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Aniconofobia (i personaggeschi)
Forse non è casuale che sia proprio la scelta di un linguaggio figurativo a tenere fortemente unito un gruppo di artisti che, dell’iconismo, ha fatto assillo della mente e osservatorio privilegiato nel proprio operare.
Comunicato stampa
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Forse non è casuale che sia proprio la scelta di un linguaggio figurativo a tenere fortemente unito un gruppo di artisti che, dell’iconismo, ha fatto assillo della mente e osservatorio privilegiato nel proprio operare. Una sorta di legame sotteso corre tra gli affiliati di una condizione estetica che l’horror vacui incatena a una figurazione satura, che rimbalza da un registro irriverente e beffardo ad uno agro e crudele o, viceversa, ludico e ironico. In un tempo in cui le immagini sovrastano e fagocitano qualsiasi altra espressione si assiste a un fenomeno quanto meno singolare: la paura di assenza di figure, della mancanza di forma, di scomparsa della rappresentazione, del vuoto che equivale al nulla. Una fobia, come dire, controcorrente, elitaria, e forse anche provocatoria. Ma che paura può essere la paura di un’assenza se di questa assenza non c’è traccia nella realtà che ci circonda? Da cosa nasce questa fobia e come si incanala nel lavoro degli artisti in mostra? Partiamo dal titolo della collettiva che, come è facile intuire, è termine che non esiste nella lingua italiana. E’stato creato per questo incontro, in maniera un po’ spregiudicata, audace e forse anche improvvida ma legittimamente inteso a dire qualcosa che se non esiste nel vocabolario varrà la pena inventarlo e dargli vita. Senza voler essere insistentemente didascalica bisognerà ricordare che se l’aniconismo è divieto di rappresentazioni figurali, la fobia che ne discende è una paura plausibile e ora codificata da una definizione che aspetta a buon diritto il plauso dell’Accademia della Crusca.
Se il titolo è solo un indizio si può supporre che dagli artisti in mostra non ci si potrà aspettare niente di certo, di riconoscibile, di consuetudinario e niente, ovviamente, che non richieda un’attenzione quantomeno allertata. A dominare la scena, infatti, un’iconografia decisamente ansiosa se non inquietante, anche laddove l’innocente apparenza del soggetto lo liquiderebbe come il trastullo di un’estetica gradevole e un po’ bislacca, anche lì niente è come sembra. Il codice visivo condiviso dagli artisti viaggia, a ben guardare, su due binari paralleli: da una parte la forma come ricerca di un mondo rovesciato rispetto ad una realtà esautorata e svilente, dall’altra l’immaginario come affermazione di un’identità in cerca di approdo, magari fragile e precario, ma pur sempre prolungamento dell’io, quello più celato e fors’anche indicibile. Vale a dire che la visionarietà che sostiene questi lavori nasce da una discesa nelle profondità della coscienza da cui riemerge con un prontuario di sopravvivenza che la mano febbrile traduce in un dettato lucido quanto virtuoso fino ad essere enigmatico (Manunta), talvolta crudele e insistentemente ambiguo (Danilo Sini), e persino disturbante nella carica espressiva che comporta (Deliperi). La densità di senso che portano con sé non si attenua neanche nelle sequenze giocose e ipnotiche di un reiterato bestiario domestico (Nieddu), o nel segno lirico entro cui si muovono figurine ironicamente addestrate che evocano mitografie immaginarie (Sassu), o contemporanee mappe antropomorfe, eleganti e stilizzate come miniature di medievale ispirazione (Spanu). Un immaginario che fa leva su una condizione dell’arte intesa come recupero di un’età perduta (ma non del tutto) e riaffiorata nel segno che inventa una grammatica di forme impossibili, di creature primordiali (Urgeghe), di essere animati da cui si sprigiona una vita differente e forse più sopportabile (sempre Urgeghe ma anche Sassu). E’ lo stato dell’arte che consente l’accesso all’alterità, al pensare per icone che evocano situazioni-limite dove cose, presenze, animali si incastrano in puzzle da luna park di periferia (Camboni), o si strutturano in quadretti esasperatamente barocchi di un quotidiano deformato dove i gechi sembrano draghi e le madonne veggenti che sputano inascoltate sentenze (Giulia Sini). Se la ragione si incrina irrimediabilmente davanti all’allucinata visionarietà dei lavori proposti non bisogna perdersi d’animo, di ragionevolezze ne son piene le fosse, quello che manca, sembra suggerire questa mostra, è la possibilità di pensare altrimenti, non di fuggire la realtà sia chiaro, semmai trovare altre vie d’indagine, altre esistenze, libere da raggelanti condizionamenti. Magari passando per le allegorie che coniugano sacro e profano (Danilo Sini), oppure attraverso la visione persino poetica di rotoli di pulcini che come macchie dorate insistono su fogli simili a pergamene gotiche (Nieddu), o nell’evocazione di spiriti benevoli come curiosi diavoletti umanizzati e pur sempre apotropaici (Sassu), come l’amicogeco-drago che sputa fuoco (si fa per dire, ammette Giulia Sini) e ha una pagina su Facebook. O, ancora, nelle eleganti ibridazioni medievali mutate in alberi di foglie ritratti simili agli emoticon e destinati a svanire dal gesso sulle lavagne (Spanu). E poi nella ambiguità percettiva di una impeccabile pittura che strania natura e umanità (Manunta e pure Camboni), quella umanità che vede i nuovi martiri nelle facce dolenti e irriverenti di presenze sospese nel vuoto del quotidiano (Deliperi). Alla labilità del presente, non c’è dubbio, l’atto del disegno oppone il valore di un tempo dilatato in cui prende vita l’immagine: in verità un gioco, ma talmente serio e autentico da rinnovare ogni volta “il gesto con cui la natura genera le forme” (Tagliagambe).
Mariolina Cosseddu
Se il titolo è solo un indizio si può supporre che dagli artisti in mostra non ci si potrà aspettare niente di certo, di riconoscibile, di consuetudinario e niente, ovviamente, che non richieda un’attenzione quantomeno allertata. A dominare la scena, infatti, un’iconografia decisamente ansiosa se non inquietante, anche laddove l’innocente apparenza del soggetto lo liquiderebbe come il trastullo di un’estetica gradevole e un po’ bislacca, anche lì niente è come sembra. Il codice visivo condiviso dagli artisti viaggia, a ben guardare, su due binari paralleli: da una parte la forma come ricerca di un mondo rovesciato rispetto ad una realtà esautorata e svilente, dall’altra l’immaginario come affermazione di un’identità in cerca di approdo, magari fragile e precario, ma pur sempre prolungamento dell’io, quello più celato e fors’anche indicibile. Vale a dire che la visionarietà che sostiene questi lavori nasce da una discesa nelle profondità della coscienza da cui riemerge con un prontuario di sopravvivenza che la mano febbrile traduce in un dettato lucido quanto virtuoso fino ad essere enigmatico (Manunta), talvolta crudele e insistentemente ambiguo (Danilo Sini), e persino disturbante nella carica espressiva che comporta (Deliperi). La densità di senso che portano con sé non si attenua neanche nelle sequenze giocose e ipnotiche di un reiterato bestiario domestico (Nieddu), o nel segno lirico entro cui si muovono figurine ironicamente addestrate che evocano mitografie immaginarie (Sassu), o contemporanee mappe antropomorfe, eleganti e stilizzate come miniature di medievale ispirazione (Spanu). Un immaginario che fa leva su una condizione dell’arte intesa come recupero di un’età perduta (ma non del tutto) e riaffiorata nel segno che inventa una grammatica di forme impossibili, di creature primordiali (Urgeghe), di essere animati da cui si sprigiona una vita differente e forse più sopportabile (sempre Urgeghe ma anche Sassu). E’ lo stato dell’arte che consente l’accesso all’alterità, al pensare per icone che evocano situazioni-limite dove cose, presenze, animali si incastrano in puzzle da luna park di periferia (Camboni), o si strutturano in quadretti esasperatamente barocchi di un quotidiano deformato dove i gechi sembrano draghi e le madonne veggenti che sputano inascoltate sentenze (Giulia Sini). Se la ragione si incrina irrimediabilmente davanti all’allucinata visionarietà dei lavori proposti non bisogna perdersi d’animo, di ragionevolezze ne son piene le fosse, quello che manca, sembra suggerire questa mostra, è la possibilità di pensare altrimenti, non di fuggire la realtà sia chiaro, semmai trovare altre vie d’indagine, altre esistenze, libere da raggelanti condizionamenti. Magari passando per le allegorie che coniugano sacro e profano (Danilo Sini), oppure attraverso la visione persino poetica di rotoli di pulcini che come macchie dorate insistono su fogli simili a pergamene gotiche (Nieddu), o nell’evocazione di spiriti benevoli come curiosi diavoletti umanizzati e pur sempre apotropaici (Sassu), come l’amicogeco-drago che sputa fuoco (si fa per dire, ammette Giulia Sini) e ha una pagina su Facebook. O, ancora, nelle eleganti ibridazioni medievali mutate in alberi di foglie ritratti simili agli emoticon e destinati a svanire dal gesso sulle lavagne (Spanu). E poi nella ambiguità percettiva di una impeccabile pittura che strania natura e umanità (Manunta e pure Camboni), quella umanità che vede i nuovi martiri nelle facce dolenti e irriverenti di presenze sospese nel vuoto del quotidiano (Deliperi). Alla labilità del presente, non c’è dubbio, l’atto del disegno oppone il valore di un tempo dilatato in cui prende vita l’immagine: in verità un gioco, ma talmente serio e autentico da rinnovare ogni volta “il gesto con cui la natura genera le forme” (Tagliagambe).
Mariolina Cosseddu
13
aprile 2019
Aniconofobia (i personaggeschi)
Dal 13 al 27 aprile 2019
arte contemporanea
Location
BONAIRE CONTEMPORANEA
Alghero, Via Principe Umberto, 39, (Sassari)
Alghero, Via Principe Umberto, 39, (Sassari)
Orario di apertura
da venerdì a domenica ore 18-20
Vernissage
13 Aprile 2019, ore 18.30
Autore