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Anzhelika Lebedeva – OMBRE
Spazio Inangolo presenta il progetto della giovane pittrice Anzhelika Lebedeva con curatela di Antonio Zimarino.
Comunicato stampa
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La particolarità strutturale di Spazio InAngolo è quella di consentire al visitatore un’esperienza profondamente intima delle opere che ospita: le sue contenute dimensioni e la sua architettura dispongono al tempo e alla concentrazione, spingono didatticamente e se vogliamo, “spiritualmente” ad un rapporto intimo, attento e profondo con ciò che si mostra e incoraggiano ad un’osservazione e ad un’esperienza che strutturalmente non può essere superficiale.
Le caratteristiche dello spazio si esaltano però quando le opere che vengono accolte hanno la capacità di dialogare con lo spettatore grazie ad una “forma” in grado di sviluppare una “compartecipazione”, una concentrazione che renda possibile andare a sé stessi, sospendendo anche solo per un attimo, le coordinate oggettive di un tempo e di uno spazio. E’ dunque l’opera che può fare la differenza tra il semplice guardare e il profondo percepire, come è il caso di questa vera e propria “installazione” esperienziale che è il lavoro di Anzhelika Lebedeva. Percorrendo brevemente il processo in cui il tutto si dispone (e che probabilmente, mi sbilancio un po’, è lo stesso processo che guida la costruzione dell’opera) forse la questione apparirà più chiara.
Non c’è forma precisa in questi disegni ma c’è corpo e c’è profondità. Non c’è un immagine chiaramente definibile ma si colgono strutture “naturali”, forse caverne, canyon, cascate, torrenti, sentieri. Non c’è “colore” ma c’è una continua differenziazione di toni e luci capace di costruire una particolare dinamica dello sguardo chiamato a “registrare” le profondità differenti sulla piccola superficie. Il colore nero è a tratti “denso”, a tratti meno, ma non caratterizza l’immagine in modo tragico; l’alternarsi continuo di intensità del nero impegna, genera tensione, costringe lo sguardo a restare a lungo in uno spazio poco esteso in larghezza che diventa, esattamente per queste diverse intensità, molto esteso in profondità.
Visti a distanza, questi disegni potrebbero apparire forme create dal “gesto”, da una dinamica “psichica” istintuale ma è proprio l’attenzione all’intensità del segno e al rapporto con la luce che dimostra che qui non c’è affatto un approccio irrazionale. Si tratta piuttosto di un “gioco con le ombre” che testimonia il desiderio di creare “fisicità” dello spazio: l’ombra è il risultato dell’interazione tra “presenza” e luce e questo continuo alternarsi e variare di intensità, segue una logica, una ratio, che è appunto quella della costruzione di uno spazio ipotetico oltre la superficie.
Riassumendo: l’analisi formale mi dice che non c’è istintualità nella disposizione ma un controllo attento dell’effetto, dello spessore, dell’alternarsi di campi e tratti; i gradi di luce vengono fuori dialogando con i gradi del buio e così la fisicità emerge dalla superficie e la materia cromatica crea lo spazio. Il paradosso visuale è che questi piccoli disegni hanno corpo e fisicità, scavano spazio e costruiscono strutture oltre una esigua superficie quando, a distanza, apparirebbero casuali.
Questo processo porta osmoticamente, dolcemente, senza fratture verso un approccio percettivo singolare: entrare nel gioco visuale a tentare di distinguere forme, di cercare “chiarezza”; ma l’obiettivo qui non è cercare “chiarezza” di un simbolo o di un significato ma “condurci” alla ricerca di una strada che possa portarci all’essenza della stessa immagine. L’opera non è ciò che vediamo o non vediamo, ma la strada che percorriamo cercando. L’obiettivo sembra quello di farci ripercorrere ciò che l’artista ha pensato mentre costruiva e si avventurava lei stessa in quella strada, lasciandoci così, fuori dal tempo dentro la percezione più che dentro un possibile significato.
Questa “finezza” cioè il lasciarci lì, sospesi a cercare piuttosto che arrestarci alla pretesa di definire, è una delle grandi qualità e novità di un’arte che intenda essere realmente contemporanea. Il “contemporaneo” non è mai definizione di qualcosa, proprio perché esso vive e si costruisce con noi e le nostre scelte: un’arte contemporanea che pretenda di fissare qualcosa, di definire, di definirsi come tale o rappresentare è qualcosa di incongruente con lo stato esistenziale del vivere la contemporaneità. L’arte contemporanea, come questa è, è una ipotesi di senso: provare a darlo, ad offrirlo, non so, con simbologie, rappresentazioni o quant’altro, è intenzione legittima, ma riduttiva. L’approccio più raffinato che possa darci l’arte che abita tra noi, è esattamente il “metterci” nella ricerca, disporci a farci cambiare luogo, a far trasmigrare la mente e le sensazioni dal logico al possibile. Pretendere e dichiarare sono illusioni potenzialmente presuntuose; farci vivere la ricerca del senso è un atto d’amore e di rispetto che ci incoraggia a guardare la realtà in modo differente, non funzionale, non assertivo.
I lavori di Anzhelika fanno questo “ci costruiscono” una condizione percettiva, cambiano la disposizione delle cose e riescono a farlo con il “minimo” dell’arte stessa: bianco, nero e i loro dialoghi di luce, all’interno dei quali l’occhio è chiamato a viaggiare e a perdere l’orientamento: e noi, con lui. E’ questo l’effetto creato anche dalle Abandoned roads, sospese: le loro dimensioni portano, all’interno dello spazio fisico che attraversiamo, la contraddizione: infatti la texture dei segni (ancora di altissima vibrazione nel gioco frantumato della luce, nella dissoluzione delle profondità prospettiche delle geometrie del luogo) funziona come una sorta di “interruttore” capace di spegnere e accendere la percezione coerente dello spazio fisico in cui entriamo. Ecco che, grazie a questi lavori, ci troviamo in un luogo in cui convivono realtà e immaginazione, che corrode il reale senza negarlo, che destabilizza la percezione “sospendendola” dal
reale. Poi, spingendoci verso i piccoli disegni, anche il tempo si sospende perché ad essi dobbiamo dedicare uno sguardo profondo e durevole.
Se l’arte è capace di questo, a cosa mai serve pretendere di “rappresentare” ciò che si cerca quando invece possiamo vivere la ricerca? Essa ci porta nell’unica vera condizione dell’ “essere contemporanei”: osservare e recuperare la nostra “partecipazione” profonda a quel che sta accadendo.
Le caratteristiche dello spazio si esaltano però quando le opere che vengono accolte hanno la capacità di dialogare con lo spettatore grazie ad una “forma” in grado di sviluppare una “compartecipazione”, una concentrazione che renda possibile andare a sé stessi, sospendendo anche solo per un attimo, le coordinate oggettive di un tempo e di uno spazio. E’ dunque l’opera che può fare la differenza tra il semplice guardare e il profondo percepire, come è il caso di questa vera e propria “installazione” esperienziale che è il lavoro di Anzhelika Lebedeva. Percorrendo brevemente il processo in cui il tutto si dispone (e che probabilmente, mi sbilancio un po’, è lo stesso processo che guida la costruzione dell’opera) forse la questione apparirà più chiara.
Non c’è forma precisa in questi disegni ma c’è corpo e c’è profondità. Non c’è un immagine chiaramente definibile ma si colgono strutture “naturali”, forse caverne, canyon, cascate, torrenti, sentieri. Non c’è “colore” ma c’è una continua differenziazione di toni e luci capace di costruire una particolare dinamica dello sguardo chiamato a “registrare” le profondità differenti sulla piccola superficie. Il colore nero è a tratti “denso”, a tratti meno, ma non caratterizza l’immagine in modo tragico; l’alternarsi continuo di intensità del nero impegna, genera tensione, costringe lo sguardo a restare a lungo in uno spazio poco esteso in larghezza che diventa, esattamente per queste diverse intensità, molto esteso in profondità.
Visti a distanza, questi disegni potrebbero apparire forme create dal “gesto”, da una dinamica “psichica” istintuale ma è proprio l’attenzione all’intensità del segno e al rapporto con la luce che dimostra che qui non c’è affatto un approccio irrazionale. Si tratta piuttosto di un “gioco con le ombre” che testimonia il desiderio di creare “fisicità” dello spazio: l’ombra è il risultato dell’interazione tra “presenza” e luce e questo continuo alternarsi e variare di intensità, segue una logica, una ratio, che è appunto quella della costruzione di uno spazio ipotetico oltre la superficie.
Riassumendo: l’analisi formale mi dice che non c’è istintualità nella disposizione ma un controllo attento dell’effetto, dello spessore, dell’alternarsi di campi e tratti; i gradi di luce vengono fuori dialogando con i gradi del buio e così la fisicità emerge dalla superficie e la materia cromatica crea lo spazio. Il paradosso visuale è che questi piccoli disegni hanno corpo e fisicità, scavano spazio e costruiscono strutture oltre una esigua superficie quando, a distanza, apparirebbero casuali.
Questo processo porta osmoticamente, dolcemente, senza fratture verso un approccio percettivo singolare: entrare nel gioco visuale a tentare di distinguere forme, di cercare “chiarezza”; ma l’obiettivo qui non è cercare “chiarezza” di un simbolo o di un significato ma “condurci” alla ricerca di una strada che possa portarci all’essenza della stessa immagine. L’opera non è ciò che vediamo o non vediamo, ma la strada che percorriamo cercando. L’obiettivo sembra quello di farci ripercorrere ciò che l’artista ha pensato mentre costruiva e si avventurava lei stessa in quella strada, lasciandoci così, fuori dal tempo dentro la percezione più che dentro un possibile significato.
Questa “finezza” cioè il lasciarci lì, sospesi a cercare piuttosto che arrestarci alla pretesa di definire, è una delle grandi qualità e novità di un’arte che intenda essere realmente contemporanea. Il “contemporaneo” non è mai definizione di qualcosa, proprio perché esso vive e si costruisce con noi e le nostre scelte: un’arte contemporanea che pretenda di fissare qualcosa, di definire, di definirsi come tale o rappresentare è qualcosa di incongruente con lo stato esistenziale del vivere la contemporaneità. L’arte contemporanea, come questa è, è una ipotesi di senso: provare a darlo, ad offrirlo, non so, con simbologie, rappresentazioni o quant’altro, è intenzione legittima, ma riduttiva. L’approccio più raffinato che possa darci l’arte che abita tra noi, è esattamente il “metterci” nella ricerca, disporci a farci cambiare luogo, a far trasmigrare la mente e le sensazioni dal logico al possibile. Pretendere e dichiarare sono illusioni potenzialmente presuntuose; farci vivere la ricerca del senso è un atto d’amore e di rispetto che ci incoraggia a guardare la realtà in modo differente, non funzionale, non assertivo.
I lavori di Anzhelika fanno questo “ci costruiscono” una condizione percettiva, cambiano la disposizione delle cose e riescono a farlo con il “minimo” dell’arte stessa: bianco, nero e i loro dialoghi di luce, all’interno dei quali l’occhio è chiamato a viaggiare e a perdere l’orientamento: e noi, con lui. E’ questo l’effetto creato anche dalle Abandoned roads, sospese: le loro dimensioni portano, all’interno dello spazio fisico che attraversiamo, la contraddizione: infatti la texture dei segni (ancora di altissima vibrazione nel gioco frantumato della luce, nella dissoluzione delle profondità prospettiche delle geometrie del luogo) funziona come una sorta di “interruttore” capace di spegnere e accendere la percezione coerente dello spazio fisico in cui entriamo. Ecco che, grazie a questi lavori, ci troviamo in un luogo in cui convivono realtà e immaginazione, che corrode il reale senza negarlo, che destabilizza la percezione “sospendendola” dal
reale. Poi, spingendoci verso i piccoli disegni, anche il tempo si sospende perché ad essi dobbiamo dedicare uno sguardo profondo e durevole.
Se l’arte è capace di questo, a cosa mai serve pretendere di “rappresentare” ciò che si cerca quando invece possiamo vivere la ricerca? Essa ci porta nell’unica vera condizione dell’ “essere contemporanei”: osservare e recuperare la nostra “partecipazione” profonda a quel che sta accadendo.
26
novembre 2022
Anzhelika Lebedeva – OMBRE
Dal 26 novembre al 10 dicembre 2022
arte contemporanea
Location
Inangolo
Penne, Largo San Giovanni Battista, 1, (PE)
Penne, Largo San Giovanni Battista, 1, (PE)
Orario di apertura
venerdì e sabato dalle 18.00 alle 20.00
Vernissage
26 Novembre 2022, vernissage sabato 26 novembre ore 18.00
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