Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Antonio Violetta – Ed è ancora Utopia
La Galleria Clivio inaugura nella propria sede milanese la seconda mostra personale dedicata ad Antonio Violetta. Con questa mostra la Galleria mira ad approfondire l’evoluzione del rapporto tra l’Artista e la materia.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Ogni artista vive di una sua mitologia, di date e opere feticcio.
Nella fortuna critica di Antonio Violetta - e non si può usare un altro termine vista la felice
qualità dei testi che hanno accompagnato le sue ricerche - le date cardine dei suoi “inizi”
sono sempre state: Utopia, del 1976 e la partecipazione a documenta Kassel, nel 1982.
Un 1982 che è stato la porta per molte altre variegate situazioni, fino a quel 1986 in cui
espone sia alla Biennale di Venezia che alla Quadriennale di Roma. Il resto è storia non
ancora abbastanza nota, nel senso che molto deve essere compreso e valutato del suo
percorso, ma comunque conosciuta.
Questa mostra si propone di ribaltare le poche certezze giunte fino a noi. Non perché
manchino autorevoli testi critici sul suo percorso, anzi come si diceva capita raramente di
avere a che fare con una bibliografia di tale spessore e qualità. Bisogna però fare “un passo
indietro” per meglio comprendere, e posizionare criticamente, l’attività dell’artista.
Oppure, per citare una parola a lui molto cara, il suo “luogo” all’interno della storia
dell’arte italiana. La sua vicinanza con l’Arte Povera - era d’altra parte stato lo stesso Celant
a invitarlo a Kassel - si costituisce su una similarità di vocabolario, prima ancora che di
intenti.
Partiamo dal famoso Utopia del 1976, per esempio. Nello stesso anno Germano Celant
pubblica per la prima volta Precronistoria, 1966-69 1 , fondamentale strumento attraverso il
quale situare l’Arte Povera in un contesto internazionale con simili tendenze e
inquietudini, ma anche definitivo segno di distacco dalla “guerriglia” da lui sostenuta sulle
pagine di Flash Art (nel 1967). Se la guerriglia utopica nel 1976 era già stata rivista al fine
di un ripensamento storicistico, attenzione allora a non cedere alla tentazione di
politicizzare- in uno schiacciamento dato dalla distanza - il titolo di Utopia. Leggere questo
lavoro in quella chiave ci porterebbe non solo a perdere il senso di un’opera, ma
rischierebbe di compromettere la lettura del lavoro di Violetta per un lungo corso di
tempo. Utopia è un’apertura impossibile, ma meglio ancora letteralmente, un luogo
impossibile. Ecco il senso di quella “piega” del muro: dispiegare, muovere, liberare lo
spazio. Aprire un movimento verso un luogo che non può esistere, o meglio verso un luogo
dove è impossibile essere se non con l’arte.
Ritornare all’etimologia della parola “utopia” non è un vezzo, ma un passaggio necessario
per comprendere dove fosse Violetta in quel 1976, ma ancora meglio da dove arrivava. Le
carte catramate, esposte in questa occasione dopo un silenzio che le accompagna dagli anni
Settanta, ci permettono di comprendere quel suo “svolgersi”: l’aprirsi del foglio che non
diventa Pagina (mi si permetta qui il gioco di parole tra la pagina fisica e le note Pagine
che popoleranno il mondo di Antonio Violetta negli anni successivi al 1984). Le carte
catramate devono all’arte povera non il sogno utopico, ma l’apertura verso nuovi materiali,
il rifiuto delle loro gerarchie. Lo svolgimento è un muoversi dentro e fuori la materia,
dentro e fuori l’umiltà della carta catramata, appunto. Due fogli incollati dal catrame
interno che una volta scaldati possono fare uscire tracce di colore (e proprio la “traccia”
sarà non a caso l’ossessione plastica della sua ricerca), possono aprirsi, piegarsi, svolgersi.
C’è in queste carte il senso di molta ricerca che verrà. C’è in questo svolgimento molto del
dispiegarsi della materia, del suo essere momento. Scriveva infatti Cortenova in occasione
della loro prima presentazione nel 1976.
La superficie come un libro da aprire, muro da sfogliare, membrana da leggere e
allora il tempo e lo spazio dell’ambiente come operatività all’interno dei suoi
diaframmi, sfogliatura dei perimetri, analisi della verticalità 2 .
Le carte aprono verso un oltre, che è niente e tutto al tempo stesso. Il nero che arriva a
fermare per sempre il gesto attraverso il calore, lo scaldare il foglio. Che poi sarà il fuoco
che ferma il gesto sulla terra, il nero della grafite che cancella ed esalta le ombre dei suoi
torsi.
Tutto sta nel Movimento (altro termine ricorrente nei titoli di Violetta), nel gesto
dell’artista che apre verso un luogo che esiste solo nell’arte. Ecco dunque Luogo (del 1977),
in cui il nero del foro assorbe lo spazio del muro, stravolge la sua materia facendo
emergere ciò che ne è all’interno, anticipando così Luoghi veloci (del 1978) e Luogo
d’aurora (pensato nel 1983 e realizzato nel 1987) in cui il centro del cubo segna la sua forza
verso l’esterno nel momento dell’esplosione Teca (sempre del 1976) è un altro
fondamentale precedente di Luogo d’aurora, nel suo essere cubo che si mostra al suo
interno, luogo impossibile, un dispiegarsi di Utopia (sempre del 1976) oltre la superficie
della parete.
Il gioco avviato dalle carte segna la sperimentazione su carta lucida (qui in una foto in cui
la sagoma dell’artista si sovrappone al disegno creando una spazialità ulteriormente
esistenziale), un sommarsi di livelli e profondità che aprono ad una dimensione plastica
che sfora la bidimensione. È stato Sproccati, descrivendo l’attività iniziale di Violetta, a
scrivere: Il disegno, apparentemente così lontano dalla scultura, gioca in questa prima fase
dell’opera di Violetta un ruolo di grande rilievo. […] Il disegno acquista corpo, si
esplica in volume, raggiunge lo spessore attraverso l’approfondimento persistente e
progressivo sul “solco”: il che vuol dire per mezzo del suo farsi scavo, apertura,
divaricazione.
Su questa “divaricazione” si muovono anche i disegni in mostra, in un continuo procedere
e svolgersi del tratto che diventa segno, corpo.
Un corpo che diventa plastico attraverso la
distruzione del colore: il bianco diventa azzeramento che cede il passo all’ombra, alla
piega, alla crespa. Un colore negato che si ritroverà in pochi anni nell’antirombo, nella
grafite. Interrotto solo da interventi epifanici di materiali illuminanti (e non colori) come il
chiaramitis o la luce che interverrà più tardi a disgregare e sospendere le pagine. Siamo
così arrivati ai Momenti di pietra presentati a Kassel nel 1982. Qui Violetta scrive una
poesia nella quale leggiamo:
Il cielo si scolora
momenti e pietre
geometrie.
Difficile dire se il cielo scolorato fosse quello tedesco o la scultura Cieli del 1982. Certo è
che la scultura interviene a placare l’inquietudine, il cielo e l’uomo, o per citare un brano
dell’Uomo in rivolta di Camus:
La maggiore e più ambiziosa delle arti, la scultura, si accanisce a fissare nelle tre
dimensioni il volto sfuggente dell’uomo. A ricondurre il disordine dei gesti all’unità
del grande stile. La scultura non respinge la somiglianza, di cui al contrario ha
bisogno, ma non la ricerca per prima. Quello che cerca nelle sue grandi epoche è il
gesto, l’atteggiamento, lo sguardo vuoto che riassumeranno tutti i gesti e tutti gli
sguardi del mondo. Non è il suo assunto imitare, ma stilizzare e imprigionare in
un’espressione significativa il passeggero fuggire dei corpi o il vorticare infinito
degli atteggiamenti. Soltanto allora erige sul frontone delle città tumultuose il
modulo, il tipo, l’immobile perfezione che per un momento placherà l’incessante
febbre degli uomini 4 .
La febbre degli uomini diventa quindi piega, svolgersi, aprirsi.
Entriamo in un spazio dove la materia trionfa oltre la superficie.
A cura di Irene Biolchini
Nella fortuna critica di Antonio Violetta - e non si può usare un altro termine vista la felice
qualità dei testi che hanno accompagnato le sue ricerche - le date cardine dei suoi “inizi”
sono sempre state: Utopia, del 1976 e la partecipazione a documenta Kassel, nel 1982.
Un 1982 che è stato la porta per molte altre variegate situazioni, fino a quel 1986 in cui
espone sia alla Biennale di Venezia che alla Quadriennale di Roma. Il resto è storia non
ancora abbastanza nota, nel senso che molto deve essere compreso e valutato del suo
percorso, ma comunque conosciuta.
Questa mostra si propone di ribaltare le poche certezze giunte fino a noi. Non perché
manchino autorevoli testi critici sul suo percorso, anzi come si diceva capita raramente di
avere a che fare con una bibliografia di tale spessore e qualità. Bisogna però fare “un passo
indietro” per meglio comprendere, e posizionare criticamente, l’attività dell’artista.
Oppure, per citare una parola a lui molto cara, il suo “luogo” all’interno della storia
dell’arte italiana. La sua vicinanza con l’Arte Povera - era d’altra parte stato lo stesso Celant
a invitarlo a Kassel - si costituisce su una similarità di vocabolario, prima ancora che di
intenti.
Partiamo dal famoso Utopia del 1976, per esempio. Nello stesso anno Germano Celant
pubblica per la prima volta Precronistoria, 1966-69 1 , fondamentale strumento attraverso il
quale situare l’Arte Povera in un contesto internazionale con simili tendenze e
inquietudini, ma anche definitivo segno di distacco dalla “guerriglia” da lui sostenuta sulle
pagine di Flash Art (nel 1967). Se la guerriglia utopica nel 1976 era già stata rivista al fine
di un ripensamento storicistico, attenzione allora a non cedere alla tentazione di
politicizzare- in uno schiacciamento dato dalla distanza - il titolo di Utopia. Leggere questo
lavoro in quella chiave ci porterebbe non solo a perdere il senso di un’opera, ma
rischierebbe di compromettere la lettura del lavoro di Violetta per un lungo corso di
tempo. Utopia è un’apertura impossibile, ma meglio ancora letteralmente, un luogo
impossibile. Ecco il senso di quella “piega” del muro: dispiegare, muovere, liberare lo
spazio. Aprire un movimento verso un luogo che non può esistere, o meglio verso un luogo
dove è impossibile essere se non con l’arte.
Ritornare all’etimologia della parola “utopia” non è un vezzo, ma un passaggio necessario
per comprendere dove fosse Violetta in quel 1976, ma ancora meglio da dove arrivava. Le
carte catramate, esposte in questa occasione dopo un silenzio che le accompagna dagli anni
Settanta, ci permettono di comprendere quel suo “svolgersi”: l’aprirsi del foglio che non
diventa Pagina (mi si permetta qui il gioco di parole tra la pagina fisica e le note Pagine
che popoleranno il mondo di Antonio Violetta negli anni successivi al 1984). Le carte
catramate devono all’arte povera non il sogno utopico, ma l’apertura verso nuovi materiali,
il rifiuto delle loro gerarchie. Lo svolgimento è un muoversi dentro e fuori la materia,
dentro e fuori l’umiltà della carta catramata, appunto. Due fogli incollati dal catrame
interno che una volta scaldati possono fare uscire tracce di colore (e proprio la “traccia”
sarà non a caso l’ossessione plastica della sua ricerca), possono aprirsi, piegarsi, svolgersi.
C’è in queste carte il senso di molta ricerca che verrà. C’è in questo svolgimento molto del
dispiegarsi della materia, del suo essere momento. Scriveva infatti Cortenova in occasione
della loro prima presentazione nel 1976.
La superficie come un libro da aprire, muro da sfogliare, membrana da leggere e
allora il tempo e lo spazio dell’ambiente come operatività all’interno dei suoi
diaframmi, sfogliatura dei perimetri, analisi della verticalità 2 .
Le carte aprono verso un oltre, che è niente e tutto al tempo stesso. Il nero che arriva a
fermare per sempre il gesto attraverso il calore, lo scaldare il foglio. Che poi sarà il fuoco
che ferma il gesto sulla terra, il nero della grafite che cancella ed esalta le ombre dei suoi
torsi.
Tutto sta nel Movimento (altro termine ricorrente nei titoli di Violetta), nel gesto
dell’artista che apre verso un luogo che esiste solo nell’arte. Ecco dunque Luogo (del 1977),
in cui il nero del foro assorbe lo spazio del muro, stravolge la sua materia facendo
emergere ciò che ne è all’interno, anticipando così Luoghi veloci (del 1978) e Luogo
d’aurora (pensato nel 1983 e realizzato nel 1987) in cui il centro del cubo segna la sua forza
verso l’esterno nel momento dell’esplosione Teca (sempre del 1976) è un altro
fondamentale precedente di Luogo d’aurora, nel suo essere cubo che si mostra al suo
interno, luogo impossibile, un dispiegarsi di Utopia (sempre del 1976) oltre la superficie
della parete.
Il gioco avviato dalle carte segna la sperimentazione su carta lucida (qui in una foto in cui
la sagoma dell’artista si sovrappone al disegno creando una spazialità ulteriormente
esistenziale), un sommarsi di livelli e profondità che aprono ad una dimensione plastica
che sfora la bidimensione. È stato Sproccati, descrivendo l’attività iniziale di Violetta, a
scrivere: Il disegno, apparentemente così lontano dalla scultura, gioca in questa prima fase
dell’opera di Violetta un ruolo di grande rilievo. […] Il disegno acquista corpo, si
esplica in volume, raggiunge lo spessore attraverso l’approfondimento persistente e
progressivo sul “solco”: il che vuol dire per mezzo del suo farsi scavo, apertura,
divaricazione.
Su questa “divaricazione” si muovono anche i disegni in mostra, in un continuo procedere
e svolgersi del tratto che diventa segno, corpo.
Un corpo che diventa plastico attraverso la
distruzione del colore: il bianco diventa azzeramento che cede il passo all’ombra, alla
piega, alla crespa. Un colore negato che si ritroverà in pochi anni nell’antirombo, nella
grafite. Interrotto solo da interventi epifanici di materiali illuminanti (e non colori) come il
chiaramitis o la luce che interverrà più tardi a disgregare e sospendere le pagine. Siamo
così arrivati ai Momenti di pietra presentati a Kassel nel 1982. Qui Violetta scrive una
poesia nella quale leggiamo:
Il cielo si scolora
momenti e pietre
geometrie.
Difficile dire se il cielo scolorato fosse quello tedesco o la scultura Cieli del 1982. Certo è
che la scultura interviene a placare l’inquietudine, il cielo e l’uomo, o per citare un brano
dell’Uomo in rivolta di Camus:
La maggiore e più ambiziosa delle arti, la scultura, si accanisce a fissare nelle tre
dimensioni il volto sfuggente dell’uomo. A ricondurre il disordine dei gesti all’unità
del grande stile. La scultura non respinge la somiglianza, di cui al contrario ha
bisogno, ma non la ricerca per prima. Quello che cerca nelle sue grandi epoche è il
gesto, l’atteggiamento, lo sguardo vuoto che riassumeranno tutti i gesti e tutti gli
sguardi del mondo. Non è il suo assunto imitare, ma stilizzare e imprigionare in
un’espressione significativa il passeggero fuggire dei corpi o il vorticare infinito
degli atteggiamenti. Soltanto allora erige sul frontone delle città tumultuose il
modulo, il tipo, l’immobile perfezione che per un momento placherà l’incessante
febbre degli uomini 4 .
La febbre degli uomini diventa quindi piega, svolgersi, aprirsi.
Entriamo in un spazio dove la materia trionfa oltre la superficie.
A cura di Irene Biolchini
30
novembre 2021
Antonio Violetta – Ed è ancora Utopia
Dal 30 novembre 2021 al 30 gennaio 2022
arte contemporanea
Location
GALLERIA CLIVIO
Milano, Foro Buonaparte, 48, (Milano)
Milano, Foro Buonaparte, 48, (Milano)
Orario di apertura
Opening 30.11.21
dalle 16:00 alle 20:30
Orari mostra : Dal Lunedi al Sabato alle 10:00 alle 19:00 su prenotazione
Sito web
Autore
Curatore
Progetto grafico