Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Ann Veronica Janssens
La stagione espositiva dello Studio G7 prosegue con la prima mostra personale a Bologna dell’artista belga Ann Veronica Janssens. Il progetto, a cura di Chiara Bertola, è in collaborazione con Galleria Alfonso Artiaco, Napoli.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Sperimentare l’inafferrabile
Chiara Bertola
L’opera di Ann Veronica Janssens, artista inglese residente in Belgio, rientra all’interno di quelle ricerche estetiche emerse nell’ambito del gruppo californiano “Light & Space” a partire dalla metà degli anni ’60. Stiamo parlando delle sperimentazioni realizzate dai pionieri della light art, come James Turrell, Robert Irwin, DeWain Valentine, Larry Bell, Maria Nordman. Incentrate sulla psicologia della percezione, tali ricerche utilizzavano materiali semplici e industriali come vetro, polvere fluorescenti (glitter), luci al neon, gelatine luminose, vapori, e comportavano un’intensa relazione con l’architettura. Lo spazio era strutturato per creare un ambiente immersivo, al fine di avvolgere e destabilizzare lo spettatore.
Ad Ann Veronica Janssens è sufficiente gettare a terra della semplice polvere scintillante, saturare lo spazio di fitta nebbia, posizionare sul pavimento degli specchi o, ancora, giocare con ipnotici aloni luminosi, creare mutevoli effetti di luce-ombra, trasparenze ingannevoli, suoni perduti, per disintegrare le certezze percettive dei suoi spettatori. L’artista sa che nella dimensione percettiva nulla è immutabile; sa che nei nostri occhi e attraverso i nostri sensi tutto si trasforma, cambia e si capovolge al punto da portare il soggetto a trasformarsi in un corpo incerto, instabile, confuso, quel tanto che è necessario per fargli avvertire la propria vulnerabilità. “Utilizzo la luce – dichiara l’artista – perché s’insinui all’interno della materia e dell’architettura, per poter suscitare un’esperienza percettiva che metta in movimento questa materialità dissolvendone le resistenze”.
Per Art City 2020 a Bologna, Ann Veronica Janssens, con la discrezione che caratterizza da sempre la sua opera, utilizza di nuovo lo stratagemma dello specchio che dispone, come un occhio estraneo, sul pavimento della Cappella dei Carcerati in Palazzo Re Enzo. L’esperimento è lo stesso che l’artista aveva proposto nella Cappella Sansevero di Napoli nel 2014, e prima ancora a Venezia, durante la Biennale del 1999, quando nei dodici specchi poggiati a pavimento nella Scuola di San Rocco aveva fatto “vedere” come se fosse la prima volta gli affreschi di Tintoretto. A Bologna l’alchimia è diversa, perché diverse sono le componenti chimiche della pittura e quelle concettuali dell’intervento. I tre specchi circolari mettono sottosopra l’opera pittorica di un artista minimalista: David Tremlett, che nel 2003 aveva interamente dipinto la cappella con l’obiettivo di espandere e coniugare il piccolo ambiente in un ideale paesaggio. Gli specchi riflettono e frantumano l’opera di Tremlett che già prendeva in considerazione l’idea di espandere quello stesso spazio indicandoci d’immaginarlo al di fuori, oltre. Il rispecchiamento aiuta l’opera di Tremlett a valicare i muri, a dilatarsi. E lo fa introducendo un occhio nuovo, estraneo e innocente.
Lo specchio non moltiplica l’opera come aveva fatto con l’affresco a San Severo e a San Rocco, bensì la dilata, la continua, la mette di nuovo in moto attraverso una forza incredibilmente vitale. Il dispositivo specchiante porta lo spettatore ad assumere un nuovo punto di vista rivelatore: gli specchi sul pavimento sono come occhi che insegnano a guardare di nuovo, con maggiore libertà. Ognuno di quegli specchi è come un aratro che rigira la zolla di terra riportandola alla luce, dandole aria e freschezza. Ecco la funzione dello specchio, l’espediente che permette all’artista di far entrare nello spazio dell’opera il paesaggio esterno cui allude Tremlett nella sua decorazione.
Gli specchi sono però anche oggetti “intrusi” che introdotti in uno spazio preesistente ne scompaginano gli equilibri, facendo emergere nuove configurazioni di senso: un concetto importante per Ann Veronica secondo la quale l’estraneità è anche e soprattutto una possibilità di trasformazione. L’intervento che propone esiste soltanto nella relazione con lo sguardo di chi lo incontra; si riempie e si nutre dell’altro: ciò che è estraneo lo rimette in moto dandogli ancora più forza: «Cerco una soluzione per spostare i muri un po’ più in là», dichiara Ann Veronica Janssens. Gli specchi consentono di uscire dalla claustrofobia della cappella, instaurano una relazione tra esterno e interno: un rapporto non determinato, fluido, circolare, che le due opere, potenziate e unite insieme, mettono in scena in un gioco potenzialmente infinito.
Per definire l’opera di Ann Veronica Janssens si deve riconoscere il concetto di “immaterialità” da diversi punti di vista e accoglierlo come centro vitale e creativo attorno al quale la sua opera si manifesta, ogni volta come impronta, traccia, ombra, luce, nebbia, trasparenza…
Una traiettoria che non porta banalmente alla scomparsa dell’opera ma piuttosto ad affermare un’opera la cui dematerializzazione favorisce il “disvelamento dell’invisibile”. Perchè questa scomparsa e riduzione possa avvenire, è stato necessario all’artista togliere, diminuire, polverizzare, cancellare (penso al pulviscolo dei glitter, alla trasparenza della luce, al raddoppiamento dello specchio, allo spaesamento della nebbia…); in altre parole, destabilizzare i valori percettivi ai quali siamo abituati e lasciare che altre cose possano rivelarsi.
L’artista preferisce attraversare il quotidiano come un flâneur, dandosi la possibilità di notare i dettagli e le cose che altrimenti non vedrebbe. È la serendipity di cui è credente: le inattese scoperte, la lezione e l’intuizione che arriva là dove non l’avresti mai spinta o immaginata, la percezione del caos. Rapportato alla sua ricerca, questo comportamento significa riabilitare qualcosa di non previsto e di non controllabile, qualcosa che porta fuori misura, ridisegnando i rapporti con il visibile, con la luce, con il buio e con l’ascolto; qualcosa che riesce a ridefinire le esperienze percettive il rapporto allo spazio e al tempo. Così i riflessi della luce sulle rotaie del tram diventano minimali sculture, e quello che accade tra due liquidi come l’aceto e l’olio nella vinegrette diventa la liquida e illusoria trasparenza della serie “Aquarium” (2010-17). Ann Veronica Janssens sperimenta così l’instabilità del reale e l’impossibilità di definire con certezza e in modo definitivo il mondo che ci circonda.
La sua scultura può essere intesa anche come un gesto molto semplice, che cambia ogni volta in relazione allo spazio e ai corpi che l’attraversano e la vivono. Era semplice e infinito il gesto che aveva determinato l’opera alla Punta della Dogana di Venezia – quella manciata di glitter luminescente gettato a terra – ed è ancora semplice e potente l’installazione pensata oggi per la mostra alla Galleria G7. Nel piccolo ma articolato spazio della storica galleria, la luce, materia principale di molti suoi lavori, è l’unica protagonista. Si tratta di due proiezioni colorate, corpi di luce senza corpo, indeterminati e definiti allo stesso tempo, che sembrano oscillare, muoversi sulla superficie della parete, secondo il movimento delle persone nello spazio.
“Nei miei lavori – dichiara l’artista – la luce si insinua nella materia e nell’architettura e ne destabilizza la resistenza che finisce col dissolversi lasciando spazio a nuove percezioni visive […]. Mi interesso a ciò che mi sfugge, non per fermarlo nella sua fuga, ma al contrario per sperimentare l’inafferrabile“.I due fasci di luce colorata sono infuocati, così potenti da irradiare e avvolgere nel colore l’intero spazio che si trasfigura e, di fatto, si rivela, diventando esso stesso il soggetto. Di nuovo, l’elemento agente – in questo caso la luce – s’insinua come un virus e come un intruso, un estraneo, in grado di alterare e manomettere tutti i valori percettivi. Sono sculture effimere la cui azione è proprio quella di disperdersi per “infiltrarsi in uno spazio anziché imporsi su di esso”.
Spazializzazione e dispersione di luce, radiazione di colore, impulsi strobo, nebbie artificiali, superfici riflettenti o diafane… sono tutti mezzi che l’artista utilizza per rivelare l’instabilità della nostra percezione spazio temporale. Sceglie i materiali con proprietà precise – luminosità, trasparenza, fluidità, rifrazione – e si affida a precisi fenomeni fisici – trasmissione, riflessione, rifrazione, equilibrio – che vengono messi in discussione fino a far vacillare la stessa nozione di materialità.
È anche vero, però, che la sua opera riesce al tempo stesso a offrirci una nuova percezione della matericità delle cose e dello spazio. È capace ad avvicinarci all’alone degli oggetti, alla periferia della loro consistenza, per regalarcene finalmente un’esperienza personale e intima.
C’è in questa discrezione dell’essere e dell’apparire dell’opera un aspetto etico o quello che la Janssens in un’intervista chiama «aspetto ecologico». È quel togliere che arriva all’essenza, quell’esperienza del poco, quel viaggiare leggero con un’opera che riesce ad apparire e sparire in un momento, ma lasciando un segno. Si tratta forse anche di una strategia che allontana dalle odierne seduzioni abbaglianti del reale, a sostegno di un’idea estetica che abbaglia in modo differente: privata di uno “sguardo riflesso” l’opera di Janssens riflette invece qualcosa di più profondo.
Attraversando il terreno impercettibile e immateriale delle sue opere, le ombre e i riflessi diventano protagonisti e l’inosservato finalmente comincia a esistere. Nei luoghi prodotti dalla dimensione immateriale si riesce a percepire e a far risuonare il silenzio: è l’eco di un altrove, dove trovare quel rifugio che ognuno di noi cerca.
La galleria è ora uno spazio inondato di luce apparentemente senza limiti. La percezione del tempo si trasforma, c’è una sospensione. Tutte le geometrie sono state affievolite e risultano quasi scomparse. Come suggerisce l’artista, “la luce illumina il nulla che potrebbe autorizzare il nostro vagare […] si sperimenta una sorta di amnesia” e, finalmente, “ci si rivolge al proprio spazio interno aprendosi a prospettive inedite”.
Chiara Bertola
L’opera di Ann Veronica Janssens, artista inglese residente in Belgio, rientra all’interno di quelle ricerche estetiche emerse nell’ambito del gruppo californiano “Light & Space” a partire dalla metà degli anni ’60. Stiamo parlando delle sperimentazioni realizzate dai pionieri della light art, come James Turrell, Robert Irwin, DeWain Valentine, Larry Bell, Maria Nordman. Incentrate sulla psicologia della percezione, tali ricerche utilizzavano materiali semplici e industriali come vetro, polvere fluorescenti (glitter), luci al neon, gelatine luminose, vapori, e comportavano un’intensa relazione con l’architettura. Lo spazio era strutturato per creare un ambiente immersivo, al fine di avvolgere e destabilizzare lo spettatore.
Ad Ann Veronica Janssens è sufficiente gettare a terra della semplice polvere scintillante, saturare lo spazio di fitta nebbia, posizionare sul pavimento degli specchi o, ancora, giocare con ipnotici aloni luminosi, creare mutevoli effetti di luce-ombra, trasparenze ingannevoli, suoni perduti, per disintegrare le certezze percettive dei suoi spettatori. L’artista sa che nella dimensione percettiva nulla è immutabile; sa che nei nostri occhi e attraverso i nostri sensi tutto si trasforma, cambia e si capovolge al punto da portare il soggetto a trasformarsi in un corpo incerto, instabile, confuso, quel tanto che è necessario per fargli avvertire la propria vulnerabilità. “Utilizzo la luce – dichiara l’artista – perché s’insinui all’interno della materia e dell’architettura, per poter suscitare un’esperienza percettiva che metta in movimento questa materialità dissolvendone le resistenze”.
Per Art City 2020 a Bologna, Ann Veronica Janssens, con la discrezione che caratterizza da sempre la sua opera, utilizza di nuovo lo stratagemma dello specchio che dispone, come un occhio estraneo, sul pavimento della Cappella dei Carcerati in Palazzo Re Enzo. L’esperimento è lo stesso che l’artista aveva proposto nella Cappella Sansevero di Napoli nel 2014, e prima ancora a Venezia, durante la Biennale del 1999, quando nei dodici specchi poggiati a pavimento nella Scuola di San Rocco aveva fatto “vedere” come se fosse la prima volta gli affreschi di Tintoretto. A Bologna l’alchimia è diversa, perché diverse sono le componenti chimiche della pittura e quelle concettuali dell’intervento. I tre specchi circolari mettono sottosopra l’opera pittorica di un artista minimalista: David Tremlett, che nel 2003 aveva interamente dipinto la cappella con l’obiettivo di espandere e coniugare il piccolo ambiente in un ideale paesaggio. Gli specchi riflettono e frantumano l’opera di Tremlett che già prendeva in considerazione l’idea di espandere quello stesso spazio indicandoci d’immaginarlo al di fuori, oltre. Il rispecchiamento aiuta l’opera di Tremlett a valicare i muri, a dilatarsi. E lo fa introducendo un occhio nuovo, estraneo e innocente.
Lo specchio non moltiplica l’opera come aveva fatto con l’affresco a San Severo e a San Rocco, bensì la dilata, la continua, la mette di nuovo in moto attraverso una forza incredibilmente vitale. Il dispositivo specchiante porta lo spettatore ad assumere un nuovo punto di vista rivelatore: gli specchi sul pavimento sono come occhi che insegnano a guardare di nuovo, con maggiore libertà. Ognuno di quegli specchi è come un aratro che rigira la zolla di terra riportandola alla luce, dandole aria e freschezza. Ecco la funzione dello specchio, l’espediente che permette all’artista di far entrare nello spazio dell’opera il paesaggio esterno cui allude Tremlett nella sua decorazione.
Gli specchi sono però anche oggetti “intrusi” che introdotti in uno spazio preesistente ne scompaginano gli equilibri, facendo emergere nuove configurazioni di senso: un concetto importante per Ann Veronica secondo la quale l’estraneità è anche e soprattutto una possibilità di trasformazione. L’intervento che propone esiste soltanto nella relazione con lo sguardo di chi lo incontra; si riempie e si nutre dell’altro: ciò che è estraneo lo rimette in moto dandogli ancora più forza: «Cerco una soluzione per spostare i muri un po’ più in là», dichiara Ann Veronica Janssens. Gli specchi consentono di uscire dalla claustrofobia della cappella, instaurano una relazione tra esterno e interno: un rapporto non determinato, fluido, circolare, che le due opere, potenziate e unite insieme, mettono in scena in un gioco potenzialmente infinito.
Per definire l’opera di Ann Veronica Janssens si deve riconoscere il concetto di “immaterialità” da diversi punti di vista e accoglierlo come centro vitale e creativo attorno al quale la sua opera si manifesta, ogni volta come impronta, traccia, ombra, luce, nebbia, trasparenza…
Una traiettoria che non porta banalmente alla scomparsa dell’opera ma piuttosto ad affermare un’opera la cui dematerializzazione favorisce il “disvelamento dell’invisibile”. Perchè questa scomparsa e riduzione possa avvenire, è stato necessario all’artista togliere, diminuire, polverizzare, cancellare (penso al pulviscolo dei glitter, alla trasparenza della luce, al raddoppiamento dello specchio, allo spaesamento della nebbia…); in altre parole, destabilizzare i valori percettivi ai quali siamo abituati e lasciare che altre cose possano rivelarsi.
L’artista preferisce attraversare il quotidiano come un flâneur, dandosi la possibilità di notare i dettagli e le cose che altrimenti non vedrebbe. È la serendipity di cui è credente: le inattese scoperte, la lezione e l’intuizione che arriva là dove non l’avresti mai spinta o immaginata, la percezione del caos. Rapportato alla sua ricerca, questo comportamento significa riabilitare qualcosa di non previsto e di non controllabile, qualcosa che porta fuori misura, ridisegnando i rapporti con il visibile, con la luce, con il buio e con l’ascolto; qualcosa che riesce a ridefinire le esperienze percettive il rapporto allo spazio e al tempo. Così i riflessi della luce sulle rotaie del tram diventano minimali sculture, e quello che accade tra due liquidi come l’aceto e l’olio nella vinegrette diventa la liquida e illusoria trasparenza della serie “Aquarium” (2010-17). Ann Veronica Janssens sperimenta così l’instabilità del reale e l’impossibilità di definire con certezza e in modo definitivo il mondo che ci circonda.
La sua scultura può essere intesa anche come un gesto molto semplice, che cambia ogni volta in relazione allo spazio e ai corpi che l’attraversano e la vivono. Era semplice e infinito il gesto che aveva determinato l’opera alla Punta della Dogana di Venezia – quella manciata di glitter luminescente gettato a terra – ed è ancora semplice e potente l’installazione pensata oggi per la mostra alla Galleria G7. Nel piccolo ma articolato spazio della storica galleria, la luce, materia principale di molti suoi lavori, è l’unica protagonista. Si tratta di due proiezioni colorate, corpi di luce senza corpo, indeterminati e definiti allo stesso tempo, che sembrano oscillare, muoversi sulla superficie della parete, secondo il movimento delle persone nello spazio.
“Nei miei lavori – dichiara l’artista – la luce si insinua nella materia e nell’architettura e ne destabilizza la resistenza che finisce col dissolversi lasciando spazio a nuove percezioni visive […]. Mi interesso a ciò che mi sfugge, non per fermarlo nella sua fuga, ma al contrario per sperimentare l’inafferrabile“.I due fasci di luce colorata sono infuocati, così potenti da irradiare e avvolgere nel colore l’intero spazio che si trasfigura e, di fatto, si rivela, diventando esso stesso il soggetto. Di nuovo, l’elemento agente – in questo caso la luce – s’insinua come un virus e come un intruso, un estraneo, in grado di alterare e manomettere tutti i valori percettivi. Sono sculture effimere la cui azione è proprio quella di disperdersi per “infiltrarsi in uno spazio anziché imporsi su di esso”.
Spazializzazione e dispersione di luce, radiazione di colore, impulsi strobo, nebbie artificiali, superfici riflettenti o diafane… sono tutti mezzi che l’artista utilizza per rivelare l’instabilità della nostra percezione spazio temporale. Sceglie i materiali con proprietà precise – luminosità, trasparenza, fluidità, rifrazione – e si affida a precisi fenomeni fisici – trasmissione, riflessione, rifrazione, equilibrio – che vengono messi in discussione fino a far vacillare la stessa nozione di materialità.
È anche vero, però, che la sua opera riesce al tempo stesso a offrirci una nuova percezione della matericità delle cose e dello spazio. È capace ad avvicinarci all’alone degli oggetti, alla periferia della loro consistenza, per regalarcene finalmente un’esperienza personale e intima.
C’è in questa discrezione dell’essere e dell’apparire dell’opera un aspetto etico o quello che la Janssens in un’intervista chiama «aspetto ecologico». È quel togliere che arriva all’essenza, quell’esperienza del poco, quel viaggiare leggero con un’opera che riesce ad apparire e sparire in un momento, ma lasciando un segno. Si tratta forse anche di una strategia che allontana dalle odierne seduzioni abbaglianti del reale, a sostegno di un’idea estetica che abbaglia in modo differente: privata di uno “sguardo riflesso” l’opera di Janssens riflette invece qualcosa di più profondo.
Attraversando il terreno impercettibile e immateriale delle sue opere, le ombre e i riflessi diventano protagonisti e l’inosservato finalmente comincia a esistere. Nei luoghi prodotti dalla dimensione immateriale si riesce a percepire e a far risuonare il silenzio: è l’eco di un altrove, dove trovare quel rifugio che ognuno di noi cerca.
La galleria è ora uno spazio inondato di luce apparentemente senza limiti. La percezione del tempo si trasforma, c’è una sospensione. Tutte le geometrie sono state affievolite e risultano quasi scomparse. Come suggerisce l’artista, “la luce illumina il nulla che potrebbe autorizzare il nostro vagare […] si sperimenta una sorta di amnesia” e, finalmente, “ci si rivolge al proprio spazio interno aprendosi a prospettive inedite”.
25
gennaio 2020
Ann Veronica Janssens
Dal 25 gennaio al 23 maggio 2020
arte contemporanea
Location
GALLERIA STUDIO G7
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 15.30 - 19.30.
Lunedì e festivi per appuntamento
Sito web
Autore
Curatore
Autore testo critico