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Alvise Bittente – De rebus domesticis, seu affectuum lascivissimae picturae
De rebus domesticis, seu affectuum lascivissimae picturae, ossia Del domestico, o la pornografia dei sentimenti si rivolge all’ambiente famigliare della cucina concentrandosi sugli utensili che in essa supportano azioni ormai rituali
Comunicato stampa
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Le cose sono là, Bittente le disegna.
Nel lavoro di Alvise Bittente persiste qualcosa di quella attitudine a rapportarsi col mondo, ricopiandolo, che molta gloria artistica ha dato, nel passato, alla sua Venezia. In fondo egli agisce ancora come un vedutista, uno che si piazza di fronte a una fetta di realtà per trascriverla manualmente. Che poi la fetta di realtà non si estenda più alle sontuose prospettive di campi, palazzi e canali che ci hanno lasciato Canaletto e compagni, ma si sia fatta piccola piccola, fino a diventare la briciola costituita da un singolo oggetto, è il marchio della nostra epoca. Ricordo Bittente alle prese, qualche anno fa, assieme ad altri artisti, con una performance di pittura dal vivo nella piazza monumentale di Faenza. Egli era l’unico che si era messo a copiare ciò che gli si parava di fronte. Ma, voltate le spalle alla piazza con la variopinta ricchezza della vita che vi si svolgeva, si fissò a immortalare il dettaglio insignificante, se non addirittura sconveniente, di un cestino per i rifiuti.
In parallelo le vedute di Bittente disdegnano la texture pittoresca di ombre, sfumature e accidenti vari attraverso cui ci appaiono gli oggetti. Della polpa delle cose non rimane che il fantasma di un segno sottile, che in poche evoluzioni, a passo di danza, delinea l’icona. L’oggetto si esala in una forma stilizzata, lieve, impalpabile, ridotta al nonnulla del tratto nero su carta. Per certi versi è la rivelazione della sua essenza. A patto però di non volervi leggere alcunché di metafisico: semmai si potrebbero tirare in ballo quelle “essenze”, se così le si vuol chiamare, che sono i simboli visivi minimi, ma allo stesso tempo squisiti ed evidentissimi, escogitati dalle comunicazioni di massa per presentare questo o quel prodotto. Sono le icone delle immagini pubblicitaria, o magari di un libretto di istruzioni.
Ciò non vuol dire, però, che l’opera di Bittente sia totalmente insensibile ai valori pittorici, primo tra tutti al colore. Tra le maglie rade del disegno si aprono ampi spazi vuoti, che si prestano a essere colmati con l’applicazione di un qualche rivestimento, di una qualche “pelle”. In passato si trattava, per lo più, di colorare alcune aree con il giallo etereo e stereotipato dell’evidenziatore. In questa occasione Bittente va a ripescare la tecnica illustre del papier collé, appiccicando come sfondo i tessuti decorati di carte da parati di gusto struggentemente kitsch e démodé. Siamo ancora, più che mai, nell’ambito dello stereotipo, dell’artificio, con la conseguenza che si accresce il grado di immaterialità dell’immagine.
Così svuotato di consistenza e senza alcuno slancio verticale verso il trascendente, il disegno si presta all’innesto con una verve concettuale ingegnosa, argutissima, impero delle associazioni mentali di chi ha in dono la leggerezza che permette di guardare il mondo alla rovescia, stabilendo la logica del paradosso. Il mezzo verbale è lo strumento per eccellenza dell’espressione del pensiero e Bittente, dando prova anche di un apprezzabile talento letterario, sfrutta al massimo lo spazio angusto del titolo per concentrarvi deliziosi giochi di parole e altre schegge di “saggia follia”. A ben vedere, mi sembra che la vera natura dell’opera di Bittente sia proprio quella dell’arte concettuale – in effetti, quanti artisti concettuali dei più esemplari non hanno mai rinunciato alla matita, pur spregiando il pennello? Un concettuale divertito e indisciplinato, che travolge l’inerzia degli oggetti con il soffio del “pensar sottile”.
De rebus domesticis, seu affectuum lascivissimae picturae, ossia Del domestico, o la pornografia dei sentimenti si rivolge all’ambiente famigliare della cucina concentrandosi sugli utensili che in essa supportano azioni ormai rituali, che ci vengono insospettabilmente rivelate come intrise di spudorate valenze sessuali. Anche in questo caso, i referti percettivi di Bittente sono tutt’altro che d’eccezione: tappi, taglieri, pentole, coltelli, mestoli, cucchiai, sturalavandini, tazzine, spazzole, grembiuli e così via. Insomma cose. Cose che più volte al giorno incrociano la nostra esperienza, venendo a costituire, per le nostre azioni, una sponda, una rete d’appoggio dolce e tenace. Tale è la consuetudine del rapporto tra noi e loro che alla fine succede che esse ci appaiano psicologicamente nulle. In realtà vi si agita un’eccitazione così capillare e radicata, costante come un rumore di fondo, da essere inavvertibile, anche se attiva e potente. È il sentire le cose nella simbiosi con esse, il cui decorso è piatto non in quanto assente, ma perché privo di saliscendi emotivi.
Questi disegni di cose non celebrano la vittoria dell’apatia, dell’inerzia bruta dell’artificio; al contrario sanciscono la dilatazione della soggettività, che si rovescia sugli oggetti, li avvolge, li interiorizza nella corrente di coscienza, ne fa la rampa di lancio per le più spericolate evoluzioni. Siamo nei territori irreali del sogno, della memoria, degli affetti. E ovviamente, in primo luogo, prorompe la componente che innerva gran parte dell’attività psichica: l’immaginazione sessual-sentimentale. Ecco così spiegata la devozione della massaia, che nel maneggiare pentole e posate può dare se stessa a una pratica erotica sublimata e finalmente appagante, col medesimo trasporto di un’eroina d’operetta abbandonata tra le braccia dell’amante.
Guido Bartorelli
Nel lavoro di Alvise Bittente persiste qualcosa di quella attitudine a rapportarsi col mondo, ricopiandolo, che molta gloria artistica ha dato, nel passato, alla sua Venezia. In fondo egli agisce ancora come un vedutista, uno che si piazza di fronte a una fetta di realtà per trascriverla manualmente. Che poi la fetta di realtà non si estenda più alle sontuose prospettive di campi, palazzi e canali che ci hanno lasciato Canaletto e compagni, ma si sia fatta piccola piccola, fino a diventare la briciola costituita da un singolo oggetto, è il marchio della nostra epoca. Ricordo Bittente alle prese, qualche anno fa, assieme ad altri artisti, con una performance di pittura dal vivo nella piazza monumentale di Faenza. Egli era l’unico che si era messo a copiare ciò che gli si parava di fronte. Ma, voltate le spalle alla piazza con la variopinta ricchezza della vita che vi si svolgeva, si fissò a immortalare il dettaglio insignificante, se non addirittura sconveniente, di un cestino per i rifiuti.
In parallelo le vedute di Bittente disdegnano la texture pittoresca di ombre, sfumature e accidenti vari attraverso cui ci appaiono gli oggetti. Della polpa delle cose non rimane che il fantasma di un segno sottile, che in poche evoluzioni, a passo di danza, delinea l’icona. L’oggetto si esala in una forma stilizzata, lieve, impalpabile, ridotta al nonnulla del tratto nero su carta. Per certi versi è la rivelazione della sua essenza. A patto però di non volervi leggere alcunché di metafisico: semmai si potrebbero tirare in ballo quelle “essenze”, se così le si vuol chiamare, che sono i simboli visivi minimi, ma allo stesso tempo squisiti ed evidentissimi, escogitati dalle comunicazioni di massa per presentare questo o quel prodotto. Sono le icone delle immagini pubblicitaria, o magari di un libretto di istruzioni.
Ciò non vuol dire, però, che l’opera di Bittente sia totalmente insensibile ai valori pittorici, primo tra tutti al colore. Tra le maglie rade del disegno si aprono ampi spazi vuoti, che si prestano a essere colmati con l’applicazione di un qualche rivestimento, di una qualche “pelle”. In passato si trattava, per lo più, di colorare alcune aree con il giallo etereo e stereotipato dell’evidenziatore. In questa occasione Bittente va a ripescare la tecnica illustre del papier collé, appiccicando come sfondo i tessuti decorati di carte da parati di gusto struggentemente kitsch e démodé. Siamo ancora, più che mai, nell’ambito dello stereotipo, dell’artificio, con la conseguenza che si accresce il grado di immaterialità dell’immagine.
Così svuotato di consistenza e senza alcuno slancio verticale verso il trascendente, il disegno si presta all’innesto con una verve concettuale ingegnosa, argutissima, impero delle associazioni mentali di chi ha in dono la leggerezza che permette di guardare il mondo alla rovescia, stabilendo la logica del paradosso. Il mezzo verbale è lo strumento per eccellenza dell’espressione del pensiero e Bittente, dando prova anche di un apprezzabile talento letterario, sfrutta al massimo lo spazio angusto del titolo per concentrarvi deliziosi giochi di parole e altre schegge di “saggia follia”. A ben vedere, mi sembra che la vera natura dell’opera di Bittente sia proprio quella dell’arte concettuale – in effetti, quanti artisti concettuali dei più esemplari non hanno mai rinunciato alla matita, pur spregiando il pennello? Un concettuale divertito e indisciplinato, che travolge l’inerzia degli oggetti con il soffio del “pensar sottile”.
De rebus domesticis, seu affectuum lascivissimae picturae, ossia Del domestico, o la pornografia dei sentimenti si rivolge all’ambiente famigliare della cucina concentrandosi sugli utensili che in essa supportano azioni ormai rituali, che ci vengono insospettabilmente rivelate come intrise di spudorate valenze sessuali. Anche in questo caso, i referti percettivi di Bittente sono tutt’altro che d’eccezione: tappi, taglieri, pentole, coltelli, mestoli, cucchiai, sturalavandini, tazzine, spazzole, grembiuli e così via. Insomma cose. Cose che più volte al giorno incrociano la nostra esperienza, venendo a costituire, per le nostre azioni, una sponda, una rete d’appoggio dolce e tenace. Tale è la consuetudine del rapporto tra noi e loro che alla fine succede che esse ci appaiano psicologicamente nulle. In realtà vi si agita un’eccitazione così capillare e radicata, costante come un rumore di fondo, da essere inavvertibile, anche se attiva e potente. È il sentire le cose nella simbiosi con esse, il cui decorso è piatto non in quanto assente, ma perché privo di saliscendi emotivi.
Questi disegni di cose non celebrano la vittoria dell’apatia, dell’inerzia bruta dell’artificio; al contrario sanciscono la dilatazione della soggettività, che si rovescia sugli oggetti, li avvolge, li interiorizza nella corrente di coscienza, ne fa la rampa di lancio per le più spericolate evoluzioni. Siamo nei territori irreali del sogno, della memoria, degli affetti. E ovviamente, in primo luogo, prorompe la componente che innerva gran parte dell’attività psichica: l’immaginazione sessual-sentimentale. Ecco così spiegata la devozione della massaia, che nel maneggiare pentole e posate può dare se stessa a una pratica erotica sublimata e finalmente appagante, col medesimo trasporto di un’eroina d’operetta abbandonata tra le braccia dell’amante.
Guido Bartorelli
11
giugno 2005
Alvise Bittente – De rebus domesticis, seu affectuum lascivissimae picturae
Dall'undici giugno al 10 settembre 2005
arte contemporanea
Location
PERUGI ARTE CONTEMPORANEA
Padova, Via Giordano Bruno, 24b, (Padova)
Padova, Via Giordano Bruno, 24b, (Padova)
Orario di apertura
da lunedì a sabato 17.30-20.30
Vernissage
11 Giugno 2005, ore 18,30
Autore
Curatore