgono una strada più solitaria, più sobria, meno appariscente. Ci sono pittori appagati e ormai soddisfatti del loro lavoro; ce ne
sono pochi altri continuamente alla ricerca dell'indefinibile, spinti da una nostalgia di ciò che solo intravedono come Infinito sopra, dentro di loro e il mondo. Tra questi ultimi pittori solitari, nostalgici dell'Infinito, dallo sguardo colmo di stupore, ho intravisto Alessio Vaccari.
Mi vengono in mente le parole del poeta Philippe Jaccottet il quale, parlando della pittura di
Morandi, afferma: «Talvolta vi appaiono dei colori particolarmente austeri, invernali, di bosco e
di neve, che daccapo ti fanno pronunciare la bella parola “pazienza”. La pazienza che significa aver vissuto, aver penato, aver “resistito”: con modestia, sopportazione, ma senza rivolta, né
indifferenza, né disperazione; come se, dentro questa pazienza, si attendesse nonostante tutto una sorta di arricchimento; quasi che la pazienza permettesse di impregnarsi sordamente dell'unica
luce che conta». Proprio la resistenza paziente, spesso nei confronti delle distrazioni, che separano l'interiorità dall'essenziale, forse dall'unica luce che conta, col fine di cogliere quel qualcosa che sta oltre il mondo apparente, mi sembra emerga come uno dei temi centrali dalla pittura di Vaccari.
Uno dei quadri, che il pittore ha definito il più emblematico della mostra, sembra darne
dimostrazione. Due piccole teste, probabilmente di gesso, su un tavolo di legno accostato ad un
angolo di una stanza. Niente più. Questo è quanto rappresenta il quadro ad un primo sguardo.
Se proviamo, con la stessa pazienza dell'artista, a scavare tra le pieghe dell'apparente povertà di
forme e colori, ci accorgiamo che il superfluo viene inesorabilmente cacciato fuori perché rimanga l'essenziale. La rappresentazione minimalista è funzionale a dare luce non più all'oggetto esteriore, ma ad una forma che va oltre la forma, ad un mondo interiore che gradualmente si fa presente nella sua ricchezza e intensità.
«Mi interessa rappresentare la “distanza” che mi separa dalle cose, non più la cosa in sé», afferma il pittore. Egli è interessato a sondare lo spazio tra lo sguardo e le cose, tra il suo essere e
l'essere delle cose che abitano un luogo, un luogo fisico. L'essenziale rappresentato è in realtà il
volto sobrio di un articolato gioco di forze invisibili, tra rigide geometrie, in cui lo sguardo viene proprio materialmente catturato, quasi violentemente attratto, poi respinto e nuovamente attratto. Ci troviamo di fronte ad una dinamica che potremmo definire della resistenza, dentro la quale lo sguardo, come in certi film di Robert Bresson, dopo essere stato catturato e provato, cerca vie di uscita, luoghi tranquilli dove riposare, i luoghi della “grazia”. È in quell'istante che avviene un miracolo, lo sguardo fluttua verso lo sfondo, tra gli oggetti, sulle pareti, sprofonda liberamente dentro lo spazio colmo di aria e di luce, e lo spirito respira illuminandosi, aprendosi alle zone misteriose dell'invisibile, verso luoghi spirituali, che inizia ad abitare e dai quali sembra essere
abitato.
Ma proviamo ancora a fermarci su ciò che il pittore rappresenta sul tavolo: due piccole teste, due volti umani. Sono presenze che si mostrano, che appaiono, che si offrono, quasi impercettibilmente, ma che allo stesso tempo diminuiscono, indietreggiano, diventano assenze, su un tavolo (un palcoscenico, un altare) che invece avanza consistentemente nello spazio. Sono metafore sullo stare e non stare, sull'ergersi e sul cadere, in quella che diventa la rappresentazione (lo spettacolo, il sacrificio) della sublime quanto fragile e drammatica scena umana.
Come in uno specchio, guardando le presenze piccole e sfuggenti del quadro, guardiamo noi stessi, la nostra stessa presenza. Calcoliamo gli spazi tra le cose e il nostro io, cercando di trovare un luogo dove collocarci e tentare di capire e riflettere su noi stessi. Ma in questa ricerca ci scopriamo incapaci e balbuzienti perché qualcosa ci sfugge. Facciamo esperienza della vastità del reale, fuori e soprattutto dentro di noi. Nella sua “alterità”, nel suo sconfinamento, questa vastità ci inquieta e destabilizza esattamente come sa fare lo sfondo quasi piatto, sfuggente, seppur vibrante del quadro. Il pittore ci spinge su una linea di confine, tra reale e irreale, tra primo piano e sfondo, tra pavimento e soffitto, tra centro e margine, tra esteriore ed interiore, tra realtà terrena e realtà celeste.
In questo margine che il filosofo Silvano Petrosino definisce “inabitabile” siamo invitati a stare. Ma ecco che bisogna fare i conti con qualcosa che eccede, un'alterità che inquieta, qualcosa che nel suo essere “altro” sembra sfuggire alla razionalità, al gesto del possesso, come gli oggetti sul tavolo o la luce sulla parete, ma come il nostro essere stesso più interiore. Se da una parte siamo portati ad
annullare questa eccedenza, dall'altra possiamo lasciarci coinvolgere, accoglierla, persino custodirla intimamente.
Metafora di questo margine sfuggente sembra essere proprio la luce. Essa domina dolcemente la scena come protagonista indiscusso, come linfa vitale della rappresentazione. Con la sua intensa
delicatezza, con la sua ariosa fuggevolezza, come margine verso qualcos'altro, contribuisce alla realizzazione di uno spazio tra presente e ”altrove”. Come un sussurro melodioso e del profondo ci immette in un tempo terreno aperto verso quello eterno.
Per finire, è proprio in riferimento al tempo eterno che, in modo scherzoso, potremmo definire
Alessio un pittore della “domenica”, nel senso di un pittore che ci offre una strada, probabilmente
laica ma profondamente spirituale, di accostarci al “dies dominus”, il “tempo divino”, l“ottavo
giorno”, il “kairos”, il “tempo dell'Infinito”.
frammentarie vie del mondo; ce ne sono pochi altri che scelgono una strada più solitaria, più sobria, meno appariscente. Ci sono pittori appagati e ormai soddisfatti del loro lavoro; ce ne
sono pochi altri continuamente alla ricerca dell'indefinibile, spinti da una nostalgia di ciò che solo intravedono come Infinito sopra, dentro di loro e il mondo. Tra questi ultimi pittori solitari, nostalgici dell'Infinito, dallo sguardo colmo di stupore, ho intravisto Alessio Vaccari.
Mi vengono in mente le parole del poeta Philippe Jaccottet il quale, parlando della pittura di
Morandi, afferma: «Talvolta vi appaiono dei colori particolarmente austeri, invernali, di bosco e
di neve, che daccapo ti fanno pronunciare la bella parola “pazienza”. La pazienza che significa aver vissuto, aver penato, aver “resistito”: con modestia, sopportazione, ma senza rivolta, né
indifferenza, né disperazione; come se, dentro questa pazienza, si attendesse nonostante tutto una sorta di arricchimento; quasi che la pazienza permettesse di impregnarsi sordamente dell'unica
luce che conta». Proprio la resistenza paziente, spesso nei confronti delle distrazioni, che separano l'interiorità dall'essenziale, forse dall'unica luce che conta, col fine di cogliere quel qualcosa che sta oltre il mondo apparente, mi sembra emerga come uno dei temi centrali dalla pittura di Vaccari.
Uno dei quadri, che il pittore ha definito il più emblematico della mostra, sembra darne
dimostrazione. Due piccole teste, probabilmente di gesso, su un tavolo di legno accostato ad un
angolo di una stanza. Niente più. Questo è quanto rappresenta il quadro ad un primo sguardo.
Se proviamo, con la stessa pazienza dell'artista, a scavare tra le pieghe dell'apparente povertà di
forme e colori, ci accorgiamo che il superfluo viene inesorabilmente cacciato fuori perché rimanga l'essenziale. La rappresentazione minimalista è funzionale a dare luce non più all'oggetto esteriore, ma ad una forma che va oltre la forma, ad un mondo interiore che gradualmente si fa presente nella sua ricchezza e intensità.
«Mi interessa rappresentare la “distanza” che mi separa dalle cose, non più la cosa in sé», afferma il pittore. Egli è interessato a sondare lo spazio tra lo sguardo e le cose, tra il suo essere e
l'essere delle cose che abitano un luogo, un luogo fisico. L'essenziale rappresentato è in realtà il
volto sobrio di un articolato gioco di forze invisibili, tra rigide geometrie, in cui lo sguardo viene proprio materialmente catturato, quasi violentemente attratto, poi respinto e nuovamente attratto. Ci troviamo di fronte ad una dinamica che potremmo definire della resistenza, dentro la quale lo sguardo, come in certi film di Robert Bresson, dopo essere stato catturato e provato, cerca vie di uscita, luoghi tranquilli dove riposare, i luoghi della “grazia”. È in quell'istante che avviene un miracolo, lo sguardo fluttua verso lo sfondo, tra gli oggetti, sulle pareti, sprofonda liberamente dentro lo spazio colmo di aria e di luce, e lo spirito respira illuminandosi, aprendosi alle zone misteriose dell'invisibile, verso luoghi spirituali, che inizia ad abitare e dai quali sembra essere
abitato.
Ma proviamo ancora a fermarci su ciò che il pittore rappresenta sul tavolo: due piccole teste, due volti umani. Sono presenze che si mostrano, che appaiono, che si offrono, quasi impercettibilmente, ma che allo stesso tempo diminuiscono, indietreggiano, diventano assenze, su un tavolo (un palcoscenico, un altare) che invece avanza consistentemente nello spazio. Sono metafore sullo stare e non stare, sull'ergersi e sul cadere, in quella che diventa la rappresentazione (lo spettacolo, il sacrificio) della sublime quanto fragile e drammatica scena umana.
Come in uno specchio, guardando le presenze piccole e sfuggenti del quadro, guardiamo noi stessi, la nostra stessa presenza. Calcoliamo gli spazi tra le cose e il nostro io, cercando di trovare un luogo dove collocarci e tentare di capire e riflettere su noi stessi. Ma in questa ricerca ci scopriamo incapaci e balbuzienti perché qualcosa ci sfugge. Facciamo esperienza della vastità del reale, fuori e soprattutto dentro di noi. Nella sua “alterità”, nel suo sconfinamento, questa vastità ci inquieta e destabilizza esattamente come sa fare lo sfondo quasi piatto, sfuggente, seppur vibrante del quadro. Il pittore ci spinge su una linea di confine, tra reale e irreale, tra primo piano e sfondo, tra pavimento e soffitto, tra centro e margine, tra esteriore ed interiore, tra realtà terrena e realtà celeste.
In questo margine che il filosofo Silvano Petrosino definisce “inabitabile” siamo invitati a stare. Ma ecco che bisogna fare i conti con qualcosa che eccede, un'alterità che inquieta, qualcosa che nel suo essere “altro” sembra sfuggire alla razionalità, al gesto del possesso, come gli oggetti sul tavolo o la luce sulla parete, ma come il nostro essere stesso più interiore. Se da una parte siamo portati ad
annullare questa eccedenza, dall'altra possiamo lasciarci coinvolgere, accoglierla, persino custodirla intimamente.
Metafora di questo margine sfuggente sembra essere proprio la luce. Essa domina dolcemente la scena come protagonista indiscusso, come linfa vitale della rappresentazione. Con la sua intensa
delicatezza, con la sua ariosa fuggevolezza, come margine verso qualcos'altro, contribuisce alla realizzazione di uno spazio tra presente e ”altrove”. Come un sussurro melodioso e del profondo ci immette in un tempo terreno aperto verso quello eterno.
Per finire, è proprio in riferimento al tempo eterno che, in modo scherzoso, potremmo definire
Alessio un pittore della “domenica”, nel senso di un pittore che ci offre una strada, probabilmente
laica ma profondamente spirituale, di accostarci al “dies dominus”, il “tempo divino”, l“ottavo
giorno”, il “kairos”, il “tempo dell'Infinito”.
26
ottobre 2012
Alessio Vaccari – La distanza delle cose
Dal 26 ottobre al 07 novembre 2012
arte contemporanea
Location
GALLERIA LEONARDO
Bolzano, Via Leonardo Da Vinci, 14, (Bolzano)
Bolzano, Via Leonardo Da Vinci, 14, (Bolzano)
Orario di apertura
dal lun. al ven. 10.00/12.30-16.00/19.00 sab. 10.00/12.00 domenica chiusura
Vernissage
26 Ottobre 2012, ore 18
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