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Andrea Bolognino – I giganti
Prima mostra personale in galleria dell’artista napoletano, classe 1991, con un testo a cura di Luciana Berti.
Durante l’inaugurazione sarà presentato il Numero 03 della Rivista Acappella con contributi di: Rosa Coppola, Giovanni Aiello, Augusto Fabio Cerqua, Ernesto Tedeschi, Giuliano Ciao.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Artista: Andrea Bolognino
Titolo: I GIGANTI
Sede: Galleria ACAPPELLA
Vico Santa Maria a Cappella Vecchia 8/A
Opening: giovedì 19 Maggio 2022 ore 19.00
Fino al: 19 Giugno 2022
Orari: mar > ven 16:30 – 19:30 | sabato su appuntamento
Info: galleriacappella@gmail.com
www.museoapparente.eu |ph: (+39) 339 61 34 112
«E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo». Osservo le opere di Andrea e sento che la faccenda ha in qualche modo a che fare con gli occhi, o con l’occhio.
Si tratta di vedere, di vederci troppo, senza sosta, di vedere non solo più vicino e più dentro, e non tanto attraverso, e nemmeno al di là, si tratta di vederci ovunque. Un ovunque che non è in ogni luogo contemporaneamente, o che passa da un punto all’altro del globo scomparendo e riapparendo a piacere, ma che percorre lo spazio, o meglio la superficie, senza mai staccarsi da essa, sfiorandola, toccandola, come fosse una mano che vede o un occhio che tocca. Più vicino e più dentro, come se quest’occhio-mano potesse penetrare nella materia. Microscopio, radiografia, zoom, computer: certo, nei lavori di Andrea c’è la macchina che si innesta nel corpo, il corpo-macchina che potenzia a dismisura la visibilità, la fusione dei due termini in un ibrido talvolta mostruoso e talvolta lirico, il postumano, ma anche visioni di un futuro che è già passato, retro-fantascienza, il futurismo, l’astrattismo russo. Si, certo, c’è tutto ciò, e sono residui, e sono esche. E sono residui poiché quest’occhio è costretto in qual- che modo ad avere un pensiero, dei ricordi, e non può rinunciare a fare delle associazioni, e gli è impedito di continuare a registrare, a registrare soltanto, a registrare e spostarsi senza sosta, toccare, guardare, toccare, ancora. Ma a questo punto ben poco resta di quell’occhio, che è uno, e che si faceva mano, e tornano così a essere due, e quindi la composizione, la struttura, l’equilibrio, la precisione, il cervello, lo stile(?). L’occhio si fa in due - nemmeno in quattro - e torna a riposare nelle sue orbite, e fa i suoi movimenti concertati e quando vede un papavero crede anche d’impazzire, la primavera, l’estate, se lo dice: impazzisco. E sono esche affinché i nostri occhi trovino qualche appiglio, o abbia lui stesso – Andrea, l’occhio – qualche appiglio, affinché il suo viaggio, e il nostro, abbia qualche momento di tregua, qualche casa da abitare, affinché possiamo divertirci a investigare, ad affannarci nella comprensione, nell’identificare le figure, nel risolvere gli enigmi, nell’improvvisarci biografi di opere altrui, e affinché, infine, il quadro non sfugga del tutto, poiché non bisogna abbandonare la rappresentazione ma partire da essa per condurla e condurci altrove, dove può pure smettere di essere quello che è, una dittatura o una democrazia, la perenne dialettica, affinché, affinché, affinché non si sia più quel che si è, ma si sia finalmente qualcosa, una cosa, una cosa come uno sguardo. Uno sguardo fattivo, concreto, materiale. In questo continuo processo, in questa continua sperimentazione, ogni forma è resa instabile, e l’occhio vive di questa esperienza, di questo movimento, che se lo porta a spasso, se lo trascina via, e l’occhio è occupato a stare sulla tela, nell’infinito paesaggio della tela, cioè sul corpo dell’opera, e ogni metafisica è sospesa, e con essa ogni interpretazione, e non c’è “questo” che rimanda a “quello”, non c’è più storia, ma solo l’opera che è proprio quella cosa, una cosa come uno sguardo. Andrea vive questa compresenza di stati: lui è l’occhio che osserva la tela e calibra, ed è l’occhio a cui la tela non basta mai, perché non c’è più superficie se non quella del globo – oculare, terrestre – che si dispiega come un tappeto liscio e grinzoso, e lo sguardo diviene oggettuale, come se le cose guardassero sé stesse, e quest’occhio vagabondo diventa qualcosa, non una fotocamera o una cinepresa, perché se c’è movimento, e movimento c’è e come, non c’è un filmare qualcosa, ma come un qualcosa che si filma, e registra, registra ancora. E così Andrea si è cartografato sul globo di questo occhio terrestre che non è più il suo ma che in qualche modo gli appartiene. Compresenza, ubiquità, il confronto con la tela, che è ancora vuota ed è già piena, i due occhi che la osservano, o che guardano le migliaia di immagini archiviate in digitale, o le foto sparse sul pavimento, e le altre milioni di immagini depositate da qualche parte nella memoria, e poi gli occhi, quell’altro milione di occhi – che poi uno è - che viaggia sulla materia e nello spazio - che pure ha una sua consistenza, un suo corpo - e quelle foto, e quei riferimenti, causano deviazioni, incidenti (automobilistici), nuove perlustrazioni, tentativi, e tutta la santa storia dell’arte, santa Maria della storia dell’arte, che proietta le sue immagini sullo schermo sensibile di questo occhio traslucido e vibrante, e che imprime la sua autorità su questa lastra, che è una mano, che è un occhio, e che tocca e che vede e che registra. E se si è ciechi, talvolta, è per- ché quest’occhio è troppo veloce per poterlo seguire, per poterne avere memoria, ed è un occhio ma è tutto il corpo, e soprattutto non è umano, è inumano, è una cosa, è una cosa come uno sguardo. Ripetiamolo: non è solo Bosch, non è solo come innestare un trombone nel culo di una scimmia, o ficcare un teleobiet- tivo nell’occhio di un cineamatore... l’occhio di Ledoux, l’occhio di Redon, che almeno si fa un giretto in mongolfiera. «L’occhio, che per convenzione rappresenta il soggetto, è dunque liberato dalle connessioni con il corpo, vaga sventrato e senza meta [...]. Con la dispersione dell’occhio si perde ogni pretesa di casa, di luogo recuperabile e spazi ricostruibili. Al suo posto, un soggetto “virtuale”, senza corpo e onnisciente, abita questi luoghi abbandonati che sembrano essere stati assemblati non molto tempo fa con i frammenti di precedenti spazi non virtuali, ma che ora sono sospesi su una rete non-dimensionale, in mezzo a pezzi di molte altre “home page” una volta attive.» Gli occhi del pittore sulla tela, l’occhio disincarnato e senza soggetto, la tela fissa al muro o disposta sul tavolo da lavoro, la tela/membrana dell’occhio cartografato e globale che è una mano e che tocca le cose, ma che è a sua volta toccato dalle cose, e così registra, e il pittore-disegnatore (l’artista) vive di queste compresenze, fra un precipizio ed il bucato, fra un’estasi e l’odore del caffè, che è già uno spalancamento, seppur troppo facile. Non si tratta, però, di passare da un mondo ad un altro, ma di essere in entrambi i luoghi contemporaneamente, come Keaton-Bene, di «essere di qua e di là della macchina da presa. Keaton è di là della macchina quando interpreta, come interprete è come se fosse di qua. In questo senso è un 9, un 25, un 400, è un tele, un fisheye, è un grand’angolo umano. [...] Welles e Olivier si spostano appunto come se fossero altri attori, come se dirigessero altri, solo che lo fanno loro. Tutto qui. Ma non cambia nulla: non c’è dialettica, non c’è oggettività. Che cosa manca loro? Non essendo dei grandangoli come Keaton, mancano di obiettivo, cioè mancano di oggettività». Registrare, quindi, che non significa dare forma. La registrazione è fatta da una telecamera, da un microfono, da un sismografo. Ancora parentele con gli apparecchi elettronici, ma ancora una volta: non come ibrido cronenberghiano, non come mo- stro fantascientifico, o almeno non solo (queste cose ci sono: non si tratta di vederle, ma di vedere come vedono loro). Si tratta piuttosto di una nuova “visione” basata su processo e movimento, che non sono solo quelli di occhio e corpo, ma anche quelli tipici delle dinamiche delle macchine. Eppure risultano talvolta così malinconiche le opere di Andrea, con le loro atmosfere ancora domestiche, i suoi sfumati, gli accenni mitici. E sembrano centrate talvolta su uno sguardo ancora così umano, proprio nei termini del tradizionale punto di vista dell’osservatore. Talvolta si ha l’impressione di vivere una scena in soggettiva, quasi come se stessimo dentro un quadro di aeropittura futurista, collocati in un abitacolo volante che è, ancora una volta, un occhio, ora aerodinamico, nell’atto di precipitare. C’è la città che sale in certe opere, il furore futurista ancora tutto moderno, ancora troppo d’avanguardia, ancora troppo storico, fatto di velocità, luci, distorsioni espressioniste, esterni e interni che sono ancora quelli del Dottor Caligari, ma anche scenari distopici, poi apocalittici. Ma, anche in questo caso, Andrea non si accontenta di vedere la scena, di vedere la scena con i suoi due occhi, ma di quella scena vuole cogliere l’evento, la caduta. Domanda in- concepibile: si può, attraverso un’opera in ogni caso finita e stabile, accogliere un evento? Si può attraverso ciò che avrà in ogni caso una forma, cogliere l’immediata mutevolezza della vita? Non diremo se c’è riuscito Andrea, eppure la via da lui seguita è ancora quella di una compresenza: osservare la scena e al contempo stare al cuore di essa, essere occhio che osserva e occhio che precipita, come vedersi vivere, in quei momenti in cui siamo sul punto di osservarci dall’esterno. Si genera una vertigine, un sistema di forze che ci restituiscono l’emozione di una caduta, un abbandono vissuto però dal punto stesso del nostro ancoramento al suolo, all’occhio, al corpo, come una sensazione di libertà assoluta provata dall’interno di una prigione ineliminabile. L’occhio che dal suo cavalletto si sente mancare la terra sotto ai piedi. L’incidente,
lo schianto automobilistico, come abitacolo-occhio, abitacolo-orbita, che è visto e che vede, collasso di carne e ferro, confusione fra interno ed esterno. È commovente, ed è come accedere a un’altra vita che non è un’altra, non è l’invenzione di un mondo che non c’è, ma è la vita stessa che dorme in questa, che aspetta di sprigionarsi come se potessimo avere improvvisamente ogni cosa a portata di mano, come se potessimo sentire la nostra mano afferrare un bicchiere, come se potes- simo essere d’un tratto felici. Ed è così che un aspetto è necessario all’altro, questa compre- senza, e non sarebbe lo stesso se si tentasse di disegnare solo l’immanenza dell’atto senza la rappresentazione di un’azione. Compresenza dell’organico con l’inorganico, dell’essere con il non-essere, di un movimento nomadico orizzontale e del precipizio verticale, di percorsi in superficie e di continue cadute in abissi. Compresenza ancora di una passione angelica con una catastrofe imminente, di una speranza dorata e quasi calda con una grigia distopia, di una ricchezza turca, orientaleggiante, con la scarnificazione più atroce, senza riuscire più a distinguere il battito del cuore dal ticchettio di un orologio, una chiusura di palpebre dal diaframma di un obiettivo, il letto fluviale di un’iride dall’estensione di un paesaggio corrugato, un mazzo di fiori da un’incrostazio- ne minerale, la spuma di un mare da un acido corrosivo. E che esperienza meravigliosa, direi divertente, quando con tocchi quasi didascalici, Andrea vuole illustrarci i suoi intensi viaggi, ingenuamente: una lente d’ingrandimento, il cerchio di luce di una lampada puntata su un dettaglio, un quasi esploso assonometrico del contenuto di uno schermo. Oppure quando con sezioni, diagrammi, teoremi, frammenti di materie viste al microscopio, cerca di fornirci delle prove scientificamente valide, come se bastasse sezionare un occhio per trovarci dentro la follia di uno sguardo, come se questo sguardo stupefatto nascesse in seno a qualche malattia del bulbo oculare. È quasi un folle iperrealismo il suo, non nel senso di una riproduzione dettagliatissima del reale, ma in quanto volontà di restituire in vitro un campione di tutte le forze e di tutte le sensazioni relative a un determinato stato, che è null’altro che reale. Mappe scientifiche, cortocircuiti emotivi, campionari di segni come attinti da una storia dell’arte ingoiata e vomitata sulla carta talvolta molto attentamente, a capo chino, con religioso rispetto, talvolta con gesti violenti e istintivi, sempre osservando i maestri e frustrandosi della propria incapacità, e rintracciando più forza in un solo angolino di Bramantino o di Bacon che in cinquanta disegni partoriti col disagio di chi fallisce sempre. Perché in fin dei conti quello che fa Andrea è molto facile, si tratta di fallire, lungo la più difficile delle strade, che è allo stesso tempo la più facile, per chi, come Andrea, è riuscito nell’impresa di diventare cretino, ma senza fare il furbo, nell’inutilità di essere difficili, ma nel tentativo di essere impossibili. Il fallimento è insito in questa modalità che deve costantemente essere in movimento ma che non può mai raggiungere nulla, in cui non esistono opere ma solo momenti di uno stesso interminabile processo, e si fallisce perché non si può che essere inca- paci, incapaci e disperati, e meravigliarsi del miracolo di un nuovo inaspettato evento, di cui non si è artefici ma solo testimoni. E il fallimento è anche il nostro: proprio quando il sogno di raggiungere il desiderio ci sembra possibile esso si trasforma nel desiderio frustrato di non poterlo raggiungere mai, ma di poterlo magari solo catturare, osservare, sezionare, fino alla prossima stupefazione, fino al prossimo evento, fino alla fine di questo testo perché pure deve finire, questo testo.
Titolo: I GIGANTI
Sede: Galleria ACAPPELLA
Vico Santa Maria a Cappella Vecchia 8/A
Opening: giovedì 19 Maggio 2022 ore 19.00
Fino al: 19 Giugno 2022
Orari: mar > ven 16:30 – 19:30 | sabato su appuntamento
Info: galleriacappella@gmail.com
www.museoapparente.eu |ph: (+39) 339 61 34 112
«E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo». Osservo le opere di Andrea e sento che la faccenda ha in qualche modo a che fare con gli occhi, o con l’occhio.
Si tratta di vedere, di vederci troppo, senza sosta, di vedere non solo più vicino e più dentro, e non tanto attraverso, e nemmeno al di là, si tratta di vederci ovunque. Un ovunque che non è in ogni luogo contemporaneamente, o che passa da un punto all’altro del globo scomparendo e riapparendo a piacere, ma che percorre lo spazio, o meglio la superficie, senza mai staccarsi da essa, sfiorandola, toccandola, come fosse una mano che vede o un occhio che tocca. Più vicino e più dentro, come se quest’occhio-mano potesse penetrare nella materia. Microscopio, radiografia, zoom, computer: certo, nei lavori di Andrea c’è la macchina che si innesta nel corpo, il corpo-macchina che potenzia a dismisura la visibilità, la fusione dei due termini in un ibrido talvolta mostruoso e talvolta lirico, il postumano, ma anche visioni di un futuro che è già passato, retro-fantascienza, il futurismo, l’astrattismo russo. Si, certo, c’è tutto ciò, e sono residui, e sono esche. E sono residui poiché quest’occhio è costretto in qual- che modo ad avere un pensiero, dei ricordi, e non può rinunciare a fare delle associazioni, e gli è impedito di continuare a registrare, a registrare soltanto, a registrare e spostarsi senza sosta, toccare, guardare, toccare, ancora. Ma a questo punto ben poco resta di quell’occhio, che è uno, e che si faceva mano, e tornano così a essere due, e quindi la composizione, la struttura, l’equilibrio, la precisione, il cervello, lo stile(?). L’occhio si fa in due - nemmeno in quattro - e torna a riposare nelle sue orbite, e fa i suoi movimenti concertati e quando vede un papavero crede anche d’impazzire, la primavera, l’estate, se lo dice: impazzisco. E sono esche affinché i nostri occhi trovino qualche appiglio, o abbia lui stesso – Andrea, l’occhio – qualche appiglio, affinché il suo viaggio, e il nostro, abbia qualche momento di tregua, qualche casa da abitare, affinché possiamo divertirci a investigare, ad affannarci nella comprensione, nell’identificare le figure, nel risolvere gli enigmi, nell’improvvisarci biografi di opere altrui, e affinché, infine, il quadro non sfugga del tutto, poiché non bisogna abbandonare la rappresentazione ma partire da essa per condurla e condurci altrove, dove può pure smettere di essere quello che è, una dittatura o una democrazia, la perenne dialettica, affinché, affinché, affinché non si sia più quel che si è, ma si sia finalmente qualcosa, una cosa, una cosa come uno sguardo. Uno sguardo fattivo, concreto, materiale. In questo continuo processo, in questa continua sperimentazione, ogni forma è resa instabile, e l’occhio vive di questa esperienza, di questo movimento, che se lo porta a spasso, se lo trascina via, e l’occhio è occupato a stare sulla tela, nell’infinito paesaggio della tela, cioè sul corpo dell’opera, e ogni metafisica è sospesa, e con essa ogni interpretazione, e non c’è “questo” che rimanda a “quello”, non c’è più storia, ma solo l’opera che è proprio quella cosa, una cosa come uno sguardo. Andrea vive questa compresenza di stati: lui è l’occhio che osserva la tela e calibra, ed è l’occhio a cui la tela non basta mai, perché non c’è più superficie se non quella del globo – oculare, terrestre – che si dispiega come un tappeto liscio e grinzoso, e lo sguardo diviene oggettuale, come se le cose guardassero sé stesse, e quest’occhio vagabondo diventa qualcosa, non una fotocamera o una cinepresa, perché se c’è movimento, e movimento c’è e come, non c’è un filmare qualcosa, ma come un qualcosa che si filma, e registra, registra ancora. E così Andrea si è cartografato sul globo di questo occhio terrestre che non è più il suo ma che in qualche modo gli appartiene. Compresenza, ubiquità, il confronto con la tela, che è ancora vuota ed è già piena, i due occhi che la osservano, o che guardano le migliaia di immagini archiviate in digitale, o le foto sparse sul pavimento, e le altre milioni di immagini depositate da qualche parte nella memoria, e poi gli occhi, quell’altro milione di occhi – che poi uno è - che viaggia sulla materia e nello spazio - che pure ha una sua consistenza, un suo corpo - e quelle foto, e quei riferimenti, causano deviazioni, incidenti (automobilistici), nuove perlustrazioni, tentativi, e tutta la santa storia dell’arte, santa Maria della storia dell’arte, che proietta le sue immagini sullo schermo sensibile di questo occhio traslucido e vibrante, e che imprime la sua autorità su questa lastra, che è una mano, che è un occhio, e che tocca e che vede e che registra. E se si è ciechi, talvolta, è per- ché quest’occhio è troppo veloce per poterlo seguire, per poterne avere memoria, ed è un occhio ma è tutto il corpo, e soprattutto non è umano, è inumano, è una cosa, è una cosa come uno sguardo. Ripetiamolo: non è solo Bosch, non è solo come innestare un trombone nel culo di una scimmia, o ficcare un teleobiet- tivo nell’occhio di un cineamatore... l’occhio di Ledoux, l’occhio di Redon, che almeno si fa un giretto in mongolfiera. «L’occhio, che per convenzione rappresenta il soggetto, è dunque liberato dalle connessioni con il corpo, vaga sventrato e senza meta [...]. Con la dispersione dell’occhio si perde ogni pretesa di casa, di luogo recuperabile e spazi ricostruibili. Al suo posto, un soggetto “virtuale”, senza corpo e onnisciente, abita questi luoghi abbandonati che sembrano essere stati assemblati non molto tempo fa con i frammenti di precedenti spazi non virtuali, ma che ora sono sospesi su una rete non-dimensionale, in mezzo a pezzi di molte altre “home page” una volta attive.» Gli occhi del pittore sulla tela, l’occhio disincarnato e senza soggetto, la tela fissa al muro o disposta sul tavolo da lavoro, la tela/membrana dell’occhio cartografato e globale che è una mano e che tocca le cose, ma che è a sua volta toccato dalle cose, e così registra, e il pittore-disegnatore (l’artista) vive di queste compresenze, fra un precipizio ed il bucato, fra un’estasi e l’odore del caffè, che è già uno spalancamento, seppur troppo facile. Non si tratta, però, di passare da un mondo ad un altro, ma di essere in entrambi i luoghi contemporaneamente, come Keaton-Bene, di «essere di qua e di là della macchina da presa. Keaton è di là della macchina quando interpreta, come interprete è come se fosse di qua. In questo senso è un 9, un 25, un 400, è un tele, un fisheye, è un grand’angolo umano. [...] Welles e Olivier si spostano appunto come se fossero altri attori, come se dirigessero altri, solo che lo fanno loro. Tutto qui. Ma non cambia nulla: non c’è dialettica, non c’è oggettività. Che cosa manca loro? Non essendo dei grandangoli come Keaton, mancano di obiettivo, cioè mancano di oggettività». Registrare, quindi, che non significa dare forma. La registrazione è fatta da una telecamera, da un microfono, da un sismografo. Ancora parentele con gli apparecchi elettronici, ma ancora una volta: non come ibrido cronenberghiano, non come mo- stro fantascientifico, o almeno non solo (queste cose ci sono: non si tratta di vederle, ma di vedere come vedono loro). Si tratta piuttosto di una nuova “visione” basata su processo e movimento, che non sono solo quelli di occhio e corpo, ma anche quelli tipici delle dinamiche delle macchine. Eppure risultano talvolta così malinconiche le opere di Andrea, con le loro atmosfere ancora domestiche, i suoi sfumati, gli accenni mitici. E sembrano centrate talvolta su uno sguardo ancora così umano, proprio nei termini del tradizionale punto di vista dell’osservatore. Talvolta si ha l’impressione di vivere una scena in soggettiva, quasi come se stessimo dentro un quadro di aeropittura futurista, collocati in un abitacolo volante che è, ancora una volta, un occhio, ora aerodinamico, nell’atto di precipitare. C’è la città che sale in certe opere, il furore futurista ancora tutto moderno, ancora troppo d’avanguardia, ancora troppo storico, fatto di velocità, luci, distorsioni espressioniste, esterni e interni che sono ancora quelli del Dottor Caligari, ma anche scenari distopici, poi apocalittici. Ma, anche in questo caso, Andrea non si accontenta di vedere la scena, di vedere la scena con i suoi due occhi, ma di quella scena vuole cogliere l’evento, la caduta. Domanda in- concepibile: si può, attraverso un’opera in ogni caso finita e stabile, accogliere un evento? Si può attraverso ciò che avrà in ogni caso una forma, cogliere l’immediata mutevolezza della vita? Non diremo se c’è riuscito Andrea, eppure la via da lui seguita è ancora quella di una compresenza: osservare la scena e al contempo stare al cuore di essa, essere occhio che osserva e occhio che precipita, come vedersi vivere, in quei momenti in cui siamo sul punto di osservarci dall’esterno. Si genera una vertigine, un sistema di forze che ci restituiscono l’emozione di una caduta, un abbandono vissuto però dal punto stesso del nostro ancoramento al suolo, all’occhio, al corpo, come una sensazione di libertà assoluta provata dall’interno di una prigione ineliminabile. L’occhio che dal suo cavalletto si sente mancare la terra sotto ai piedi. L’incidente,
lo schianto automobilistico, come abitacolo-occhio, abitacolo-orbita, che è visto e che vede, collasso di carne e ferro, confusione fra interno ed esterno. È commovente, ed è come accedere a un’altra vita che non è un’altra, non è l’invenzione di un mondo che non c’è, ma è la vita stessa che dorme in questa, che aspetta di sprigionarsi come se potessimo avere improvvisamente ogni cosa a portata di mano, come se potessimo sentire la nostra mano afferrare un bicchiere, come se potes- simo essere d’un tratto felici. Ed è così che un aspetto è necessario all’altro, questa compre- senza, e non sarebbe lo stesso se si tentasse di disegnare solo l’immanenza dell’atto senza la rappresentazione di un’azione. Compresenza dell’organico con l’inorganico, dell’essere con il non-essere, di un movimento nomadico orizzontale e del precipizio verticale, di percorsi in superficie e di continue cadute in abissi. Compresenza ancora di una passione angelica con una catastrofe imminente, di una speranza dorata e quasi calda con una grigia distopia, di una ricchezza turca, orientaleggiante, con la scarnificazione più atroce, senza riuscire più a distinguere il battito del cuore dal ticchettio di un orologio, una chiusura di palpebre dal diaframma di un obiettivo, il letto fluviale di un’iride dall’estensione di un paesaggio corrugato, un mazzo di fiori da un’incrostazio- ne minerale, la spuma di un mare da un acido corrosivo. E che esperienza meravigliosa, direi divertente, quando con tocchi quasi didascalici, Andrea vuole illustrarci i suoi intensi viaggi, ingenuamente: una lente d’ingrandimento, il cerchio di luce di una lampada puntata su un dettaglio, un quasi esploso assonometrico del contenuto di uno schermo. Oppure quando con sezioni, diagrammi, teoremi, frammenti di materie viste al microscopio, cerca di fornirci delle prove scientificamente valide, come se bastasse sezionare un occhio per trovarci dentro la follia di uno sguardo, come se questo sguardo stupefatto nascesse in seno a qualche malattia del bulbo oculare. È quasi un folle iperrealismo il suo, non nel senso di una riproduzione dettagliatissima del reale, ma in quanto volontà di restituire in vitro un campione di tutte le forze e di tutte le sensazioni relative a un determinato stato, che è null’altro che reale. Mappe scientifiche, cortocircuiti emotivi, campionari di segni come attinti da una storia dell’arte ingoiata e vomitata sulla carta talvolta molto attentamente, a capo chino, con religioso rispetto, talvolta con gesti violenti e istintivi, sempre osservando i maestri e frustrandosi della propria incapacità, e rintracciando più forza in un solo angolino di Bramantino o di Bacon che in cinquanta disegni partoriti col disagio di chi fallisce sempre. Perché in fin dei conti quello che fa Andrea è molto facile, si tratta di fallire, lungo la più difficile delle strade, che è allo stesso tempo la più facile, per chi, come Andrea, è riuscito nell’impresa di diventare cretino, ma senza fare il furbo, nell’inutilità di essere difficili, ma nel tentativo di essere impossibili. Il fallimento è insito in questa modalità che deve costantemente essere in movimento ma che non può mai raggiungere nulla, in cui non esistono opere ma solo momenti di uno stesso interminabile processo, e si fallisce perché non si può che essere inca- paci, incapaci e disperati, e meravigliarsi del miracolo di un nuovo inaspettato evento, di cui non si è artefici ma solo testimoni. E il fallimento è anche il nostro: proprio quando il sogno di raggiungere il desiderio ci sembra possibile esso si trasforma nel desiderio frustrato di non poterlo raggiungere mai, ma di poterlo magari solo catturare, osservare, sezionare, fino alla prossima stupefazione, fino al prossimo evento, fino alla fine di questo testo perché pure deve finire, questo testo.
19
maggio 2022
Andrea Bolognino – I giganti
Dal 19 maggio al 20 giugno 2022
arte contemporanea
Location
ACAPPELLA
Napoli, Via Cappella Vecchia, 8, (Napoli)
Napoli, Via Cappella Vecchia, 8, (Napoli)
Orario di apertura
da mertedi a venerdi dalle 16:30 alle 19:30
Vernissage
19 Maggio 2022, dalle ore 19:00
Sito web
Editore
Rivista Acappella
Ufficio stampa
Luciana Berti
Autore
Autore testo critico
Progetto grafico