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Annamaria Targher – Art – ness
La trasposizione del piacere provato dal creatore del manufatto artistico al fruitore: un tentativo, o una riuscita comunione empatica, che diventa un percorso iniziatico che si srotola tra le sale di un ameno luogo di soggiorno
Comunicato stampa
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Art – ness fa il verso a quegli inglesismi, entrati prepotentemente nella nostra lingua, che sempre veicolano concetti strettamente legati a qualcosa di potenzialmente buono e positivo, se fruito. Art – ness è anche la trasposizione del piacere provato dal creatore del manufatto artistico al fruitore: un tentativo o una riuscita comunione empatica che diventa percorso iniziatico che si srotola tra le sale di un ameno luogo di soggiorno.
Con questa esposizione Annamaria Targher sembra indagare il nesso tra le strutture preposte a determinate azioni e la capacità d’interpretazione delle stesse da parte dell’arte, se non (più in generale) l’interesse normale e ascritto dell’arte per la vita dell’uomo, il suo svolgimento, i ritmi: veri e propri rituali.
Contatto dell’arte con la vita reale e presunzione, attraverso l’arte stessa, di rendere migliore la nostra percezione del mondo: come la domotica riesce a supportare la nostra qualità della vita, tramite una dinamica intelligente e tecnologica con gli ambienti antropizzati, così l’arte, nel suo complesso, supera un atteggiamento tradizionale per immettersi in un sistema inglobante, innovatico, il cui unico obiettivo è la ricerca di relazione - condivisione con l’essere umano.
Così la hall, luogo di transito per eccellenza, viene potenziata nel suo significato dall’esposizione di Processione che riesce a veicolare l’idea del movimento sia nel contenuto che nella pratica reiteata dello stencil, sia nello smembramento (che procede da sinistra verso destra) della grande tela ad olio (a cui ci ha abituato l’artista) in sineddoche linguistiche più piccole, ma parimenti complete. Compimento di un percorso serrato o intonazione di una danza, Processione è un avvenimento al femminile: all’impostazione volumetrica, l’artista ha fatto seguire come una deflagrazione segnica motivata dalla volontà di sottolineare l’importanza della presenza di un moto perpetuo che è, assieme, ineffabilità dell’essere, suo smaterializzarsi.
La connotazione paesaggistica, rimanda alla montagna: forse, un’esigenza di contestualizzazione che avvicina il rituale a taluno folklore locale, come in un’indagine antropologica a tutto tondo.
Un estratto della serie Cafetìn Halal è presente nella sala adibita alla prima colazione. Vero e proprio resoconto di una periodo di permanenza dell’artista nella città di Córdoba possiede però la sospensione temporale di un’esperienza reale che è stata sottoposta ad un’ammenda intimistica, ad un’appropriazione personale che distribuisce personaggi e situazioni in una maniera talmente autonoma, da renderla universale. Vero e proprio rifugio per l’artista che trova nel rituale del the pomeridiano lo spazio di frequentazione di un luogo così profondamente caratterizzato da essere movimentato da un turismo cosmopolita, il cafetìn è per l’artista il luogo di conciliazione con una città che fatica a identificarsi con le sue magnifiche dinamiche culturali. I soggetti ritratti sembrano coincidere (nelle emozioni, nel molle abbandono) con l’occhio disincantato dell’interlocutrice che proietta nelle sagome e nel segno insistito (indispensabile nel registrare il complesso delle linee arabeggianti) la gioia della condivisione di uno spazio comune in cui le tensioni della città sembrano venir sopite.
In sala da pranzo troneggia Ragazzo che si volta mentre mangia: un’indagine profonda circa i meccanismi dell’attesa e che prelude prepotentemente alla serie di lavori Io che aspetto Giovanni. Il ragazzo è soggetto all’ansia e al turbamento dell’aspettativa che è anche percezione del pericolo per l’inatteso. La critica dell’artista è pesante e non lascia spazio ad attenuanti: l’uomo involve in animale e sulla cruda espressione attonita, la Targher cuce, in rilievo, il benessere e la vuotezza degli spazi intimi e personali che vorremmo riuscissero a preservarci dalle contaminazioni. Supremo omaggio alla pietanza, il piatto straripa di stoffa fino a farsi scultura.
In Io che aspetto Giovanni la resa della materia pittorica sminuzzata dall’impiego del pastello grasso traspone il nervosismo per un attesa che ricurva chi attende sul tavolo, rende frenetica la sua seduta (tanto da rendere precaria la sedia), fa cadere pericolosamente il candelabro. I colori terrosi della vicenda si accumulano su un fondale cyan, sempre uguale a se stesso e completamente straniante. Pare chiaro come l’autrice, attraverso queste due lavori, operi un’ esorcizzazione catartica, di alcuni momenti di convivialità che, a momenti, possono comportare degli intralci, degli imbarazzi.
In Io che aspetto Giovanni II invece, l’autrice si concentra maggiormente sulla gioia dell’attesa e sugli orpelli che l’accompagnano. Nell’esaltazione della figura che si protrae in avanti con una mano rossa ed enorme (il cui timbro carico è reso anche dal collage di oggetti aventi quello stesso colore e in cui pomodori e peperoni lanciati sono un corollario dell’esuberanza), è incarnata tutto il piacere per la cordialità dell’incontro. La tela è un ricettacolo di reperti dove non c’è soluzione di continuità tra il personaggio (di cui degli ipotetici raggi x mettono in rilievo i biscotti già ingollati) e il suo contesto dove il collage riporta, secondo un gusto sovraccarico e pop (rasente il kitsch), i ninnoli di cui è fatta la nostra sfera quotidiana che possono assurgere a status: la lampada, i fiori, fino a far capolino anelli di bracciali, etc.
Se la psichiatra statunitense Kay Redfield Jamison in un testo del ’93, Touched with Fire, rileva i cambiamenti di umore, cognitivi, comportamentali (tutti positivi) riportati durante episodi creativi intensi, la mostra potrebbe essere, potenzialmente, un variegato dono del vissuto dell’artista agli ospiti della struttura concentrati sul miglioramento del proprio stato.
Con questa esposizione Annamaria Targher sembra indagare il nesso tra le strutture preposte a determinate azioni e la capacità d’interpretazione delle stesse da parte dell’arte, se non (più in generale) l’interesse normale e ascritto dell’arte per la vita dell’uomo, il suo svolgimento, i ritmi: veri e propri rituali.
Contatto dell’arte con la vita reale e presunzione, attraverso l’arte stessa, di rendere migliore la nostra percezione del mondo: come la domotica riesce a supportare la nostra qualità della vita, tramite una dinamica intelligente e tecnologica con gli ambienti antropizzati, così l’arte, nel suo complesso, supera un atteggiamento tradizionale per immettersi in un sistema inglobante, innovatico, il cui unico obiettivo è la ricerca di relazione - condivisione con l’essere umano.
Così la hall, luogo di transito per eccellenza, viene potenziata nel suo significato dall’esposizione di Processione che riesce a veicolare l’idea del movimento sia nel contenuto che nella pratica reiteata dello stencil, sia nello smembramento (che procede da sinistra verso destra) della grande tela ad olio (a cui ci ha abituato l’artista) in sineddoche linguistiche più piccole, ma parimenti complete. Compimento di un percorso serrato o intonazione di una danza, Processione è un avvenimento al femminile: all’impostazione volumetrica, l’artista ha fatto seguire come una deflagrazione segnica motivata dalla volontà di sottolineare l’importanza della presenza di un moto perpetuo che è, assieme, ineffabilità dell’essere, suo smaterializzarsi.
La connotazione paesaggistica, rimanda alla montagna: forse, un’esigenza di contestualizzazione che avvicina il rituale a taluno folklore locale, come in un’indagine antropologica a tutto tondo.
Un estratto della serie Cafetìn Halal è presente nella sala adibita alla prima colazione. Vero e proprio resoconto di una periodo di permanenza dell’artista nella città di Córdoba possiede però la sospensione temporale di un’esperienza reale che è stata sottoposta ad un’ammenda intimistica, ad un’appropriazione personale che distribuisce personaggi e situazioni in una maniera talmente autonoma, da renderla universale. Vero e proprio rifugio per l’artista che trova nel rituale del the pomeridiano lo spazio di frequentazione di un luogo così profondamente caratterizzato da essere movimentato da un turismo cosmopolita, il cafetìn è per l’artista il luogo di conciliazione con una città che fatica a identificarsi con le sue magnifiche dinamiche culturali. I soggetti ritratti sembrano coincidere (nelle emozioni, nel molle abbandono) con l’occhio disincantato dell’interlocutrice che proietta nelle sagome e nel segno insistito (indispensabile nel registrare il complesso delle linee arabeggianti) la gioia della condivisione di uno spazio comune in cui le tensioni della città sembrano venir sopite.
In sala da pranzo troneggia Ragazzo che si volta mentre mangia: un’indagine profonda circa i meccanismi dell’attesa e che prelude prepotentemente alla serie di lavori Io che aspetto Giovanni. Il ragazzo è soggetto all’ansia e al turbamento dell’aspettativa che è anche percezione del pericolo per l’inatteso. La critica dell’artista è pesante e non lascia spazio ad attenuanti: l’uomo involve in animale e sulla cruda espressione attonita, la Targher cuce, in rilievo, il benessere e la vuotezza degli spazi intimi e personali che vorremmo riuscissero a preservarci dalle contaminazioni. Supremo omaggio alla pietanza, il piatto straripa di stoffa fino a farsi scultura.
In Io che aspetto Giovanni la resa della materia pittorica sminuzzata dall’impiego del pastello grasso traspone il nervosismo per un attesa che ricurva chi attende sul tavolo, rende frenetica la sua seduta (tanto da rendere precaria la sedia), fa cadere pericolosamente il candelabro. I colori terrosi della vicenda si accumulano su un fondale cyan, sempre uguale a se stesso e completamente straniante. Pare chiaro come l’autrice, attraverso queste due lavori, operi un’ esorcizzazione catartica, di alcuni momenti di convivialità che, a momenti, possono comportare degli intralci, degli imbarazzi.
In Io che aspetto Giovanni II invece, l’autrice si concentra maggiormente sulla gioia dell’attesa e sugli orpelli che l’accompagnano. Nell’esaltazione della figura che si protrae in avanti con una mano rossa ed enorme (il cui timbro carico è reso anche dal collage di oggetti aventi quello stesso colore e in cui pomodori e peperoni lanciati sono un corollario dell’esuberanza), è incarnata tutto il piacere per la cordialità dell’incontro. La tela è un ricettacolo di reperti dove non c’è soluzione di continuità tra il personaggio (di cui degli ipotetici raggi x mettono in rilievo i biscotti già ingollati) e il suo contesto dove il collage riporta, secondo un gusto sovraccarico e pop (rasente il kitsch), i ninnoli di cui è fatta la nostra sfera quotidiana che possono assurgere a status: la lampada, i fiori, fino a far capolino anelli di bracciali, etc.
Se la psichiatra statunitense Kay Redfield Jamison in un testo del ’93, Touched with Fire, rileva i cambiamenti di umore, cognitivi, comportamentali (tutti positivi) riportati durante episodi creativi intensi, la mostra potrebbe essere, potenzialmente, un variegato dono del vissuto dell’artista agli ospiti della struttura concentrati sul miglioramento del proprio stato.
26
maggio 2010
Annamaria Targher – Art – ness
Dal 26 maggio 2010 al 16 gennaio 2011
arte contemporanea
Location
GRAND HOTEL TERME
Terme di comano, Località Terme di Comano, (Trento)
Terme di comano, Località Terme di Comano, (Trento)
Orario di apertura
tutti i giorni dalle 15.00 alle 19.00
Vernissage
26 Maggio 2010, ore 19
Sito web
www.annamariatargher.it
Autore
Curatore