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Andrea Piacquadio
Nella fotografia pittorica di Piacquadio, parla Caravaggio con la luce drammatica di taglio teatrale ma i modelli più vicini sono Jan Saudek ed Helmut Newton, o i grandi fotografi di moda
Comunicato stampa
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Dalla moda alla pubblicità, dal giornalismo al cinema, le forme della fotografia si intrecciano e si condizionano reciprocamente ed è talvolta difficile stabilire il confine tra gli artisti che operano con il mezzo fotografico, i puri fotografi di reportage e coloro che lavorano in un ready made di sensazioni ed elementi molteplici.
Come ha dimostrato anche l’ultima Biennale di Venezia, la narrazione del vissuto erompe prepotente con un’urgenza dolorosa e insieme lirica, quasi si volesse – artisti e spettatori – lasciare e trovare traccia di una vita che sembra sfuggire veloce. La quotidianità vede dunque riconosciute le sue possibilità estetiche ed espressive e così la fotografia, soprattutto, si è fatta più intimista: narra di piccoli interni, di quotidianità appunto, narra le vite, le storie. Basta pensare a Clegg e Guttmann, basta pensare a Nan Goldin.
L’artista che sceglie di dedicarsi al ritratto coglie il sentimento totalizzante della rappresentazione dell’uomo, ma le foto di Piacquadio sono in fondo forme di un autoritratto sparso in mille tessere di mosaico, accomunate da uno ‘stile’ specifico e da elementi di riconoscibilità che è proprio del lavoro di un artista: così, al di là dei personaggi narrati e delle loro storie, quella che emerge più forte è la voce di chi guarda e narra la vita degli altri.
Nate dall’occasione di comporre un mirabile libro d’arte, “Le Firme” (Nuova Editrice Magenta, ottobre 2005), le fotografie in mostra sono opere ‘in sé’, che vivono di vita propria. Ritratto come sintesi di un infinito narrare. Ritratto come analisi di un momento che specchia la totalità di un’esistenza spesa a credere nella propria arte, nella propria voce. Ognuno dei volti narrati porta con sé un altrove, cercando la pace attraverso la forma d’arte che ha scelto di percorrere. Qui ognuno “è” la sua arte, ma è significativo che Piacquadio parli del libro come ‘collezione” di ritratti: una collezione è prima di tutto del collezionista ed è frutto della sua passione e del suo desiderio.
Piacquadio sa muoversi nei sentimenti e nelle sfumature dell’anima, sa riconoscere la bellezza, ricreandola dove è nascosta; sa penetrare la profondità dello spirito di una persona che ha visto per la prima volta, di cui in fondo non sapeva niente, scoprendo il mistero che vive dietro lo sguardo. Le persone diventano personaggi, e potresti inventarne la storia solo guardando un istante della loro vita rubata dal cuore del fotografo saggio che sa catturarne l’essenza, il segreto, la loro parte migliore.
Scegliendo di cogliere i soggetti nel loro ambiente, nel luogo che più li rappresenta, Piacquadio compie un percorso di conoscenza in bilico tra realtà e immaginazione, nel confine tra ciò che il soggetto ritratto desidera mostrare di sé e ciò che l’occhio dell’artista sa cogliere oltre il reale possibile. La realtà di Piacquadio non è mai artefatta ma è potenziata, esaltata da scelte di posa e colore che mutuano il linguaggio da altre arti, che qui fuse insieme ricreano un’atmosfera di teatralità: il disegno e il cinema, prime grandi passioni del giovane Piacquadio, la pittura, la scenografia. Colori e forme, volumi e ritmi rimandano a una rappresentazione barocca dell’esistenza, generata da forti contrasti di ombra e luce, da sottolineature ardite che, proprio nel momento in cui sembrano urlare il dolore, lo risolvono in un’espressione di silenzio dolce.
Una foto dovrebbe essere per sua natura oggettiva, eppure questa collezione di ritratti dimostra quanto possa essere soggettiva e quanto in fondo tutte le immagini si assomiglino, perché figlie degli stessi occhi. Non c’è un progetto iniziale che determina le scelte: è la situazione che guida e conduce, di volta in volta, quando Piacquadio entra in case che non aveva mai visto e incontra facce che non conosceva: la messa in scena è costruita con un’intuizione e qui si evidenzia la vigorosa negazione del valore dell’istantanea, qui si evidenzia la differenza col fotografo ‘puro’. Piacquadio lavora con una sorta di avvicinamento progressivo, accumula pose diverse, procede per tentativi poi, quando capisce l’attimo mortale di perfezione che parla e spiega, è veloce nel vedere all’improvviso cosa vuole e insiste su quella posa, su quella inquadratura e colleziona immagini che poi studierà, grandi e silenti, nel momento solitario in cui specchierà il suo sguardo nello schermo del computer.
Se ‘fotografia’ significa scrittura della luce, Piacquadio, che ama il digitale e legge il buio, sceglie di usare solo le luci naturali e ottiene una luce che attraversa accarezza descrive, illumina sottolineando le ombre e scalda, scava e regala la verità. Una verità che non è mai spietata anche quando fissa i segni del tempo, le macchie sulla pelle, le rughe, gli occhi stanchi, pieni di tutto.
Ci troviamo di fronte ad una fotografia narrativa che ha un forte legame col cinema, come si può vedere dai tagli, dai contrasti, dall’uso del colore. Il colore soprattutto caratterizza il lavoro di Piacquadio che, accentuando la saturazione, rende la foto più espressiva. Il colore è realizzato col computer, il grande occhio finale che offre alle sue mani una tavolozza infinita e la possibilità di provare, cambiare sperimentare. È un colore cercato per coerenza, assonanza o contrasto, ma più spesso per consonanza. Finché si realizza il risultato finale, che lo sguardo dell’artista riconosce.
Nella fotografia pittorica di Piacquadio, parla Caravaggio con la luce drammatica di taglio teatrale ma i modelli più vicini sono Jan Saudek ed Helmut Newton, o i grandi fotografi di moda, come Steven Maisel (Vogue) o Snowdon o le suggestioni del cinema raffinato di Kubrick: modelli che gli consentono di ‘scrivere la luce che ha visto’ come dimostrano le fotografie in mostra che fissano la bellezza pura con l’imperferzione e il limite, nella grandezza della gioia e della sofferenza, della solitudine, della fatica espressiva di chi scrive compone o crea. Di chi cerca il suo altrove e lo affida, fiducioso, alle mani gentili di chi saprà tradurre in colore il dolore.
Andrea Piacquadio (1978) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Milano e si è perfezionato presso il Dipartimento di Fotografia dell’ Université Paris8. Ha collaborato come assistente con vari ritrattisti e fotografi di moda di fama internazionale, fra cui Aldo Fallai e Fredi Marcarini. Ha lavorato con alcuni quotidiani, tra cui “Il Giorno” e “La Prealpina”. Ha realizzato servizi con agenzie, editoriali e campagne pubblicitarie in Francia, Bulgaria, Ungheria, Olanda, Spagna e Usa.
In Italia ha pubblicato su riviste di moda, attualità e turismo come “Elle”, “Creare”, “Ciclismo” e “Prove aperte”.
Come ha dimostrato anche l’ultima Biennale di Venezia, la narrazione del vissuto erompe prepotente con un’urgenza dolorosa e insieme lirica, quasi si volesse – artisti e spettatori – lasciare e trovare traccia di una vita che sembra sfuggire veloce. La quotidianità vede dunque riconosciute le sue possibilità estetiche ed espressive e così la fotografia, soprattutto, si è fatta più intimista: narra di piccoli interni, di quotidianità appunto, narra le vite, le storie. Basta pensare a Clegg e Guttmann, basta pensare a Nan Goldin.
L’artista che sceglie di dedicarsi al ritratto coglie il sentimento totalizzante della rappresentazione dell’uomo, ma le foto di Piacquadio sono in fondo forme di un autoritratto sparso in mille tessere di mosaico, accomunate da uno ‘stile’ specifico e da elementi di riconoscibilità che è proprio del lavoro di un artista: così, al di là dei personaggi narrati e delle loro storie, quella che emerge più forte è la voce di chi guarda e narra la vita degli altri.
Nate dall’occasione di comporre un mirabile libro d’arte, “Le Firme” (Nuova Editrice Magenta, ottobre 2005), le fotografie in mostra sono opere ‘in sé’, che vivono di vita propria. Ritratto come sintesi di un infinito narrare. Ritratto come analisi di un momento che specchia la totalità di un’esistenza spesa a credere nella propria arte, nella propria voce. Ognuno dei volti narrati porta con sé un altrove, cercando la pace attraverso la forma d’arte che ha scelto di percorrere. Qui ognuno “è” la sua arte, ma è significativo che Piacquadio parli del libro come ‘collezione” di ritratti: una collezione è prima di tutto del collezionista ed è frutto della sua passione e del suo desiderio.
Piacquadio sa muoversi nei sentimenti e nelle sfumature dell’anima, sa riconoscere la bellezza, ricreandola dove è nascosta; sa penetrare la profondità dello spirito di una persona che ha visto per la prima volta, di cui in fondo non sapeva niente, scoprendo il mistero che vive dietro lo sguardo. Le persone diventano personaggi, e potresti inventarne la storia solo guardando un istante della loro vita rubata dal cuore del fotografo saggio che sa catturarne l’essenza, il segreto, la loro parte migliore.
Scegliendo di cogliere i soggetti nel loro ambiente, nel luogo che più li rappresenta, Piacquadio compie un percorso di conoscenza in bilico tra realtà e immaginazione, nel confine tra ciò che il soggetto ritratto desidera mostrare di sé e ciò che l’occhio dell’artista sa cogliere oltre il reale possibile. La realtà di Piacquadio non è mai artefatta ma è potenziata, esaltata da scelte di posa e colore che mutuano il linguaggio da altre arti, che qui fuse insieme ricreano un’atmosfera di teatralità: il disegno e il cinema, prime grandi passioni del giovane Piacquadio, la pittura, la scenografia. Colori e forme, volumi e ritmi rimandano a una rappresentazione barocca dell’esistenza, generata da forti contrasti di ombra e luce, da sottolineature ardite che, proprio nel momento in cui sembrano urlare il dolore, lo risolvono in un’espressione di silenzio dolce.
Una foto dovrebbe essere per sua natura oggettiva, eppure questa collezione di ritratti dimostra quanto possa essere soggettiva e quanto in fondo tutte le immagini si assomiglino, perché figlie degli stessi occhi. Non c’è un progetto iniziale che determina le scelte: è la situazione che guida e conduce, di volta in volta, quando Piacquadio entra in case che non aveva mai visto e incontra facce che non conosceva: la messa in scena è costruita con un’intuizione e qui si evidenzia la vigorosa negazione del valore dell’istantanea, qui si evidenzia la differenza col fotografo ‘puro’. Piacquadio lavora con una sorta di avvicinamento progressivo, accumula pose diverse, procede per tentativi poi, quando capisce l’attimo mortale di perfezione che parla e spiega, è veloce nel vedere all’improvviso cosa vuole e insiste su quella posa, su quella inquadratura e colleziona immagini che poi studierà, grandi e silenti, nel momento solitario in cui specchierà il suo sguardo nello schermo del computer.
Se ‘fotografia’ significa scrittura della luce, Piacquadio, che ama il digitale e legge il buio, sceglie di usare solo le luci naturali e ottiene una luce che attraversa accarezza descrive, illumina sottolineando le ombre e scalda, scava e regala la verità. Una verità che non è mai spietata anche quando fissa i segni del tempo, le macchie sulla pelle, le rughe, gli occhi stanchi, pieni di tutto.
Ci troviamo di fronte ad una fotografia narrativa che ha un forte legame col cinema, come si può vedere dai tagli, dai contrasti, dall’uso del colore. Il colore soprattutto caratterizza il lavoro di Piacquadio che, accentuando la saturazione, rende la foto più espressiva. Il colore è realizzato col computer, il grande occhio finale che offre alle sue mani una tavolozza infinita e la possibilità di provare, cambiare sperimentare. È un colore cercato per coerenza, assonanza o contrasto, ma più spesso per consonanza. Finché si realizza il risultato finale, che lo sguardo dell’artista riconosce.
Nella fotografia pittorica di Piacquadio, parla Caravaggio con la luce drammatica di taglio teatrale ma i modelli più vicini sono Jan Saudek ed Helmut Newton, o i grandi fotografi di moda, come Steven Maisel (Vogue) o Snowdon o le suggestioni del cinema raffinato di Kubrick: modelli che gli consentono di ‘scrivere la luce che ha visto’ come dimostrano le fotografie in mostra che fissano la bellezza pura con l’imperferzione e il limite, nella grandezza della gioia e della sofferenza, della solitudine, della fatica espressiva di chi scrive compone o crea. Di chi cerca il suo altrove e lo affida, fiducioso, alle mani gentili di chi saprà tradurre in colore il dolore.
Andrea Piacquadio (1978) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Milano e si è perfezionato presso il Dipartimento di Fotografia dell’ Université Paris8. Ha collaborato come assistente con vari ritrattisti e fotografi di moda di fama internazionale, fra cui Aldo Fallai e Fredi Marcarini. Ha lavorato con alcuni quotidiani, tra cui “Il Giorno” e “La Prealpina”. Ha realizzato servizi con agenzie, editoriali e campagne pubblicitarie in Francia, Bulgaria, Ungheria, Olanda, Spagna e Usa.
In Italia ha pubblicato su riviste di moda, attualità e turismo come “Elle”, “Creare”, “Ciclismo” e “Prove aperte”.
03
dicembre 2005
Andrea Piacquadio
Dal 03 al 10 dicembre 2005
fotografia
giovane arte
giovane arte
Location
DUETART GALLERY
Varese, Via Albuzzi, 27, (Varese)
Varese, Via Albuzzi, 27, (Varese)
Vernissage
3 Dicembre 2005, ore 19
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