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Amare o distruggere le immagini? (Tu sei iconoclasta o iconolatra?)
Collettiva di artisti contemporanei
Comunicato stampa
Segnala l'evento
È possibile essere iconolatri oggi?
È giusto professare un tipo di poesia per immagini, in un’epoca oberata dal bombardamento immaginifico prodotto dall’industria culturale?
È appropriato, al contrario, essere iconoclasti?
Si può reagire alla cacofonia audio-visiva soverchiante la quotidianità, opponendole il rifiuto delle icone?
Elegie mimetiche visuali o violenze concettuali aniconiche, cosa scegliere?
Il discorso sovraesposto pare essere stato estrapolato da qualche manifesto irritato stile sessantotto europeo. Eppure, a ben vedere, ci si avvede di come il fluttuante conflitto tra paladini dell’immagine in quanto medium e profanatori delle testualità tradizionali, non sia esclusivo del decennio “tremendo” dell’arte contemporanea.
Retrocedendo nel tempo all’VIII secolo d.C., in pieno bizantinismo, ci si avvede di quanto la dinamica bellicosa tra le due disposizioni sia pressoché costitutiva della disciplina artistica antropologicamente intesa. Secondo la setta degli iconoclasti, Dio non poteva essere rappresentato nella sua natura eterna. Viceversa, i teologi favorevoli alla venerazione delle immagini, affermavano che il fedele grazie all’icona non venerasse feticisticamente l’oggetto estetico bensì Dio stesso, metaforicamente trasfigurato nella fisicità del medium espressivo. Nell’ambito della religiosità popolare, suddette distinzioni meta-fisiche cessavano per lasciare spazio ad una venerazione inquietante dell’immagine di per sé intesa, identificandola per le sue qualità taumaturgiche. Spesso la materia delle tavolette di legno dipinte era sottratta ed immersa nel vino per praticare una formula pagana di comunione con il corpo di Cristo. Il casus belli fra le parti fu l’editto imperiale promulgato da Leone III Isaurico nel 726. In base alla legge, veniva ordinata la distruzione sistematica di ogni icona. Immediatamente divampò la rivolta dei difensori del culto delle immagini: conosciuti come iconoduli. La disputa proseguì con vicende alterne sino al 843, anno in cui Papa Gregorio IV abolì con formula definitiva la pratica dell’iconoclastia: della distruzione delle icone. I retroscena della vicenda sono di estrema importanza per l’economia del nostro discorso. Non si trattò, infatti, di un mero antagonismo fra due differenti concezioni cristiane. Materia di discussione erano gli aspetti fondamentali della religione occidentale, fra cui l’ “umanità” di Cristo. Gli iconoduli affermavano che rappresentare Cristo significava illustrare il dogma centrale del Cristianesimo: l’Incarnazione. Simultaneamente all’emersione delle loro pretese, venne definito, infatti, lo statuto teologico dell’icona: “Chi venera l’icona, venera in essa l’ipostasi di colui che vi è inscritto”.
La sublimazione venne dunque fissata quale compito delle immagini: il ricongiungimento ideale con l’essenza, non già la mera gratificazione formale della bellezza dell’icona stessa.
A meno di non sfidare la sacralità dell’opera d’arte (vagheggiando una presunta perdita di valore o di monumentalità auratica), il potere delle immagini prodotte nel contesto specificatamente artistico continua a stupire per la sua decisa vocazione ad una presa di posizione ideologica. È impossibile, quanto inattuale, approcciarsi al testo artistico come ad alcunché di esperibile esclusivamente attraverso i sensi o, ancor peggio, distrattamente. L’arte esige una marcata presa di posizione: sei iconolatra o iconoclasta?, sembra chiedere insistentemente l’opera d’arte.
A partire dall’ultimo quarto del XX secolo ha preso piede, nel mondo occidentale, una duplice deriva nella ricezione delle immagini. Da un lato si assiste alla proliferazione delle stesse, il che conduce necessariamente ad un eccesso nel consumismo voyeuristico; palese, quest’ultimo, nell’esorbitante chermes di stimolazioni visuali elettroniche cui soggiaciamo. Questa condizione è contaminata dall’incapacità contemporanea di lasciarsi sopraffare ammaliati dalle immagini: situazione che richiederebbe la capacità di silenzio e di contemplazione, doti inattuali nella nostra civiltà. Dalla “notte” del Medioevo, l’Occidente ha infatti innalzato la parola quale medium idoneo per il raggiungimento della conoscenza, attribuendo alle sole immagini il mero compito decorativo di completamento semantico o di palese illustrazione.
La profondità ermeneutica dell’arte modernista, lo strenuo tentativo di privilegiare il contenuto e l’interpretazione alla superficie sensibile dell’opera d’arte non è che la preistoria dell’avanguardia. La frammentazione del significato, di grande attualità nella presente situazione storico-culturale di post-modernismo, tende alla produzione di violente espressioni visive, la cui unica virtù consiste nella capacità di provocare scandalo e suscitare dissensi o ostilità. Viceversa, l’angosciante confronto con un industria culturale che proclama la creatività nella produzione delle immagini quale sua dote esclusiva, costringe un grande numero di artisti ad operate uno sconvolgimento dell’immagine stessa o un dichiarato rifiuto del suo primato. Il che ci conduce al secondo aspetto della condizione attuale delle immagini: l’iconofobia.
Le nuove forme visuali, grazie all’incessante voracità nullificante del consumismo avanzato, sembrano nascere con lo scopo esclusivo di annientare ciò che le ha precedute. L’avversione che ne consegue porta ad un confronto diretto con l’origine dell’iconoclastia critica: il pensiero platonico. Platone tacciava le immagini, in quanto riproduzioni ingannevoli, di causare confusione con il reale che pur raffigurano. Il percorso successivo del pensiero occidentale ha privilegiato il potere analitico della letteratura o della filosofia sul potere sintetico dell’arte figurativa; grossomodo fino all’avvento della fotografia che ha permesso l’emersione di una disciplina propriamente artistica quale medium di trascrizione fedele della realtà.
Il confronto tra testo sintetico e testo analitico tende ad essere irriducibile. Non esiste una possibile sublimazione della polarità in un’univoca sistematicità.
Analisi o sintesi, iconoclastia o iconolatria? Lo spirito dicotomico dell’occidente mantiene il suo fecondo potere di stimolazione della nostra riflessività e della nostra facoltà immaginifica.
La mostra allo Studio “Iroko” propone uno scontro vicendevole tra iconolatri (pionieri delle immagini riconoscibili e del potere delle figure quali veicoli di trasformazione della realtà e sublimazione della stessa in utopie o rappresentazioni critiche ed idealizzanti) e iconoclasti (professanti la possibilità del raggiungimento di una spiritualità più profonda attraverso l’allusione, l’astrazione e l’in-formale, piuttosto che tramite l’illustrazione).
Ironicamente ribattezzati con questa terminologia ecclesiastica, gli artisti possono proporre le loro opere in vista di un loro ipotetico inserimento nelle vicende storiche dell’estetica di impatto socio-culturale: recuperando il ruolo centrale che l’opera d’arte godeva nel passato, quand’era pienamente consapevole della sua aura simbolica.
È giusto professare un tipo di poesia per immagini, in un’epoca oberata dal bombardamento immaginifico prodotto dall’industria culturale?
È appropriato, al contrario, essere iconoclasti?
Si può reagire alla cacofonia audio-visiva soverchiante la quotidianità, opponendole il rifiuto delle icone?
Elegie mimetiche visuali o violenze concettuali aniconiche, cosa scegliere?
Il discorso sovraesposto pare essere stato estrapolato da qualche manifesto irritato stile sessantotto europeo. Eppure, a ben vedere, ci si avvede di come il fluttuante conflitto tra paladini dell’immagine in quanto medium e profanatori delle testualità tradizionali, non sia esclusivo del decennio “tremendo” dell’arte contemporanea.
Retrocedendo nel tempo all’VIII secolo d.C., in pieno bizantinismo, ci si avvede di quanto la dinamica bellicosa tra le due disposizioni sia pressoché costitutiva della disciplina artistica antropologicamente intesa. Secondo la setta degli iconoclasti, Dio non poteva essere rappresentato nella sua natura eterna. Viceversa, i teologi favorevoli alla venerazione delle immagini, affermavano che il fedele grazie all’icona non venerasse feticisticamente l’oggetto estetico bensì Dio stesso, metaforicamente trasfigurato nella fisicità del medium espressivo. Nell’ambito della religiosità popolare, suddette distinzioni meta-fisiche cessavano per lasciare spazio ad una venerazione inquietante dell’immagine di per sé intesa, identificandola per le sue qualità taumaturgiche. Spesso la materia delle tavolette di legno dipinte era sottratta ed immersa nel vino per praticare una formula pagana di comunione con il corpo di Cristo. Il casus belli fra le parti fu l’editto imperiale promulgato da Leone III Isaurico nel 726. In base alla legge, veniva ordinata la distruzione sistematica di ogni icona. Immediatamente divampò la rivolta dei difensori del culto delle immagini: conosciuti come iconoduli. La disputa proseguì con vicende alterne sino al 843, anno in cui Papa Gregorio IV abolì con formula definitiva la pratica dell’iconoclastia: della distruzione delle icone. I retroscena della vicenda sono di estrema importanza per l’economia del nostro discorso. Non si trattò, infatti, di un mero antagonismo fra due differenti concezioni cristiane. Materia di discussione erano gli aspetti fondamentali della religione occidentale, fra cui l’ “umanità” di Cristo. Gli iconoduli affermavano che rappresentare Cristo significava illustrare il dogma centrale del Cristianesimo: l’Incarnazione. Simultaneamente all’emersione delle loro pretese, venne definito, infatti, lo statuto teologico dell’icona: “Chi venera l’icona, venera in essa l’ipostasi di colui che vi è inscritto”.
La sublimazione venne dunque fissata quale compito delle immagini: il ricongiungimento ideale con l’essenza, non già la mera gratificazione formale della bellezza dell’icona stessa.
A meno di non sfidare la sacralità dell’opera d’arte (vagheggiando una presunta perdita di valore o di monumentalità auratica), il potere delle immagini prodotte nel contesto specificatamente artistico continua a stupire per la sua decisa vocazione ad una presa di posizione ideologica. È impossibile, quanto inattuale, approcciarsi al testo artistico come ad alcunché di esperibile esclusivamente attraverso i sensi o, ancor peggio, distrattamente. L’arte esige una marcata presa di posizione: sei iconolatra o iconoclasta?, sembra chiedere insistentemente l’opera d’arte.
A partire dall’ultimo quarto del XX secolo ha preso piede, nel mondo occidentale, una duplice deriva nella ricezione delle immagini. Da un lato si assiste alla proliferazione delle stesse, il che conduce necessariamente ad un eccesso nel consumismo voyeuristico; palese, quest’ultimo, nell’esorbitante chermes di stimolazioni visuali elettroniche cui soggiaciamo. Questa condizione è contaminata dall’incapacità contemporanea di lasciarsi sopraffare ammaliati dalle immagini: situazione che richiederebbe la capacità di silenzio e di contemplazione, doti inattuali nella nostra civiltà. Dalla “notte” del Medioevo, l’Occidente ha infatti innalzato la parola quale medium idoneo per il raggiungimento della conoscenza, attribuendo alle sole immagini il mero compito decorativo di completamento semantico o di palese illustrazione.
La profondità ermeneutica dell’arte modernista, lo strenuo tentativo di privilegiare il contenuto e l’interpretazione alla superficie sensibile dell’opera d’arte non è che la preistoria dell’avanguardia. La frammentazione del significato, di grande attualità nella presente situazione storico-culturale di post-modernismo, tende alla produzione di violente espressioni visive, la cui unica virtù consiste nella capacità di provocare scandalo e suscitare dissensi o ostilità. Viceversa, l’angosciante confronto con un industria culturale che proclama la creatività nella produzione delle immagini quale sua dote esclusiva, costringe un grande numero di artisti ad operate uno sconvolgimento dell’immagine stessa o un dichiarato rifiuto del suo primato. Il che ci conduce al secondo aspetto della condizione attuale delle immagini: l’iconofobia.
Le nuove forme visuali, grazie all’incessante voracità nullificante del consumismo avanzato, sembrano nascere con lo scopo esclusivo di annientare ciò che le ha precedute. L’avversione che ne consegue porta ad un confronto diretto con l’origine dell’iconoclastia critica: il pensiero platonico. Platone tacciava le immagini, in quanto riproduzioni ingannevoli, di causare confusione con il reale che pur raffigurano. Il percorso successivo del pensiero occidentale ha privilegiato il potere analitico della letteratura o della filosofia sul potere sintetico dell’arte figurativa; grossomodo fino all’avvento della fotografia che ha permesso l’emersione di una disciplina propriamente artistica quale medium di trascrizione fedele della realtà.
Il confronto tra testo sintetico e testo analitico tende ad essere irriducibile. Non esiste una possibile sublimazione della polarità in un’univoca sistematicità.
Analisi o sintesi, iconoclastia o iconolatria? Lo spirito dicotomico dell’occidente mantiene il suo fecondo potere di stimolazione della nostra riflessività e della nostra facoltà immaginifica.
La mostra allo Studio “Iroko” propone uno scontro vicendevole tra iconolatri (pionieri delle immagini riconoscibili e del potere delle figure quali veicoli di trasformazione della realtà e sublimazione della stessa in utopie o rappresentazioni critiche ed idealizzanti) e iconoclasti (professanti la possibilità del raggiungimento di una spiritualità più profonda attraverso l’allusione, l’astrazione e l’in-formale, piuttosto che tramite l’illustrazione).
Ironicamente ribattezzati con questa terminologia ecclesiastica, gli artisti possono proporre le loro opere in vista di un loro ipotetico inserimento nelle vicende storiche dell’estetica di impatto socio-culturale: recuperando il ruolo centrale che l’opera d’arte godeva nel passato, quand’era pienamente consapevole della sua aura simbolica.
01
dicembre 2011
Amare o distruggere le immagini? (Tu sei iconoclasta o iconolatra?)
Dal primo al 10 dicembre 2011
arte contemporanea
Location
STUDIO IROKO
Milano, Via Voghera, 11b, (Milano)
Milano, Via Voghera, 11b, (Milano)
Orario di apertura
10,30 - 13,00 e 15,30 - 19,00
Vernissage
1 Dicembre 2011, h 19:00 - 22:00
Curatore