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Archaea
Mostra nella Chiesa di Santa Lucia che indaga il concetto di ritorno in senso ambientale e dal punto di vista dello sradicamento dalla propria casa d’origine. Con gli artisti Christian Paris, Giulia Di Clemente, Davide Banin, Lucija Marin e Enrico Scapinelli.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Nell’ambito di Nòstoi(I ritorni), IV edizione del festival dell’arte nomadica la mostra Archaea inaugura il 30 Agosto ore 15:00 nella Chiesa di Santa Lucia in Via Antiche Terme, Ferentino.
Archaea
a cura di Danilo Paris e Nicola Nitido
Chiesa Di Santa Lucia
Due Rægioni - geografie del ritorno, di Davide Banin
Water Diaries, di Lucija Marin
Cripta di Santa Lucia
Pitture Ka-La madre, di Christian Paris
Percorso in via Antiche Terme
Il giardino degli archetipi, di Giulia Di Clemente
Piazza di Santa Lucia
Verso Casa, di Enrico Scapinelli
«Soltanto di coloro sarà la terra, che traggono vita dalle forze del cosmo».
(Walter Benjamin, Strada a senso unico)
Ho sentito dire, che sia
nell’acqua una pietra e un cerchio,
e sopra l’acqua una parola
che posa il cerchio intorno alla pietra.
Ho visto il mio pioppo andare giù nell’acqua,
ho visto, come il suo braccio s’aggrappava giù nel
profondo,
ho visto le sue radici piangere verso il cielo nella
notte.
Io non corsi nella sua direzione,
io trassi da terra quella briciola,
che del tuo occhio ha figura e fierezza,
dal collo ti presi la catena dei detti
e con lei feci l’orlo alla tavola, dove stava adesso
la briciola.
E ho visto il mio pioppo non più.
Paul Celan
Ritornare là dove non si è mai stati. Se la vita contemporanea è segnata da una sradicatezza individuata dalla separazione, da uno scollamento tra i modi dell’abitare e l’ambiente, ritornare significa attivare meccanismi di restaurazione di un tempo precedente alla presenza dell’uomo o forse innescare processi di modificazione e di accoglienza del Mai stato, ma un mai-stato che lo è già da sempre. La civiltà si definisce, nel suo “rapporto di espulsione della natura dal proprio quadro cognitivo”.
In questa storia di rimozioni, la recente teoria dell’endosimbiosi sembra indicare invece una relazione tra umano e non-umano originaria.
Forse la cellula eucariotica si è originata dalla fusione di due procarioti: un Archea ed un endosimbionte batterico. La fusione potrebbe essere avvenuta per predazione, processo a seguito del quale un alfa-proteobatterio aerobio è entrato in una Archea per replicarsi al suo interno. A seguito di questo processo, il batterio da potenziale parassita è divenuto un simbionte che poi si è evoluto nel mitocondrio.
Come il batterio si è contaminato con l’umano, destinando l’individuo ad essere per sempre non Uno, ma Moltitudini da contenere, così la mostra Arcaea germina dalle profondità della Cripta-Mitreo di Santa Lucia(Christian Paris), dal grembo umido dell’antica via termale e sulfurea, propagandosi in superficie, venendo alla Luce della sua patrona delle visioni, visioni fluide e ancora ancestrali( Davide Banin, Lucija Marin), e poi fuoriuscendo nella piazza antistante in un germe di terra( Enrico Scapinelli), per propagarsi infine in una sulfurea, liberata essenza trasparente, un drago archetipico scorporato dalla sua provenienza( Giulia Di Clemente).
Gli artisti hanno declinato il concetto, riflettendo sull’archetipo del gesto pittorico(Christian Paris), l’archetipo della figura animale( Giulia Di Clemente), gli archetipi degli elementi fondamentali della vita, l’acqua( Lucija Marin), della terra( Enrico Scapinelli) e la filosofia cosmologica dell’archetipo delle tribù amazzoniche (Davide Banin).
Questa relazione archetipale stabilisce un rapporto profondo con lo spazio di Via Antiche Terme, originariamente attraversata da sorgenti sulfuree, e con la Chiesa di Santa Lucia, patrona degli sguardi, che diviene metafora dell’opera artistica come “disvelatrice” di quell’”iper-oggetto”( il riscaldamento globale, i buchi neri, etc.) rimosso che normalmente sarebbe aldilà dell’orizzonte visibile.
Christian Paris, nell’opera Le Madri, parte della serie Pitture Ka, allestita nella Cripta di Santa Lucia, attraverso un’indagine che coinvolge la pittura dalla sua prima apparizione sulle pareti rupestri al periodo moderno, traccia una linea di congiunzione che rivela il potere e la semiosi genetica delle immagini, proseguendo il lavoro di Aby Warburg attraverso una complementarietà iconografica. Le madri è il fondamento della illimitata potenzialità delle icone e di come le stesse siano generatrici di ulteriori iconografie creando un nastro di Möbius che lega l’origine e la fine, madre e figlia che diviene a sua volta madre, creando quell’infinità perdurante della semiosi illimitata.
La tela è trattata come (la) terra, lacerata dal corso del tempo e degli eventi, posta sotto le intemperie della città di Bologna per preservarne l’essenza, lo spirito, e divenire simbolo a sua volta dell’elemento di congiunzione tra fertilità e atto d’amore. Lo stampo primigenio avviene tramite l’incontro tra pioggia e ferro, generando l’immagine come un sudario, ed evocando il mito dell’icona klimtiana di Danae, fecondata nel sonno da Zeus trasformata in pioggia dorata. Danae è spirito che si manifesta attraverso proiezione eterea.
Una connessione che circonda non solamente l’arte, ma l'essere umano come co-creatore di un unico sospiro, tessendo passato e futuro nella transitorietà del presente. Compie un atto generativo, in una simpoietica evoluzione dove collimano mondi complessi e dinamici, interagenti attraverso interminabili eoni, in un organismo che travalica le divisioni imposte da convenzioni sociali e temporali.
Da queste fitte connessioni con lo spazio della Cripta, anticamente sede di cavità idrotermali e delle antiche terme romane di Domitilla, da questa caduta nel Bereshit, il limo originario, la pancia di questa chiesa-Arca, le madri di Paris sembrano germinarsi nei contenuti delle mostre audiovisive della superficie, nel piano superiore della Chiesa, ancora in una dimensione acquatica e fluida( Marin) e poi lentamente limacciosa, terracquea( Banin).
"Water Diary, di Lucija Marin, nella Chiesa di Santa Lucia, imprime il linguaggio archetipale dell’acqua nelle mura di pietra sopra l’abside della Chiesa di Santa Lucia. La sua opera intima e universale origina dal ricordo di una visita a Skagen, la città più settentrionale della Danimarca, dove si incontrano il Mare del Nord e il Mar Baltico.
Un video-diario composto da questi materiali raccolti durante i suoi viaggi in vari luoghi, città, paesi e continenti. I video catturano l’acqua in movimento e la fluidità del tempo, isolati dai luoghi di provenienza. Dai vari fiumi, laghi, ruscelli, mari e oceani girati in tutta Europa, nei Caraibi e in alcuni luoghi dell'Africa, possiamo solo indovinare quale ripresa appartiene a quale luogo. Riusciamo a riconoscere dalle riprese cos'è un fiume e cos'è un ruscello, quali riprese provengono dalla sponda croata dell'Adriatico e quali dalla sponda italiana? Come definiamo i confini e possiamo anche determinare i confini dei corpi idrici? E l'idea di appartenenza non è solo un mito? In altre parole: apparteniamo veramente al luogo in cui siamo nati, siamo definiti dalla nostra strada, città, ambiente?
L’opera di Marin declina quella “filosofia della nostalgia” che non sente appartenenza ad un luogo specifico, ma all’essere stesso. Questa appartenenza primigenia che assimila la sensazione del corpo in acqua all’ambiente uterino, l’adamah originario che strettamente richiama l’antico mitreo sottostante della Chiesa, originariamente sede di un culto dell’acqua, proprio perché luogo di passaggio della sorgente idrotermale.
La fluidità e l’assenza di gravità dell’acqua evoca quell’appartenenza originaria e perciò suggerisce anche che la natura dell’appartenenza non è statica. Il movimento e il flusso costante dell’acqua diviene metafora della modificabilità dell’essere umano stesso, la sua sradicata natura in costante via di cambiamento, il suo principio nomadico.
La chiesa ospita l’opera di Marin, rimandando alle usanze religiose con forti connessioni all’elemento acquatico, come all'usanza turca di salutare i propri cari che intraprendono un viaggio versando loro un secchio d'acqua. Il detto recita: “su gibi git, su gibi gel”, che si traduce come “vai liscio come l'acqua e torna velocemente com'è”. I visitatori sono quindi invitati a riflettere in modo pacifico e tranquillo sul significato di concetti come transitorietà, eternità, fluidità, ciclicità, mutevolezza, movimento, viaggio e ritorno.
Dal piano, per così dire, elevato e incorporeo del muro superiore l’abside, da cui l’opera gronda come una cascata, l’elemento acquatico sembra discendere per rinnovarsi nell’opera di Banin, posta ad un livello esperienziale umano e familiare.
Due Rægioni - geografie del ritorno, di Davide Banin, invita il pubblico in un intimo salotto ricreato all'interno della chiesa di Santa Lucia, creando uno spazio di riflessione sul ritorno, la memoria e l'identità, attraverso un dialogo tra passato e presente. L'installazione nasce dall'esperienza di un periodo di sei mesi trascorso in Amazzonia nel 2012. Durante quell'anno, si verificano due eventi catastrofici: il terremoto in Emilia Romagna, regione natale di Davide Banin, e il grande allagamento nella regione peruviana di Loreto, dove si trovava in quel momento.
La coesistenza di due calamità naturali e la disparità di informazione tra le due regioni diventano il punto focale per un’indagine sulle disuguaglianze globali e la fragilità umana di fronte alla natura, costituendo il fulcro di un'opera che esplora il tema del ritorno e della memoria collettiva. Al centro del salotto, un vecchio televisore trasmette una composizione audio-video che mostra immagini della regione amazzonica di Loreto. Il video esplora il paesaggio amazzonico e i suoi fiumi, mettendo in luce le interazioni umane e creando un parallelo tra l'esperienza personale e il profondo legame che le popolazioni locali hanno con la loro terra.
Le immagini dei fiumi della regione Loreto, tra cui il Rio Ucayali, il Rio Marañon, il Rio Nanay e il Rio delle Amazzoni, si alternano alle immagini dell’allagamento trasmesse dai notiziari. Come i canti delle popolazioni indigene dell'Amazzonia, il video racconta una storia che è al contempo personale e universale, un modo di continuare una tradizione antica di narrazione e connessione, utilizzando i mezzi moderni del video e dell'audio per trasmettere un messaggio. Proprio come i canti tradizionali intrecciano storie, il video intreccia immagini e suoni per parlare di viaggi, incontri e riflessioni. Ogni scena, ogni suono, ogni parola può essere considerata una "nota" in un canto che racconta una storia più grande.
I video dei fiumi e dei villaggi amazzonici evocano una connessione profonda con la natura, rappresentando un mondo dove il tempo sembra essersi fermato, in contrasto con i cambiamenti climatici e le catastrofi causate dall'uomo, che hanno portato a disastri ecologici e perdita di identità culturale. Ulteriori elementi dell’installazione evidenziano il senso di alienazione derivante dal confronto tra due regioni geograficamente e culturalmente distanti, ponendo l'accento sulla disparità delle percezioni e delle notizie.
Il progetto riflette questo ritorno all'ambiente attraverso il focus sulla natura amazzonica e sui modi di vita che sono in equilibrio con essa. Rappresenta un invito a ritrovare un rapporto rispettoso e simbiotico con la terra, che è alla base delle culture indigene dell'Amazzonia. Si tratta di un viaggio esistenziale, nel quale emerge il pensiero del ritorno alla propria terra d’origine, con domande su cosa significhi il ritorno, non solo fisico, ma anche spirituale. Il viaggio in Amazzonia diventa così un ritorno alle origini, un momento di riflessione su chi si è e su cosa significhi casa.
La scelta di tornare o di rimanere, il confronto tra le due regioni, rappresenta il dilemma di molti: cercare un nuovo inizio o riconnettersi con le radici. In questo senso, il viaggio è un mezzo per esplorare concetti più profondi di tempo, memoria e identità. La riflessione sul ritorno come scelta tra due vite parallele si collega all’esplorazione di un ritorno a un’epoca o a uno stato preesistente, forse mai esistito se non nella mente. Questo evoca un senso di nostalgia per un mondo che sta scomparendo, una riflessione personale sul ritorno e su ciò che è realmente prezioso nella vita.
La decisione di voler tornare in Italia e la presa di consapevolezza delle cose importanti, con la rivisitazione di questi luoghi attraverso il video, è un tentativo di riconciliare questa nostalgia, di trovare un punto di incontro tra il passato e il presente. La riflessione sul ritorno, sulla natura, e sulle forze che modellano la nostra esistenza esplora questioni esistenziali attraverso il viaggio fisico e metaforico lungo il fiume.
La scelta di tornare o di rimanere, il confronto tra le due regioni, rappresenta il dilemma di molti: cercare un nuovo inizio o riconnettersi con le radici. Questo evoca un senso di nostalgia per un mondo che sta scomparendo, una riflessione personale sul ritorno e su ciò che è realmente prezioso nella vita. La decisione di voler tornare in Italia e la presa di consapevolezza delle cose importanti, rivisitare questi luoghi attraverso il video é un tentativo di riconciliare questa nostalgia, di trovare un punto di incontro tra il passato e il presente. La riflessione sul ritorno, sulla natura, e sulle forze che modellano la nostra esistenza esplora questioni esistenziali attraverso il viaggio fisico e metaforico lungo il fiume.
Il viaggio cosmologico dei canti di Banin sembra continuare germinandosi nella terra, l’acqua scorre nel profondo e diventa micelio, rete fungina: la prima efflorescenza è il germe di terra espunto dalla pietra nella Piazza di fronte la Chiesa.
Enrico Scapinelli elabora un totem di terra nella Piazza di Santa Lucia, dal titolo “Verso casa”. Un ritorno ad un rapporto numinoso e magico con l’ambiente naturale e gli altri esseri, un ritorno alla terra, che diventa simbolo della potenza primordiale e di un’esperienza cosmica mistica. La sua pratica artistica si incentra sul recupero ed il riciclo di materiali, oggetti e dati strappati all'incessante flusso del capitalismo tecnoscientifico neoliberale, ponendo particolare attenzione al tema del cambiamento climatico ed alla percezione degli ambienti naturali da parte dell'essere umano nei diversi contesti culturali e storici.
L’artista indaga la materia secondo una poetica magica, universale e atemporale, che si concentra sul racconto del mistero di un mondo che non c’è più: quello dell’animismo e della relazione empatica (o cinestetica) con l’ambiente, quello delle visioni ed emanazioni delle forze naturali (i “numi arcaici"), di una consapevolezza ecologica e di una conoscenza fisica del reale. L’opera si va a collocare in uno spazio che non c’è più o in un tempo che non è ancora, divenendo rimpianto e promessa, materia arcaica e trascendenza.
Un “balsamo spirituale” che si lega al concetto di pausa dal tempo produttivo e a quello di nuova proposta, basata su una forte componente immaginifica e intuitiva in grado di risvegliare il bisogno ancestrale di un’esperienza cosmica-ecologica con l’ambiente e gli altri esseri.
Una dimensione giocosa che si instaura in rapporto con i totem di terra scura di Scapinelli: mentre attraversiamo l’opera con lo sguardo, qua e là si possono scorgere tra le crepe fioriture di senso o di visioni, possibilità impreviste, passaggi nascosti capaci di dischiudere il nostro paesaggio interiore e di riversarlo nel mondo-in-rovina, così da riqualificarlo, rigenerarlo, ri-animarlo.
Nel processo di trasformazione dell’opera è previsto che possano crescere nuove germinazioni spontanee di varie erbe di campo o funghi, un proliferare di vita che si esprime anche nel movimento di piccoli insetti e lombrichi. Oppure è possibile che possano cadere parti di terra che si siano seccate, le quali lascerebbero intravederebbe l'armatura interna in rete metallica. Nuove interpretazioni si aprirebbero agli occhi del fruitore: da un menhir/totem completamente naturale, egli potrebbe percepire una natura che si sta alienando/alienizzando, così da ritrovarsi in una via di mezzo tra artificiale e naturale. In questo processo di metamorfosi, il significato generale dell’opera non solo viene mantenuto, ma viene anche aggiornato alla contemporaneità.
La collocazione del menhir in terra di campo nel piazzale esterno alla Chiesa di Santa Lucia è specifica per la sua indeterminatezza infatti non è solo temporale – ovvero tra un passato arcaico e tra un possibile futuro prossimo – ma anche spaziale. Esso si trova idealmente in un limbo a metà tra la chiesa (quindi la sfera conscia, consapevole del peso della tradizione e dell’eredità storica come ad esempio la religione cattolica) e la montagna/bosco (la sfera inconscia, ingenua e mistica, percettrice delle forze della natura all’opera fuori dai recinti/confini della città/paese/sfera mentale). Si manifesta dunque una forte corrispondenza tra l’ambiguità della dimensione temporale e di quella fisica, che ne ampliano lo spazio di fruizione e assicurano una lettura multipla dell’opera da parte dell’osservatore, il quale, a seconda delle proprie esperienze e percezioni personali, può scegliere la direzione verso cui intende fare ritorno. In altre parole, la soggettività artistica si espleta attraverso l’oggettività e ambiguità dell’intervento installativo percepite soggettivamente nel presente del qui e ora: ogni visitatore è unico, in quanto portatore di uno specifico paesaggio interiore, e nel momento dell’incontro con l’installazione egli assicura una particolare percezione, esperienza e lettura dell’opera. Assistiamo dunque ad un decentramento tra soggetto e oggetto, che mette in moto una dinamica di “opera aperta”, in cui il visitatore riempie effettivamente con il proprio bagaglio personale parte del contenuto dell’opera e partecipa così al processo di significazione della stessa, sfuggendo al controllo che la nuova élite politica del tardo capitalismo intende mantenere
In questa genesi terrosa dello spirito, opera animistica in cui non lo spirito si incarna, ma la terra diventa, nel suo contatto con l’umano, sede di uno spostamento metafisico, il movimento ascensionale della colonna sembra liberarsi in un puro spirito che diviene draconico e trasparente, come le sostanze impalpabili impresse nel vetro dall’artista Di Clemente, che, liberate dall’incarnamento, proliferano in tutto lo spazio circostante la chiesa, risalendo le antiche latenti sostanze solforose di Via Antiche Terme. Il drago si imprime nel vetro, ma come traccia che si libera imprimendosi come forma nell’ambiente, che lo riconforma in sé, lasciando lo spazio oltre la figura entrare nell’opera, per donarglisi. Qui, l’ambiente torna ad essere totale, passando dalle precedenti forme di gestazione (Paris), riflusso-impressione(Marin), cataclisma sistemico( le due regioni distanti che si condizionano in Banin), germe di terra( Scapinelli) a questo ambiente-tutto che attraversa delle sostanze che per puro caso si assemblano in vetro, ma potrebbero essere in altro caso niente.
Le opere sono ispirate a dei sogni che l’artista Giulia Di Clemente ha avuto nel percorso della sua vita e reinterpretano dei concetti chiave del libro di George L. Moore, psicoanalista junghiano, dal titolo “Facing the dragon”.
Moore spiega che dentro di noi c’è un drago assetato di “grandiosità”. Per grandiosità s’intende un’aspettativa di noi stessi e della vita così alta da farci perdere il contatto con la realtà.
Moore, oltre ad analizzare i processi psicologici utilizzando le figure degli archetipi, spiega come l’uomo può facilmente perdersi e propone anche un “antidoto” per poter gestire la propria vita ed essere coscienti di sè stessi tramite la psicoterapia e l’autoconsapevolezza.
Le tappe delle opere in vetro sono passaggi di un processo consapevole, il percorso per arrivare fino ad esse sono tutte allegorie e metafore su come la vita a volte ci porta a sopportare situazioni troppo grandi rispetto a ciò che possiamo gestire. Tutti i soggetti scelti sono simili a degli spiriti, entità antiche che si palesano dinanzi al nostro inconscio e ci interrogano sulla nostra esistenza terrena. Le stele di vetro vengono collocate in ambienti come parchi archeologici e/o zone naturali, per aiutare lo spettatore ad immergersi in uno scenario senza tempo, millenario, ma che è ancora vivo dentro il nostro inconscio.
La scelta del materiale del vetro, oltre ad essere ecosostenibile, sottolinea l’allegoria di un animo puro e cristallino che assorbe i colori circostanti, alla costante ricerca di un equilibrio interiore dopo una tempesta. Le incisioni e le scavature sono il percorso allegorico e materico interiore ed esterno che tutti noi affrontiamo in questa selva oscura.
Archaea
a cura di Danilo Paris e Nicola Nitido
Chiesa Di Santa Lucia
Due Rægioni - geografie del ritorno, di Davide Banin
Water Diaries, di Lucija Marin
Cripta di Santa Lucia
Pitture Ka-La madre, di Christian Paris
Percorso in via Antiche Terme
Il giardino degli archetipi, di Giulia Di Clemente
Piazza di Santa Lucia
Verso Casa, di Enrico Scapinelli
«Soltanto di coloro sarà la terra, che traggono vita dalle forze del cosmo».
(Walter Benjamin, Strada a senso unico)
Ho sentito dire, che sia
nell’acqua una pietra e un cerchio,
e sopra l’acqua una parola
che posa il cerchio intorno alla pietra.
Ho visto il mio pioppo andare giù nell’acqua,
ho visto, come il suo braccio s’aggrappava giù nel
profondo,
ho visto le sue radici piangere verso il cielo nella
notte.
Io non corsi nella sua direzione,
io trassi da terra quella briciola,
che del tuo occhio ha figura e fierezza,
dal collo ti presi la catena dei detti
e con lei feci l’orlo alla tavola, dove stava adesso
la briciola.
E ho visto il mio pioppo non più.
Paul Celan
Ritornare là dove non si è mai stati. Se la vita contemporanea è segnata da una sradicatezza individuata dalla separazione, da uno scollamento tra i modi dell’abitare e l’ambiente, ritornare significa attivare meccanismi di restaurazione di un tempo precedente alla presenza dell’uomo o forse innescare processi di modificazione e di accoglienza del Mai stato, ma un mai-stato che lo è già da sempre. La civiltà si definisce, nel suo “rapporto di espulsione della natura dal proprio quadro cognitivo”.
In questa storia di rimozioni, la recente teoria dell’endosimbiosi sembra indicare invece una relazione tra umano e non-umano originaria.
Forse la cellula eucariotica si è originata dalla fusione di due procarioti: un Archea ed un endosimbionte batterico. La fusione potrebbe essere avvenuta per predazione, processo a seguito del quale un alfa-proteobatterio aerobio è entrato in una Archea per replicarsi al suo interno. A seguito di questo processo, il batterio da potenziale parassita è divenuto un simbionte che poi si è evoluto nel mitocondrio.
Come il batterio si è contaminato con l’umano, destinando l’individuo ad essere per sempre non Uno, ma Moltitudini da contenere, così la mostra Arcaea germina dalle profondità della Cripta-Mitreo di Santa Lucia(Christian Paris), dal grembo umido dell’antica via termale e sulfurea, propagandosi in superficie, venendo alla Luce della sua patrona delle visioni, visioni fluide e ancora ancestrali( Davide Banin, Lucija Marin), e poi fuoriuscendo nella piazza antistante in un germe di terra( Enrico Scapinelli), per propagarsi infine in una sulfurea, liberata essenza trasparente, un drago archetipico scorporato dalla sua provenienza( Giulia Di Clemente).
Gli artisti hanno declinato il concetto, riflettendo sull’archetipo del gesto pittorico(Christian Paris), l’archetipo della figura animale( Giulia Di Clemente), gli archetipi degli elementi fondamentali della vita, l’acqua( Lucija Marin), della terra( Enrico Scapinelli) e la filosofia cosmologica dell’archetipo delle tribù amazzoniche (Davide Banin).
Questa relazione archetipale stabilisce un rapporto profondo con lo spazio di Via Antiche Terme, originariamente attraversata da sorgenti sulfuree, e con la Chiesa di Santa Lucia, patrona degli sguardi, che diviene metafora dell’opera artistica come “disvelatrice” di quell’”iper-oggetto”( il riscaldamento globale, i buchi neri, etc.) rimosso che normalmente sarebbe aldilà dell’orizzonte visibile.
Christian Paris, nell’opera Le Madri, parte della serie Pitture Ka, allestita nella Cripta di Santa Lucia, attraverso un’indagine che coinvolge la pittura dalla sua prima apparizione sulle pareti rupestri al periodo moderno, traccia una linea di congiunzione che rivela il potere e la semiosi genetica delle immagini, proseguendo il lavoro di Aby Warburg attraverso una complementarietà iconografica. Le madri è il fondamento della illimitata potenzialità delle icone e di come le stesse siano generatrici di ulteriori iconografie creando un nastro di Möbius che lega l’origine e la fine, madre e figlia che diviene a sua volta madre, creando quell’infinità perdurante della semiosi illimitata.
La tela è trattata come (la) terra, lacerata dal corso del tempo e degli eventi, posta sotto le intemperie della città di Bologna per preservarne l’essenza, lo spirito, e divenire simbolo a sua volta dell’elemento di congiunzione tra fertilità e atto d’amore. Lo stampo primigenio avviene tramite l’incontro tra pioggia e ferro, generando l’immagine come un sudario, ed evocando il mito dell’icona klimtiana di Danae, fecondata nel sonno da Zeus trasformata in pioggia dorata. Danae è spirito che si manifesta attraverso proiezione eterea.
Una connessione che circonda non solamente l’arte, ma l'essere umano come co-creatore di un unico sospiro, tessendo passato e futuro nella transitorietà del presente. Compie un atto generativo, in una simpoietica evoluzione dove collimano mondi complessi e dinamici, interagenti attraverso interminabili eoni, in un organismo che travalica le divisioni imposte da convenzioni sociali e temporali.
Da queste fitte connessioni con lo spazio della Cripta, anticamente sede di cavità idrotermali e delle antiche terme romane di Domitilla, da questa caduta nel Bereshit, il limo originario, la pancia di questa chiesa-Arca, le madri di Paris sembrano germinarsi nei contenuti delle mostre audiovisive della superficie, nel piano superiore della Chiesa, ancora in una dimensione acquatica e fluida( Marin) e poi lentamente limacciosa, terracquea( Banin).
"Water Diary, di Lucija Marin, nella Chiesa di Santa Lucia, imprime il linguaggio archetipale dell’acqua nelle mura di pietra sopra l’abside della Chiesa di Santa Lucia. La sua opera intima e universale origina dal ricordo di una visita a Skagen, la città più settentrionale della Danimarca, dove si incontrano il Mare del Nord e il Mar Baltico.
Un video-diario composto da questi materiali raccolti durante i suoi viaggi in vari luoghi, città, paesi e continenti. I video catturano l’acqua in movimento e la fluidità del tempo, isolati dai luoghi di provenienza. Dai vari fiumi, laghi, ruscelli, mari e oceani girati in tutta Europa, nei Caraibi e in alcuni luoghi dell'Africa, possiamo solo indovinare quale ripresa appartiene a quale luogo. Riusciamo a riconoscere dalle riprese cos'è un fiume e cos'è un ruscello, quali riprese provengono dalla sponda croata dell'Adriatico e quali dalla sponda italiana? Come definiamo i confini e possiamo anche determinare i confini dei corpi idrici? E l'idea di appartenenza non è solo un mito? In altre parole: apparteniamo veramente al luogo in cui siamo nati, siamo definiti dalla nostra strada, città, ambiente?
L’opera di Marin declina quella “filosofia della nostalgia” che non sente appartenenza ad un luogo specifico, ma all’essere stesso. Questa appartenenza primigenia che assimila la sensazione del corpo in acqua all’ambiente uterino, l’adamah originario che strettamente richiama l’antico mitreo sottostante della Chiesa, originariamente sede di un culto dell’acqua, proprio perché luogo di passaggio della sorgente idrotermale.
La fluidità e l’assenza di gravità dell’acqua evoca quell’appartenenza originaria e perciò suggerisce anche che la natura dell’appartenenza non è statica. Il movimento e il flusso costante dell’acqua diviene metafora della modificabilità dell’essere umano stesso, la sua sradicata natura in costante via di cambiamento, il suo principio nomadico.
La chiesa ospita l’opera di Marin, rimandando alle usanze religiose con forti connessioni all’elemento acquatico, come all'usanza turca di salutare i propri cari che intraprendono un viaggio versando loro un secchio d'acqua. Il detto recita: “su gibi git, su gibi gel”, che si traduce come “vai liscio come l'acqua e torna velocemente com'è”. I visitatori sono quindi invitati a riflettere in modo pacifico e tranquillo sul significato di concetti come transitorietà, eternità, fluidità, ciclicità, mutevolezza, movimento, viaggio e ritorno.
Dal piano, per così dire, elevato e incorporeo del muro superiore l’abside, da cui l’opera gronda come una cascata, l’elemento acquatico sembra discendere per rinnovarsi nell’opera di Banin, posta ad un livello esperienziale umano e familiare.
Due Rægioni - geografie del ritorno, di Davide Banin, invita il pubblico in un intimo salotto ricreato all'interno della chiesa di Santa Lucia, creando uno spazio di riflessione sul ritorno, la memoria e l'identità, attraverso un dialogo tra passato e presente. L'installazione nasce dall'esperienza di un periodo di sei mesi trascorso in Amazzonia nel 2012. Durante quell'anno, si verificano due eventi catastrofici: il terremoto in Emilia Romagna, regione natale di Davide Banin, e il grande allagamento nella regione peruviana di Loreto, dove si trovava in quel momento.
La coesistenza di due calamità naturali e la disparità di informazione tra le due regioni diventano il punto focale per un’indagine sulle disuguaglianze globali e la fragilità umana di fronte alla natura, costituendo il fulcro di un'opera che esplora il tema del ritorno e della memoria collettiva. Al centro del salotto, un vecchio televisore trasmette una composizione audio-video che mostra immagini della regione amazzonica di Loreto. Il video esplora il paesaggio amazzonico e i suoi fiumi, mettendo in luce le interazioni umane e creando un parallelo tra l'esperienza personale e il profondo legame che le popolazioni locali hanno con la loro terra.
Le immagini dei fiumi della regione Loreto, tra cui il Rio Ucayali, il Rio Marañon, il Rio Nanay e il Rio delle Amazzoni, si alternano alle immagini dell’allagamento trasmesse dai notiziari. Come i canti delle popolazioni indigene dell'Amazzonia, il video racconta una storia che è al contempo personale e universale, un modo di continuare una tradizione antica di narrazione e connessione, utilizzando i mezzi moderni del video e dell'audio per trasmettere un messaggio. Proprio come i canti tradizionali intrecciano storie, il video intreccia immagini e suoni per parlare di viaggi, incontri e riflessioni. Ogni scena, ogni suono, ogni parola può essere considerata una "nota" in un canto che racconta una storia più grande.
I video dei fiumi e dei villaggi amazzonici evocano una connessione profonda con la natura, rappresentando un mondo dove il tempo sembra essersi fermato, in contrasto con i cambiamenti climatici e le catastrofi causate dall'uomo, che hanno portato a disastri ecologici e perdita di identità culturale. Ulteriori elementi dell’installazione evidenziano il senso di alienazione derivante dal confronto tra due regioni geograficamente e culturalmente distanti, ponendo l'accento sulla disparità delle percezioni e delle notizie.
Il progetto riflette questo ritorno all'ambiente attraverso il focus sulla natura amazzonica e sui modi di vita che sono in equilibrio con essa. Rappresenta un invito a ritrovare un rapporto rispettoso e simbiotico con la terra, che è alla base delle culture indigene dell'Amazzonia. Si tratta di un viaggio esistenziale, nel quale emerge il pensiero del ritorno alla propria terra d’origine, con domande su cosa significhi il ritorno, non solo fisico, ma anche spirituale. Il viaggio in Amazzonia diventa così un ritorno alle origini, un momento di riflessione su chi si è e su cosa significhi casa.
La scelta di tornare o di rimanere, il confronto tra le due regioni, rappresenta il dilemma di molti: cercare un nuovo inizio o riconnettersi con le radici. In questo senso, il viaggio è un mezzo per esplorare concetti più profondi di tempo, memoria e identità. La riflessione sul ritorno come scelta tra due vite parallele si collega all’esplorazione di un ritorno a un’epoca o a uno stato preesistente, forse mai esistito se non nella mente. Questo evoca un senso di nostalgia per un mondo che sta scomparendo, una riflessione personale sul ritorno e su ciò che è realmente prezioso nella vita.
La decisione di voler tornare in Italia e la presa di consapevolezza delle cose importanti, con la rivisitazione di questi luoghi attraverso il video, è un tentativo di riconciliare questa nostalgia, di trovare un punto di incontro tra il passato e il presente. La riflessione sul ritorno, sulla natura, e sulle forze che modellano la nostra esistenza esplora questioni esistenziali attraverso il viaggio fisico e metaforico lungo il fiume.
La scelta di tornare o di rimanere, il confronto tra le due regioni, rappresenta il dilemma di molti: cercare un nuovo inizio o riconnettersi con le radici. Questo evoca un senso di nostalgia per un mondo che sta scomparendo, una riflessione personale sul ritorno e su ciò che è realmente prezioso nella vita. La decisione di voler tornare in Italia e la presa di consapevolezza delle cose importanti, rivisitare questi luoghi attraverso il video é un tentativo di riconciliare questa nostalgia, di trovare un punto di incontro tra il passato e il presente. La riflessione sul ritorno, sulla natura, e sulle forze che modellano la nostra esistenza esplora questioni esistenziali attraverso il viaggio fisico e metaforico lungo il fiume.
Il viaggio cosmologico dei canti di Banin sembra continuare germinandosi nella terra, l’acqua scorre nel profondo e diventa micelio, rete fungina: la prima efflorescenza è il germe di terra espunto dalla pietra nella Piazza di fronte la Chiesa.
Enrico Scapinelli elabora un totem di terra nella Piazza di Santa Lucia, dal titolo “Verso casa”. Un ritorno ad un rapporto numinoso e magico con l’ambiente naturale e gli altri esseri, un ritorno alla terra, che diventa simbolo della potenza primordiale e di un’esperienza cosmica mistica. La sua pratica artistica si incentra sul recupero ed il riciclo di materiali, oggetti e dati strappati all'incessante flusso del capitalismo tecnoscientifico neoliberale, ponendo particolare attenzione al tema del cambiamento climatico ed alla percezione degli ambienti naturali da parte dell'essere umano nei diversi contesti culturali e storici.
L’artista indaga la materia secondo una poetica magica, universale e atemporale, che si concentra sul racconto del mistero di un mondo che non c’è più: quello dell’animismo e della relazione empatica (o cinestetica) con l’ambiente, quello delle visioni ed emanazioni delle forze naturali (i “numi arcaici"), di una consapevolezza ecologica e di una conoscenza fisica del reale. L’opera si va a collocare in uno spazio che non c’è più o in un tempo che non è ancora, divenendo rimpianto e promessa, materia arcaica e trascendenza.
Un “balsamo spirituale” che si lega al concetto di pausa dal tempo produttivo e a quello di nuova proposta, basata su una forte componente immaginifica e intuitiva in grado di risvegliare il bisogno ancestrale di un’esperienza cosmica-ecologica con l’ambiente e gli altri esseri.
Una dimensione giocosa che si instaura in rapporto con i totem di terra scura di Scapinelli: mentre attraversiamo l’opera con lo sguardo, qua e là si possono scorgere tra le crepe fioriture di senso o di visioni, possibilità impreviste, passaggi nascosti capaci di dischiudere il nostro paesaggio interiore e di riversarlo nel mondo-in-rovina, così da riqualificarlo, rigenerarlo, ri-animarlo.
Nel processo di trasformazione dell’opera è previsto che possano crescere nuove germinazioni spontanee di varie erbe di campo o funghi, un proliferare di vita che si esprime anche nel movimento di piccoli insetti e lombrichi. Oppure è possibile che possano cadere parti di terra che si siano seccate, le quali lascerebbero intravederebbe l'armatura interna in rete metallica. Nuove interpretazioni si aprirebbero agli occhi del fruitore: da un menhir/totem completamente naturale, egli potrebbe percepire una natura che si sta alienando/alienizzando, così da ritrovarsi in una via di mezzo tra artificiale e naturale. In questo processo di metamorfosi, il significato generale dell’opera non solo viene mantenuto, ma viene anche aggiornato alla contemporaneità.
La collocazione del menhir in terra di campo nel piazzale esterno alla Chiesa di Santa Lucia è specifica per la sua indeterminatezza infatti non è solo temporale – ovvero tra un passato arcaico e tra un possibile futuro prossimo – ma anche spaziale. Esso si trova idealmente in un limbo a metà tra la chiesa (quindi la sfera conscia, consapevole del peso della tradizione e dell’eredità storica come ad esempio la religione cattolica) e la montagna/bosco (la sfera inconscia, ingenua e mistica, percettrice delle forze della natura all’opera fuori dai recinti/confini della città/paese/sfera mentale). Si manifesta dunque una forte corrispondenza tra l’ambiguità della dimensione temporale e di quella fisica, che ne ampliano lo spazio di fruizione e assicurano una lettura multipla dell’opera da parte dell’osservatore, il quale, a seconda delle proprie esperienze e percezioni personali, può scegliere la direzione verso cui intende fare ritorno. In altre parole, la soggettività artistica si espleta attraverso l’oggettività e ambiguità dell’intervento installativo percepite soggettivamente nel presente del qui e ora: ogni visitatore è unico, in quanto portatore di uno specifico paesaggio interiore, e nel momento dell’incontro con l’installazione egli assicura una particolare percezione, esperienza e lettura dell’opera. Assistiamo dunque ad un decentramento tra soggetto e oggetto, che mette in moto una dinamica di “opera aperta”, in cui il visitatore riempie effettivamente con il proprio bagaglio personale parte del contenuto dell’opera e partecipa così al processo di significazione della stessa, sfuggendo al controllo che la nuova élite politica del tardo capitalismo intende mantenere
In questa genesi terrosa dello spirito, opera animistica in cui non lo spirito si incarna, ma la terra diventa, nel suo contatto con l’umano, sede di uno spostamento metafisico, il movimento ascensionale della colonna sembra liberarsi in un puro spirito che diviene draconico e trasparente, come le sostanze impalpabili impresse nel vetro dall’artista Di Clemente, che, liberate dall’incarnamento, proliferano in tutto lo spazio circostante la chiesa, risalendo le antiche latenti sostanze solforose di Via Antiche Terme. Il drago si imprime nel vetro, ma come traccia che si libera imprimendosi come forma nell’ambiente, che lo riconforma in sé, lasciando lo spazio oltre la figura entrare nell’opera, per donarglisi. Qui, l’ambiente torna ad essere totale, passando dalle precedenti forme di gestazione (Paris), riflusso-impressione(Marin), cataclisma sistemico( le due regioni distanti che si condizionano in Banin), germe di terra( Scapinelli) a questo ambiente-tutto che attraversa delle sostanze che per puro caso si assemblano in vetro, ma potrebbero essere in altro caso niente.
Le opere sono ispirate a dei sogni che l’artista Giulia Di Clemente ha avuto nel percorso della sua vita e reinterpretano dei concetti chiave del libro di George L. Moore, psicoanalista junghiano, dal titolo “Facing the dragon”.
Moore spiega che dentro di noi c’è un drago assetato di “grandiosità”. Per grandiosità s’intende un’aspettativa di noi stessi e della vita così alta da farci perdere il contatto con la realtà.
Moore, oltre ad analizzare i processi psicologici utilizzando le figure degli archetipi, spiega come l’uomo può facilmente perdersi e propone anche un “antidoto” per poter gestire la propria vita ed essere coscienti di sè stessi tramite la psicoterapia e l’autoconsapevolezza.
Le tappe delle opere in vetro sono passaggi di un processo consapevole, il percorso per arrivare fino ad esse sono tutte allegorie e metafore su come la vita a volte ci porta a sopportare situazioni troppo grandi rispetto a ciò che possiamo gestire. Tutti i soggetti scelti sono simili a degli spiriti, entità antiche che si palesano dinanzi al nostro inconscio e ci interrogano sulla nostra esistenza terrena. Le stele di vetro vengono collocate in ambienti come parchi archeologici e/o zone naturali, per aiutare lo spettatore ad immergersi in uno scenario senza tempo, millenario, ma che è ancora vivo dentro il nostro inconscio.
La scelta del materiale del vetro, oltre ad essere ecosostenibile, sottolinea l’allegoria di un animo puro e cristallino che assorbe i colori circostanti, alla costante ricerca di un equilibrio interiore dopo una tempesta. Le incisioni e le scavature sono il percorso allegorico e materico interiore ed esterno che tutti noi affrontiamo in questa selva oscura.
30
agosto 2024
Archaea
Dal 30 agosto al 10 settembre 2024
arte contemporanea
Location
SEDI VARIE – Ferentino
Ferentino, -, (Frosinone)
Ferentino, -, (Frosinone)
Orario di apertura
Inaugurazione ore 15
Autore
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Produzione organizzazione
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