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Artissima al PAV
Saranno Michel Blazy, Jun Takita, Ennio Bertrand e la coppia creativa Caretto/Spagna, nonché Francesco Mariotti a fare da porta-voce del PAV (Parco Arte Vivente) e ad annunciare al pubblico di Artissima14 il programma di lavoro del Direttore Artistico Nicolas Bourriaud per l’apertura di questo progetto unico al mondo a Torino
Comunicato stampa
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PAV presenta: Michel Blazy, Jun Takita, Ennio Bretrand, Caretto/Spagna e Francesco Mariotti
Saranno Michel Blazy, Jun Takita, Ennio Bertrand e la coppia creativa Caretto/Spagna, nonché Francesco Mariotti a fare da porta-voce del PAV (Parco Arte Vivente) e ad annunciare al pubblico di Artissima14 il programma di lavoro del Direttore Artistico Nicolas Bourriaud per l’apertura di questo progetto unico al mondo a Torino, in un’area verde di 23.000 mq, zona Lingotto, in Via Giordano Bruno 31. A promuoverlo –dal 2002- l’associazione culturale PAV (ACPAV) guidata dall’artista Piero Gilardi che ha offerto al Comune di Torino (partner del progetto insieme a Fondazione Torino Musei e Azienda Multi-servizi Igiene Ambientale Torino- AMIAT) idea, disegni, contatti, sviluppo del progetto di bio-architettura e gestione, trasformando quella che doveva essere una semplice area verde cittadina in un nuovo modello museale.
“La tomba del pollo a quattro cosce” di Michel Blazy sul fondo del Padiglione 3 accanto all’area Vip Lunge e l’installazione di Jun Takita, sul lato opposto, insieme ad alcune immagini dei suoi lavori saranno un omaggio del PAV al pubblico di Artissima. Le opere di Ennio Bertrand e Caretto/Spagna saranno invece a disposizione di chi vorrà visitare la sede temporanea del PAV, in Via Giordano Bruno 181, a dieci minuti dall’area in cui fervono i lavori che porteranno nella prossima apertura del PAV prevista per l’estate 2008, e in cui Francesco Mariotti ha recentemente completato il suo nuovo progetto legato alle “lucciole”, dal titolo “Enclave”.
“Sono lavori emblematici rispetto al lavoro che vogliamo fare attraverso il PAV” spiega Nicolas Bourriaud “Non vogliamo limitare la programmazione all'utilizzo di elementi viventi o naturali, concepiamo piuttosto il PAV come il punto di aggregazione di energie artistiche che mirano a trasformare la società, a generare incontri, a riflettere sull’ambiente e il nostro modo di entrare in relazione con esso”.
Non quindi un semplice parco di sculture o un giardino d'arte contemporanea: piuttosto un centro d'arte che metterà in relazione lo spazio aperto (usufruibile da tutti gratuitamente) con installazioni e progetti artistici, nonché con una struttura espositiva/esperienziale realizzata attraverso criteri di bio-architettura.
I sostenitori del PAV (l’Associazione Parco d’Arte Vivente guidata da Piero Gilardi) e il suo giovane direttore artistico preferiscono la definizione di Félix Guattari (“Le tre ecologie”): un parco d'ecologia ambientale, sociale e mentale capace di coinvolgere gli artisti contemporanei che prediligono per la loro ricerca tematiche ambientali e/o sociali, sostenendoli e promuovendoli presso il grande pubblico.
Seguendo il ritmo delle stagioni, il PAV darà vita a esposizioni temporanee di artisti internazionali che verranno invitati in base al loro progetto di ricerca nei settori dell'ecologia, della biologia e del sociale, in pratica nell'ambito del “vivente”. Il PAV inoltre darà vita a due progetti annuali “permanenti”: “Non tanto costruzioni, la cui influenza sarebbe troppo importante sul terreno” spiega Bourriaud “quanto sorte di ‘accampamenti’, con materiali naturali o riciclabili, o costruzioni destinate a una dissoluzione progressiva.”
Nell’ultima giornata di Artissima14 il Direttore Andrea Bellini incontrerà Nicolas Bourriaud, Jun Takita, Piero Gilardi e i critici Lorenza Perelli, Francesco Poli, Domenico Quaranta e Franco Torriani in un dibattito aperto al pubblico sul tema “Luoghi e processi creativi dell’arte del vivente” coordinato da Ivana Mulatero. L’appuntamento è per Domenica 11 Novembre 2007 alle 16.30.
Informazioni per il pubblico:
+39 392 8353787
info@parcoartevivente.it
“LUOGHI E PROCESSI CREATIVI DELL’ARTE DEL VIVENTE”
Artissima14, Torino Lingotto, Padiglione 3 Sala Conferenze, Domenica 11.11 ore 14.30 - 16.30
Sulla scena internazionale dell’Arte Contemporanea si è affermata, ed è in capillare espansione, una ricerca artistica riconducibile al concetto di “Arte del Vivente”.
Le sue declinazioni sono svariate e vanno dalle esperienze di Michel Blazy, Natalie Jeremijenko, Barbara Nemitz, Lois Weinberger, Alan Sonfist, Marjetica Potrc, Avital Geva, Erik Samakh, Henrik Håkansson, Caretto/Spagna, Vittorio Corsini e Francesco Mariotti, alle operazioni bio-tech di Eduardo Kac, Marta De Menezes, Jun Takita, SymbioticA e George Gessert.
Le metodologie operative di tutti questi artisti hanno peculiari ed innovative caratteristiche in virtù della consonanza con la logica del vivente, quindi con il continuum, l’interdipendenza e la complessità dei fenomeni viventi che accomunano il naturale e l’artificiale in un unico flusso.
Le opere che ne scaturiscono vivono nella dimensione del tempo organico; sono quindi processuali ed intrinsecamente relazionali poichè presuppongono ed incorporano il tempo di vita dell’osservatore; esprimono la sensibilità soggettiva dei loro autori,ma nel contempo inducono una riflessione cognitiva sull’odierno rapporto uomo-natura.
Il white cube del museo appare inadeguato ad accogliere e comunicare le pratiche dell’arte del vivente, anche se della loro processualità è possibile render conto attraverso vari tipi convenzionali di display: dall’installazione in progress, alla performance, al video, al network telematico.
Parafrasando la definizione assunta dal Palais de Tokyo di Parigi, quale “site de creation contemporaine”, occorrono nuovi siti e nuove tipologie di strutture ed istituzioni d’arte affinché queste esperienze dal vivo, in vitro o espanse sul territorio, possano avere corso sulla base di riferimenti spazio-temporali coerenti e con la partecipazione attiva e sistemica del pubblico.
La formula istituzionale aggiornata del “parco d’arte” appare come una delle risposte più congruenti al problema dei nuovi e necessari siti. Un parco d’arte nasce da una preliminare operazione microurbanistica: la creazione di un polmone verde protetto.
L’assetto architettonico e funzionale si conforma alla biocompatibilità ed al design del paesaggio; contiene dei laboratori polivalenti per la ricerca, anche nei suoi aspetti tecno-scientifici. Il suo staff ha l’attitudine a monitorare, assistere e rigenerare i processi viventi di lunga durata innescati dagli artisti e, nello stesso tempo, a mediare la comprensione dei processi estetici e dei fenomeni organici da parte del pubblico.
Il Parco d’Arte Vivente intende inserirsi nella rete internazionale della ricerca sull’ “arte del vivente”, attraverso mostre, convegni, workshop e pubblicazioni.
Durante l’incontro dell’11 Novembre, a Torino, durante Artissima14, verranno presentati gli atti del convegno “Dalla Land Art alla Bio Arte” (GAM Torino 20 Gennaio 2007).
Il volume edito da Hopefulmonster e curato da Ivana Mulatero –curatrice dell’Art Program del PAV- raccoglie il pensiero sulla tematica della natura e del vivente di un ampio ventaglio di autori: da Nicolas Bourriaud, teorico dell’“Esthetique Relationnelle”, a Pier Luigi Capucci, teorico dell’arte neotecnologica; da Jens Hauser, fondatore della Biotech Art, a Roberto Marchesini, teorico dell’epistemologia del posthuman; da Louis Bec, artista della Genetic Art, a Franco Torriani, esperto di New Media Art.
Alla Tavola rotonda sono invitati a partecipare i critici d’arte Nicolas BOURRIAUD, Paolo BIANCHI, Francesco POLI, Lorenza PERELLI, Domenico QUARANTA e Franco TORRIANI. Gli artisti invitati a testimoniare la propria ricerca sono Michel BLAZY, Piero GILARDI, Jun TAKITA.
Il dibattito sarà introdotto dal direttore di ARTISSIMA 14 Andrea BELLINI e coordinato da Ivana MULATERO.
Michel Blazy
Nato a Monaco nel 1966 vive e lavora a Parigi, dove è conosciuto per le sue sculture/installazioni realizzate con materiali insoliti.
Affascinato dalle materie organiche, dagli alimenti deteriorabili e dai prodotti alimentari secchi, cristallizza le sue creazioni attorno a temi che ricordano la condizione umana: morte, decadimento, putrefazione.
Michel Blazy lavora con il vivente. Lo mette al centro del suo lavoro d'artista e lascia “che l’opera si faccia da se”. Dispositivi evolutivi ed impianti transitori gli permettono di esplorare la proliferazione incontrollata di microorganismi le cui trasformazioni ed i cambiamenti di stato sono momenti necessari all'attivazione dell'opera ed al suo sviluppo, nel senso più concreto del termine. Costruttore di universi aleatori e fragili, Michel Blazy ama trattare la materia, tentare di controllarne scomparsa e trasformazione.
Così, Michel Blazy ha esposto in grandi musei pomodori in piena decomposizione, testimoni del destino inevitabile dell'uomo, ma anche della bellezza e della caratteristica di una natura vivente ed in costante cambiamento.
I micro-eventi che l'avventura suscita sono essenziali alle tappe del percorso: germinazioni auspicate o accidentali, disseccazioni ed alterazioni delle materie, muffe e putrefazioni microscopiche, deterioramenti delle superfici, decomposizioni, trasmutazioni, decrepitezze delle forme, tutte queste energie febbrili del vivente sono rivendicate dall'artista come altrettante operazioni essenziali all'elaborazione dell'opera.
Il vivente non si concepisce senza energie multiple mortifere, metamorfosi e numerose caratteristiche. Le opere dell'artista integrano questa complessità che si spiega con tutte le sue ambiguità, il suo carattere a volte inquietante, o che rifiuta. Ragni, pelle d'animale, trofei di caccia, fungo atomico, scheletri... altrettante sculture in materie commestibili che formano uno sconosciuto bestiario, un “gabinetto” di curiosità paradossali.
Statico da un certo punto di vista, il lavoro dell'artista è effettivamente abitato da una folla di movimenti trascurabili che non cessano di fare e demolire in continuazione le forme, che deviano le categorie della percezione, come avviene nel mondo dell'arte.
Altra costante del lavoro di Blazy un sense of humor più british che francese o tedesco: sculture in tagliatelle di soia di un tuorlo/pulcino, barboncini in schiuma da barba…
Il bestiario ed i paesaggi di Michel Blazy formano un mondo precario e sensibile dove la riproducibilità tecnica è di nuovo messa in dubbio nell'arte: avrà o non avrà un futuro?
Riconosciuto a livello internazionale, la mostra più recente che lo ha visto protagonista è stata Post Patman, al Palais de Tokyo di Parigi, dopo aver esposto in due mostre personali a Tokyo e Versailles nel 2006.
www.galerieartconcept.com
Jun Takita
Nato nel 1966 a Tokyo, Jun Takita, è un grande conoscitore dell’arte moderna e contemporanea occidentale e ha contribuito a rivisitare le relazioni fra cultura giapponese e cultura artistica occidentale con opere video in cui si interroga su dipinti collezionati dai musei del suo paese, quali: Girl with Hair Ribbon di Roy Lichtenstein (Museo d’Arte Contemporanea di Tokyo); The Sower di J.F.Millet (Yamanashi Prefectural Museum of Art); i Girasoli di Vincent van Gogh (Seiji Togo Memorial Yasuda Kasai Museum of Art); La Madone de Port Ligat di Salvador Dali (Fukuoka Art Museum).
Ennio Bertrand
Ennio Bertrand è membro dell’Associazione Arstechnica, fondata nel 1988 a Parigi presso “La Cité des sciences et de l'industrie, La Villette” e cofondatore di Arslab, arte scienza e nuovi media a Torino nel 1996.
Bertrand lavora con immagini e luci digitali, video, suono e installazioni interattive per le quali sviluppa sia software chw hardware.
Le sue ricerche esplorano la percezione, le interazioni sociali e i media delle comunicazioni. Vive e lavora a Torino e Milano.
Caretto/Spagna
Andrea Caretto è nato a Torino nel 1970. E’ laureato in Scienze Naturali presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino, con una tesi in museologia scientifica.
Raffaella Spagna è nata a Rivoli nel 1967. E’ laureata in Architettura indirizzo Urbanistico, presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, con una tesi sull’architettura del paesaggio e l’arte dei giardini.
I due artisti hanno iniziato a collaborare nel 2002. Vivono e lavorano a Cambiano (To) Recentemente hanno preso parte alle mostre: T1 The Pantagruel Syndrome, Torino Triennale Tre Musei, al Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea (Rivoli, Torino, 2006), a CHRONOS, il tempo nell’arte dall'epoca barocca all’età contemporanea, al CeSAC – Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee, di Caraglio (Cuneo, 2005), a Empowerment: Cantiere Italia, al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce e Villa Bombrini di Genova (2004), a Località, Critica in opera 29, alla Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Castel San Pietro (2003) e a How Latitudes Become Forms. Art in a global age, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2003). Hanno esposto alle mostre personali:
Domesticazioni, presso Fabio Paris Art Gallery di Brescia (2005) e Azioni 2000-2006, presso il Museo Marino Marini di Firenze (2006). Hanno curato interventi e workshop tra i quali “Colonizzazione_01 - azione collettiva di vita e lavoro in uno spazio interstiziale” per il Parco d’Arte Vivente svolto nel dicembre 2006.
Francesco Mariotti
Francesco “Pancho” Mariotti è nato a Berna nel 1943 da genitori di origine svizzero-italiani. A nove anni con la famiglia si trasferisce in Perù, a Lima dove inizia gli studi ma sarà a Parigi che frequenterà i primi corsi d’arte per poi iscriversi alla facoltà di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Amburgo. Proprio qui nascono nel 1966/67 i suoi primi “Duftbilder”, quadri-paesaggio su un’idea di natura evocata dalla mediazione tecnologica.
La ricerca di un’integrazione tra arte e strumenti di vario tipo, prototecnologici e di fattura anche molto artigianale, e soprattutto l’attenzione per i sistemi energetici generatori di diverse fonti luminose, lo avvicinarono a Klaus Geldmacher con il quale iniziò un sodalizio di lavoro e di amicizia che porterà a firmare insieme fino ai più recenti dedicati alle “Lucciole”.
Le lucciole tecnologiche di Mariotti, soprattutto quelle esposte nella mostra a Lima del 1996, intitolata “Il ritorno delle lucciole”, rappresentavano la risposta provocatoria alla denuncia di Pasolini della loro scomparsa. “Io cerco di marcare un segno di ottimismo, forse ancora più tragico perché artificiale. Parecchie installazioni che ho allestito in giro per il mondo, hanno provocato spesso le stesse reazioni nel pubblico. Alcuni dicono: Mi sono sentito così bene, era come stare in un bosco, i ricordi da bambino…”.
BIOARTE
Conigli verdi che brillano al contatto con i raggi della luce del sole, maiali con le ali, cloni di alberi, ibridi di fiori e farfalle transgeniche. Non sono i protagonisti di un fumetto o di un cartone animato ma opere artistiche, anzi bio-artistiche. A realizzarle sono gli artisti biotech che, maneggiando provette, coltivando tessuti epidermici, incrociando fiori, si stanno affermando come esponenti di una nuova tendenza mondiale, che porta l’arte dentro i laboratori di genetica e di biologia.
Questi artisti-scienziati sono dei pionieri in questo campo e ricordano i primi net-performer che utilizzavano l’informatica come mezzo di espressione creativa. La bioarte non condanna le biotecnologie, anzi, le sperimenta allo scopo di sollevare il velo su quanto accade all’interno dei laboratori di genetica e fa presa sui timori provocati dall’accelerazione stimolata dal progresso tecnologico.
LAND ART
La Land Art o Earth Art nasce negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70 come esperienza creativa nell’ambito dell’arte concettuale, ma la definizione viene utilizzata per la prima volta soltanto nel 1969, in California, da Gerry Schum, autore di un famoso video sull’argomento, in riferimento al lavoro di artisti come Richard Long, Barry Flanagan, Robert Smithson, Dennis Oppenheim, Walter De Maria, e Christo, ecc. che agiscono direttamente sul paesaggio, modificandone l’aspetto mediante interventi temporanei o facendo uso di materiali naturali. L’azione prevede quindi l’obsolescenza delle opere, programmata dall’artista o affidata all’indomita vitalità degli agenti naturali, che rende il tempo, cioè il nemico principale dell’arte tradizionale, indissolubilmente connessa al concetto della sua persistenza, un protagonista positivo e previsto fin dall’inizio del linguaggio artistico.
La Land Art manifesta un’attenzione ecologica per la natura, per la sua armonica vitalità, per i ritmi e per l’ordine che la caratterizzano e coi quali l’uomo è chiamato a interagire. Il paesaggio diventa per questi artisti l’orizzonte “biologico” per l’esercizio di una creatività la cui vocazione non è tanto quella di produrre un’innovazione ispirata dalla tracotanza della tecnica quanto quella di introdurre una trasformazione consonante con la specificità della vita e col tempo che la regola (tale atteggiamento trova riscontro anche nel ripudio, condiviso con la Minimal Art, della ricerca della novità formale, tipicamente novecentesca, in favore di un confronto serrato ed empatico con la forma del mondo).
LA TOMBA DEL POLLO A QUATTRO COSCE
Conversazione fra Michel Blazy e Ivana Mulatero
Ile de Saint Denis-Paris, 2 agosto 2007 - In collaborazione con Chiara Pastorini
Ivana Mulatero: Da una tua piccola pubblicazione intitolata “La Toilette de Blacky Nature molle à la barquette”, che documenta l’esposizione Capilliculture animalière tenutasi nell’estate 2005 a Château de Tours, mi incuriosiscono le immagini di alcune tavole apparecchiate in cui in primo piano vi sono bicchieri, vaschette, verdure e frutta, dall’aspetto lattiginoso e diafano, appunto molle. È immediato domandarsi di quali materiali ti sei avvalso e con quali procedimenti.
Michel Blazy: Ho realizzano degli stampi in agar-agar su stoviglie, pirofile e poi su mele, zucchine, etc. In seguito tutti questi elementi, per reazione chimica, sviluppano un mutamento, si riducono di dimensione e assumono un aspetto da “natura molle”.
Quel ”in seguito” mi suggerisce che questo lavoro su nature molli implica una concezione del tempo, che è di genere particolare. Si direbbe un tempo “lungo”, è cosi?
MB: Il tempo interviene sempre, ed è lui che lavora costituendo la metamorfosi dell’opera. Anche qui, nel mio studio e nel giardino con le piante, e anche gli animali che mi circondano, ogni cosa è governata dal tempo. Per quanto tempo le cose resteranno così, in questo stato? Il mio lavoro ha bisogno di tempo per esistere.
Si tratta di una condizione mai fissa nè stabilizzata o cristallizzata, ma in continuo mutamento?
MB: Sí, ci sono degli stati che evolvono, a volte fin quasi alla completa sparizione dell’opera. In seguito, è possibile ricominciarla e per me è molto importante annotare le modalità di fabbricazione, quindi, è cruciale il ruolo della memoria. Nelle tecniche impiegate non c’è davvero alcun savoir faire. Perché io non ne ho alcuno! Non sono particolarmente competente e quindi si tratta di cose che sono davvero molto semplici da realizzare.
Abitualmente usi dei quaderni su cui registrare le diverse trasformazioni?
MB: Uso dei video. Ci sono diverse maniere in cui io utilizzo i video: possono essere una sorta di memoria, e in questo caso il video è semplicemente come una ricetta scritta (in cui però si filmano i gesti) che consente di riprodurre l’opera (si tratta in questo caso di video-documentazione), oppure i video possono essere concepiti come dei film.
Anche nel progetto che hai ideato per il Parco d’Arte Vivente sarà presente un video. Quali sono le condizioni fondamentali che presiedono l’ideazione complessiva dell’opera La tomba del pollo a quattro cosce?
MB: L’opera deve essere in rapporto con un ambiente, in altre parole, essa deve poter vivere all’esterno e, allo stesso tempo, nell’ambito di un interno, nello specifico del progetto che ho ideato per il parco d’Arte Vivente, in uno stand della fiera “Altissima 14”. Spesso, io lavoro con il tempo e ci sono cose che si mostrano per tre giorni (e bisogna che qui l’evoluzione si abbia rapidamente), e ce ne sono altre che possono permanere per un anno. I materiali, in funzione delle varie condizioni esterne, evolvono in una certa maniera. Quindi, utilizzando il tempo, faccio in modo che succeda qualche cosa quando la gente guarda la mia opera. Può essere qualcosa che vive o che muore, ma la gente deve sentire che sta vivendo qualcosa nel presente e che ciò che vede non sarà più così dopo.
Materialmente l’opera si compone di una cassa in polistirolo di grandi dimensioni, che può ricordare gli imballaggi industriali con gli angoli arrotondati, riempita di terra e in essa ci sono dei funghi che crescono.
Qual è il tempo della loro crescita?
MB: Circa tre settimane. Quando si comprano, ci sono le istruzioni per l’uso: è molto semplice coltivarli. Nella cassa in polistirolo, di notevoli dimensioni, sono collocate le singole scatole in cui crescono i funghi, poi uniformate dalla terra, e nell’insieme pare di osservare un vero giardino, al cui centro vi è il grande scheletro di un pollo adagiato sulla superficie. Le ossa di questo scheletro sono ricavate da un impasto che ottengo utilizzando i biscotti per cani, fatti a loro volta con dei sottoprodotti animali.
E probabilmente sono fatti anche con il pollo.
MB: Con il pollo, le mucche, i tacchini...tutto. Quindi la mia opera è una vera spoglia animale!
Si tratta di un pollo preistorico?
MB: Forse. Oppure del futuro! Nell’insieme, l’opera è come una tomba dove, a poco a poco, le ossa scompariranno perché ci sono i funghi, e quando li innaffieremo, ci saranno dei piccoli moscerini i quali, a loro volta, depositeranno le uova nelle ossa. Perciò, lentamente, lo scheletro scomparirà. Ma non in tre giorni!
Questo è un progetto sulla capacità da parte della materia vivente di trasformarsi e di produrre altre cose, e, allo stesso tempo, una critica al modo molto utilitaristico di utilizzare questa materia vivente tipico della nostra società consumistica.
In che senso si tratta di una critica alla nostra società dei consumi?
MB: Diciamo che il pollo a quattro cosce rappresenta l’idea dello sfruttamento animale per far produrre sempre più carne. Per esempio, so che ai polli si asportano gli occhi e si bruciano le narici. Dal momento che sono allevati molto vicini gli uni agli altri, questa pratica è utilizzata per impedire che si feriscano a vicenda. E in seguito si fanno ingrassare, non hanno nemmeno le piume. Ci si serve di questa materia come se fosse inanimata.
Ed è un progetto reale quello di produrre dei polli a quattro cosce!
Quest’opera ricorda la cappella di una chiesa, uno spazio raccolto, con l’entrata che dà direttamente sulla tomba e un muro come fondale di colore bianco ma sfogliato e pieno di strane muffe, realizzate con una pennellatura di agar-agar, come in precedenti interventi, penso al padiglione che hai proposto al MAMAC di Nizza nella primavera 2007, all’interno dell’esposizione Nice to meet you. Un muro dalle tonalità rosse, sfrangiato, che emetteva dei suoni, perché la materia di agar-agar si distende e si strappa producendo dei crack, crack, crack… In aggiunta, una parete laterale offre la vista di una “cicatrice” da cui gocciola un liquido rosso.
MB: L’idea è soprattutto di realizzare uno spazio vuoto. Come nei dipinti di nature morte sulle vanitas, ci sono le rose, il cranio e anche i muri che si sbucciano.
Certe nature morte sulla vanità di scuola olandese del XVII secolo erano un’enigma, una meditazione sul tempo e sulla morte, o meglio, sulla caducità della vita. Che relazione può esserci tra la tomba del pollo a quattro cosce e la cicatrice nel muro?
MB: La cicatrice è l’immagine di una ferita. Già a partire da questa sola parola si possono fare molteplici interpretazioni. Per esempio, immaginare che si tratti di una ferita del mondo animale.
Le tue opere cercano soprattutto di impressionare lo spettatore o, piuttosto, di portarlo ad una consapevolezza critica su alcuni problemi?
MB: Né l’uno, né l’altro. Non voglio che le opere siano interpretate come messaggi politici di rivendicazione. Preferisco realizzare delle cose che assomigliano ad un enigma, che lo spettatore non coglie chiaramente. Voglio che provi allo stesso tempo una specie di disgusto e di attrazione per l’opera. Preferisco che i sentimenti rimangano ambigui. Le reazioni possono essere indifferentemente negative o positive, ma le opere non lasciano mai indifferenti le persone, ed è sicuramente richiesto un nuovo genere di attenzione da parte dello spettatore, che non è quella che usualmente si rivolge ad un’opera d’arte.
Con i biscotti per cani utilizzati come se fossero ossa, avevi già realizzato alcune opere come Ver dur del 2000, esposta alla galleria parigina Art:Concept, e sempre nello stesso spazio, cinque anni dopo Vanité au bacon.
MB : In quegli interventi le ossa erano di colore verde, a Torino saranno bianche. Quindi, con il bianco del polistirolo e il bianco dei funghi ci sarà anche una corrispondenza formale tra le ossa che scompaiono e i funghi che crescono. Come se le ossa fossero assorbite dalla terra e rinascessero nei funghi.
Le ossa le realizzi tu? Non esistono di queste dimensioni in commercio.
MB: Sí.
E’ come se tu fossi un cuoco (in un “…anarchic kitchen garden”, per dirla con le parole di Pascal Pique), usi i cibi per cani e li ricucini producendo delle sculture.
MB: E’ vero, e questi materiali sono interamente biodegradabili. Bisogna che siano assorbiti nel terreno e che non ci siano altri componenti. Ogni biscotto viene grattugiato e poi impastato con l’uovo, che funge da collante e può essere addizionato con un colorante alimentare. C’è, in questo senso, un richiamo alla classicità della storia dell’arte, in cui l’uovo era impiegato nella preparazione della pittura a tempera.
C’è una continuità tra l’opera Ver dur e quest’ultimo progetto della Tomba del pollo a quattro cosce?
MB: Sí, certo, si tratta di una continuità “materiologica”. Tutte le sculture che creo sono realizzate con materiali molli, mousse di carote o patate, cioccolato, oppure che cadono, come la schiuma. Le sole sculture “dure” che ho costruito sono degli scheletri. Mi sembra che ogni volta che lavoro ad una scultura è come se producessi un essere vivente. Affinché la struttura tenga, occorre realizzare lo scheletro, come nella scultura quando si realizzano le armature di ferro.
Mi sembra che nel tuo progetto per Torino siano contenute due direzioni opposte: l’idea della crescita, rappresentata dalla coltivazione dei funghi, e in senso inverso lo scomparire dello scheletro. E sono messe in luce due tendenze fondamentali: l’innalzamento e lo sprofondamento.
MB: Sono tendenze che fanno parte della scultura stessa. Si cerca di mettere dritto qualche cosa che, invece, ha l’abitudine a cadere. Si tratta del movimento della vita e della morte. Generalmente, noi mettiamo una barriera molto netta tra le due entità, cercando di separarle, ma in realtà si tratta della stessa materia che è in incessante trasformazione. C’è la morte degli individui, ma non c’è mai la morte del movimento.
Alla tua opera si potrebbe applicare il celebre aforisma attribuito ad Eraclito, dal greco πάντα ῥει, tradotto come “tutto scorre” , un divenire per cui nulla si crea o si distrugge, ma, al contrario, si trasforma. Del resto anche Jackie-Ruth Meyer ha sottolineato che il tuo lavoro non si riferisce a conoscenze teoriche, non si basa su sistemi scientifici o estetici, esso è “…a life-size experience to be shared and its philosophical dimension fosters plenty of consequences”, ed elencando i luoghi in cui abitualmente vivi e lavori - cucina, studio, giardino –gli elementi vitali sono preparati e assemblati seguendo i metodi di germinazione, contaminazione o di attrazione capillare.
MB: E’ vero. La terra non è che della materia morta, le foglie marciscono, vengono mangiate da dei piccoli animali che la trasformano, e in seguito ci sono i vermi che le trasformano in terra. Quando sono arrivato in questo giardino non c’era terra. E la terra è soltanto erba morta. La morte è allo stesso tempo il fermento della vita. Ma per tornare alla tua domanda circa una possibile continuità tra le opere precedenti e La tomba del pollo a quattro cosce, il riferimento formale più immediato è con Ver dur perché entrambe sono costituite della stessa materia, ma in realtà, gli antenati sono tutti i lavori precedenti. In ognuno vi è il riferimento al movimento tra la vita e la morte, ciò che cresce e ciò che sparisce, e in essi presiede l’idea di utilizzare dei materiali e di osservarne la vita nelle diverse fasi di mutamento biologico. Sono tutti materiali che di solito compro al supermercato, che hanno una data di scadenza e che, portati in studio, è come se acquistassero una vita propria. Nel mio atelier vivono il cane, il gatto, ci sono i topi e le piante, quindi vengono trasformati anche dal contesto ambientale ed esistenziale.
Ciò che si acquista al supermercato ha un aspetto molto plastico, brilla come la pittura acrilica, e ciò che io utilizzo mi preme che provenga inizialmente dall’industria. Il riferimento è la natura ma trasformata dall’industria. Utilizzandoli, compio un percorso inverso, è come se li rimettessi nel circuito naturale.
Ed è come liberare questi prodotti dalla prigionia dell’uomo.
MB: Si tratta di una liberazione del prodotto sia dal tempo - perché i prodotti comprati al supermercato hanno una data di scadenza - che dalla loro stessa funzione. Ovviamente la loro data di scadenza è in funzione della loro possibilità di essere consumati dall’uomo. I prodotti sono liberati dal tempo e dalla loro funzione, e quello che io faccio è osservare ciò che succede e cercare di riprodurlo.
Io mi chiedo se questi elementi (come ad esempio, le verdure, le mousse, le gelatine) sono “viventi” se considerati perlopiù dal punto di vista della materia oppure se considerati come concetto di vivente?
MB: Parlo di vivente da entrambe le prospettive. Per il progetto torinese è veramente questione di vivente sul piano della materia perché sarà della materia vivente che subirà dei processi di trasformazione, sparirà e allo stesso tempo ci sarà altra materia che comparirà. Ma sempre si può parlare di vivente anche sul piano dei concetti in quanto attraverso, ad esempio, le istruzioni per le modalità di utilizzo, l’opera acquista una vita autonoma e può essere riprodotta senza il mio intervento.
Le tue opere diventano degli organismi autonomi, caratterizzati da una loro soggettività?
MB: Si.
In un’intervista con François Piron, che ha riportato come spesso i critici ti considerino un “contemporary art gardener”, hai detto che il tuo lavoro concerne il vivente, ma non la natura. Puoi spiegare in che senso?
MB: Innanzitutto è difficile definire che cos’è la natura. Quando si parla di natura facciamo riferimento, implicitamente, a quello che non è natura, a ciò che è cultura. Non sono sicuro che la natura esista. Per me ci sono semplicemente le cose che sono viventi e quelle che non lo sono. In quell’intervista ho detto a Piron che considero il mio lavoro come un essere che ha più connessioni con la science fiction che con la natura. Amo la metafora del seme, che riguarda un po’ tutti i miei progetti e i materiali coinvolti, organici e inorganici, che svolgono mutamenti minimi, indipendentemente da me e a volte quasi impercettibili, in una condizione latente di dormiveglia. Mi piace l’idea di questo minimo stato di esistenza.
Quindi, preferisci parlare non di elementi naturali o non-naturali, ma, piuttosto, di viventi e di non-viventi. In questo senso, il concetto di vivente sostituisce quello di natura?
MB: Sí, ma il concetto di vivente ingloba anche il concetto di artificialità. Se inseriamo una sostanza corrosiva in un terreno questa agisce sulla materia vivente e il tutto costituisce a sua volta ancora un insieme vivente. Quindi, nel concetto di vivente è compreso l’ambito dell’artificialità, ma non lo è in quello di naturale. Per esempio, le piante che vivono nelle città in particolare le erbacce, ci sono perché c’è l’uomo; esse si nutrono dell’inquinamento stesso che l’uomo produce. Gli uccelli che vivono in gabbia non possono volare. Se volano muoiono perché sono degli uccelli da allevamento, non ne esistono di questo tipo in libertà. Sono dei volatili che sono stati prodotti per rimanere nelle gabbie. Altro esempio: se si lascia il mio cane nella natura sopravvive al massimo per tre giorni!
Non si può parlare di cose che sarebbero state prodotte dalla natura perché quando parliamo di natura la opponiamo alla cultura, quindi la consideriamo come qualcosa di assolutamente indipendente dall’uomo. Ma siccome l’uomo è sulla terra da moltissimo tempo, ha modificato tutto. Ciò che chiamiamo natura o terra è, in realtà, una specie di giardino da gestire. È difficile parlare di natura come di qualcosa che sussista indipendentemente dall’uomo, del resto i miei progetti oltrepassano la dicotomia fra artificialità e natura. In questo senso preferisco riferirmi al vivente, inteso come insieme di vita, cultura e artificio.
Un insieme in cui si rispecchia anche la complessità della situazione e vari elementi entrano in gioco.
MB: C’è un termine che mi piace molto, ed è la parola “selvaggio”. Tutte le cose che non controlliamo e che fanno parte del nostro quotidiano (per esempio i moscerini, i ragni, le erbacce in città etc.) rappresentano la sola circostanza in cui si manifesta il selvaggio. Il selvaggio si esprime in ciò che non è controllato.
Si può fare un parallelismo tra il concetto di terzo paesaggio di Gilles Clément, dove la natura ritorna ad essere selvaggia in certi punti perché non è seguita dall’uomo, e il meccanismo di vita dei tuoi lavori che sono innescati da te, ma poi vivono per conto loro creando tutta una serie di cambiamenti e di interconnessioni. I tuoi lavori possono essere paragonati alle piante selvagge (magari anche erbacce) che vengono lasciate dal giardiniere libere di crescere?
MB: In effetti, Clément è forse la persona a cui mi sento più vicino. L’ho incontrato una decina di anni fa alla Fine Arts School di Valente e insieme abbiamo realizzato una piccola pubblicazione intitolata “Contributions à l’étude du jardin planétaire” (ERBA Editions, Valence 1995).
Senza dubbio, è una persona che ha lasciato un segno in me, penso al concetto di “giardino planetario” e all’idea del minimo intervento che è sempre stata uno dei miei maggiori interessi. il suo rapporto al vivente e alla pianta, mi riguarda molto. Nel mio piccolo cortile verde, io svolgo la sua stessa attività, cioè non pianto nulla, guardo semplicemente le piante vivere e sviluppare un loro specifico ecosistema. Quello che mi piace di Clément è che considera il giardino a partire dall’individuo “pianta”. Lui guarda la pianta e poi non si comporta come un paesaggista che cerca di costruire un paesaggio, ma come un giardiniere che si mette dal punto di vista dei bisogni del vegetale, e con questa forma mentis interviene su degli altri materiali.
Io guardo le mie sculture un po’ come lui guarda le piante. Osservo l’opera, scruto che cosa le succede, come si trasforma nel tempo e annoto i diversi rapporti che si creano con gli altri esseri viventi che la circondano.
Saranno Michel Blazy, Jun Takita, Ennio Bertrand e la coppia creativa Caretto/Spagna, nonché Francesco Mariotti a fare da porta-voce del PAV (Parco Arte Vivente) e ad annunciare al pubblico di Artissima14 il programma di lavoro del Direttore Artistico Nicolas Bourriaud per l’apertura di questo progetto unico al mondo a Torino, in un’area verde di 23.000 mq, zona Lingotto, in Via Giordano Bruno 31. A promuoverlo –dal 2002- l’associazione culturale PAV (ACPAV) guidata dall’artista Piero Gilardi che ha offerto al Comune di Torino (partner del progetto insieme a Fondazione Torino Musei e Azienda Multi-servizi Igiene Ambientale Torino- AMIAT) idea, disegni, contatti, sviluppo del progetto di bio-architettura e gestione, trasformando quella che doveva essere una semplice area verde cittadina in un nuovo modello museale.
“La tomba del pollo a quattro cosce” di Michel Blazy sul fondo del Padiglione 3 accanto all’area Vip Lunge e l’installazione di Jun Takita, sul lato opposto, insieme ad alcune immagini dei suoi lavori saranno un omaggio del PAV al pubblico di Artissima. Le opere di Ennio Bertrand e Caretto/Spagna saranno invece a disposizione di chi vorrà visitare la sede temporanea del PAV, in Via Giordano Bruno 181, a dieci minuti dall’area in cui fervono i lavori che porteranno nella prossima apertura del PAV prevista per l’estate 2008, e in cui Francesco Mariotti ha recentemente completato il suo nuovo progetto legato alle “lucciole”, dal titolo “Enclave”.
“Sono lavori emblematici rispetto al lavoro che vogliamo fare attraverso il PAV” spiega Nicolas Bourriaud “Non vogliamo limitare la programmazione all'utilizzo di elementi viventi o naturali, concepiamo piuttosto il PAV come il punto di aggregazione di energie artistiche che mirano a trasformare la società, a generare incontri, a riflettere sull’ambiente e il nostro modo di entrare in relazione con esso”.
Non quindi un semplice parco di sculture o un giardino d'arte contemporanea: piuttosto un centro d'arte che metterà in relazione lo spazio aperto (usufruibile da tutti gratuitamente) con installazioni e progetti artistici, nonché con una struttura espositiva/esperienziale realizzata attraverso criteri di bio-architettura.
I sostenitori del PAV (l’Associazione Parco d’Arte Vivente guidata da Piero Gilardi) e il suo giovane direttore artistico preferiscono la definizione di Félix Guattari (“Le tre ecologie”): un parco d'ecologia ambientale, sociale e mentale capace di coinvolgere gli artisti contemporanei che prediligono per la loro ricerca tematiche ambientali e/o sociali, sostenendoli e promuovendoli presso il grande pubblico.
Seguendo il ritmo delle stagioni, il PAV darà vita a esposizioni temporanee di artisti internazionali che verranno invitati in base al loro progetto di ricerca nei settori dell'ecologia, della biologia e del sociale, in pratica nell'ambito del “vivente”. Il PAV inoltre darà vita a due progetti annuali “permanenti”: “Non tanto costruzioni, la cui influenza sarebbe troppo importante sul terreno” spiega Bourriaud “quanto sorte di ‘accampamenti’, con materiali naturali o riciclabili, o costruzioni destinate a una dissoluzione progressiva.”
Nell’ultima giornata di Artissima14 il Direttore Andrea Bellini incontrerà Nicolas Bourriaud, Jun Takita, Piero Gilardi e i critici Lorenza Perelli, Francesco Poli, Domenico Quaranta e Franco Torriani in un dibattito aperto al pubblico sul tema “Luoghi e processi creativi dell’arte del vivente” coordinato da Ivana Mulatero. L’appuntamento è per Domenica 11 Novembre 2007 alle 16.30.
Informazioni per il pubblico:
+39 392 8353787
info@parcoartevivente.it
“LUOGHI E PROCESSI CREATIVI DELL’ARTE DEL VIVENTE”
Artissima14, Torino Lingotto, Padiglione 3 Sala Conferenze, Domenica 11.11 ore 14.30 - 16.30
Sulla scena internazionale dell’Arte Contemporanea si è affermata, ed è in capillare espansione, una ricerca artistica riconducibile al concetto di “Arte del Vivente”.
Le sue declinazioni sono svariate e vanno dalle esperienze di Michel Blazy, Natalie Jeremijenko, Barbara Nemitz, Lois Weinberger, Alan Sonfist, Marjetica Potrc, Avital Geva, Erik Samakh, Henrik Håkansson, Caretto/Spagna, Vittorio Corsini e Francesco Mariotti, alle operazioni bio-tech di Eduardo Kac, Marta De Menezes, Jun Takita, SymbioticA e George Gessert.
Le metodologie operative di tutti questi artisti hanno peculiari ed innovative caratteristiche in virtù della consonanza con la logica del vivente, quindi con il continuum, l’interdipendenza e la complessità dei fenomeni viventi che accomunano il naturale e l’artificiale in un unico flusso.
Le opere che ne scaturiscono vivono nella dimensione del tempo organico; sono quindi processuali ed intrinsecamente relazionali poichè presuppongono ed incorporano il tempo di vita dell’osservatore; esprimono la sensibilità soggettiva dei loro autori,ma nel contempo inducono una riflessione cognitiva sull’odierno rapporto uomo-natura.
Il white cube del museo appare inadeguato ad accogliere e comunicare le pratiche dell’arte del vivente, anche se della loro processualità è possibile render conto attraverso vari tipi convenzionali di display: dall’installazione in progress, alla performance, al video, al network telematico.
Parafrasando la definizione assunta dal Palais de Tokyo di Parigi, quale “site de creation contemporaine”, occorrono nuovi siti e nuove tipologie di strutture ed istituzioni d’arte affinché queste esperienze dal vivo, in vitro o espanse sul territorio, possano avere corso sulla base di riferimenti spazio-temporali coerenti e con la partecipazione attiva e sistemica del pubblico.
La formula istituzionale aggiornata del “parco d’arte” appare come una delle risposte più congruenti al problema dei nuovi e necessari siti. Un parco d’arte nasce da una preliminare operazione microurbanistica: la creazione di un polmone verde protetto.
L’assetto architettonico e funzionale si conforma alla biocompatibilità ed al design del paesaggio; contiene dei laboratori polivalenti per la ricerca, anche nei suoi aspetti tecno-scientifici. Il suo staff ha l’attitudine a monitorare, assistere e rigenerare i processi viventi di lunga durata innescati dagli artisti e, nello stesso tempo, a mediare la comprensione dei processi estetici e dei fenomeni organici da parte del pubblico.
Il Parco d’Arte Vivente intende inserirsi nella rete internazionale della ricerca sull’ “arte del vivente”, attraverso mostre, convegni, workshop e pubblicazioni.
Durante l’incontro dell’11 Novembre, a Torino, durante Artissima14, verranno presentati gli atti del convegno “Dalla Land Art alla Bio Arte” (GAM Torino 20 Gennaio 2007).
Il volume edito da Hopefulmonster e curato da Ivana Mulatero –curatrice dell’Art Program del PAV- raccoglie il pensiero sulla tematica della natura e del vivente di un ampio ventaglio di autori: da Nicolas Bourriaud, teorico dell’“Esthetique Relationnelle”, a Pier Luigi Capucci, teorico dell’arte neotecnologica; da Jens Hauser, fondatore della Biotech Art, a Roberto Marchesini, teorico dell’epistemologia del posthuman; da Louis Bec, artista della Genetic Art, a Franco Torriani, esperto di New Media Art.
Alla Tavola rotonda sono invitati a partecipare i critici d’arte Nicolas BOURRIAUD, Paolo BIANCHI, Francesco POLI, Lorenza PERELLI, Domenico QUARANTA e Franco TORRIANI. Gli artisti invitati a testimoniare la propria ricerca sono Michel BLAZY, Piero GILARDI, Jun TAKITA.
Il dibattito sarà introdotto dal direttore di ARTISSIMA 14 Andrea BELLINI e coordinato da Ivana MULATERO.
Michel Blazy
Nato a Monaco nel 1966 vive e lavora a Parigi, dove è conosciuto per le sue sculture/installazioni realizzate con materiali insoliti.
Affascinato dalle materie organiche, dagli alimenti deteriorabili e dai prodotti alimentari secchi, cristallizza le sue creazioni attorno a temi che ricordano la condizione umana: morte, decadimento, putrefazione.
Michel Blazy lavora con il vivente. Lo mette al centro del suo lavoro d'artista e lascia “che l’opera si faccia da se”. Dispositivi evolutivi ed impianti transitori gli permettono di esplorare la proliferazione incontrollata di microorganismi le cui trasformazioni ed i cambiamenti di stato sono momenti necessari all'attivazione dell'opera ed al suo sviluppo, nel senso più concreto del termine. Costruttore di universi aleatori e fragili, Michel Blazy ama trattare la materia, tentare di controllarne scomparsa e trasformazione.
Così, Michel Blazy ha esposto in grandi musei pomodori in piena decomposizione, testimoni del destino inevitabile dell'uomo, ma anche della bellezza e della caratteristica di una natura vivente ed in costante cambiamento.
I micro-eventi che l'avventura suscita sono essenziali alle tappe del percorso: germinazioni auspicate o accidentali, disseccazioni ed alterazioni delle materie, muffe e putrefazioni microscopiche, deterioramenti delle superfici, decomposizioni, trasmutazioni, decrepitezze delle forme, tutte queste energie febbrili del vivente sono rivendicate dall'artista come altrettante operazioni essenziali all'elaborazione dell'opera.
Il vivente non si concepisce senza energie multiple mortifere, metamorfosi e numerose caratteristiche. Le opere dell'artista integrano questa complessità che si spiega con tutte le sue ambiguità, il suo carattere a volte inquietante, o che rifiuta. Ragni, pelle d'animale, trofei di caccia, fungo atomico, scheletri... altrettante sculture in materie commestibili che formano uno sconosciuto bestiario, un “gabinetto” di curiosità paradossali.
Statico da un certo punto di vista, il lavoro dell'artista è effettivamente abitato da una folla di movimenti trascurabili che non cessano di fare e demolire in continuazione le forme, che deviano le categorie della percezione, come avviene nel mondo dell'arte.
Altra costante del lavoro di Blazy un sense of humor più british che francese o tedesco: sculture in tagliatelle di soia di un tuorlo/pulcino, barboncini in schiuma da barba…
Il bestiario ed i paesaggi di Michel Blazy formano un mondo precario e sensibile dove la riproducibilità tecnica è di nuovo messa in dubbio nell'arte: avrà o non avrà un futuro?
Riconosciuto a livello internazionale, la mostra più recente che lo ha visto protagonista è stata Post Patman, al Palais de Tokyo di Parigi, dopo aver esposto in due mostre personali a Tokyo e Versailles nel 2006.
www.galerieartconcept.com
Jun Takita
Nato nel 1966 a Tokyo, Jun Takita, è un grande conoscitore dell’arte moderna e contemporanea occidentale e ha contribuito a rivisitare le relazioni fra cultura giapponese e cultura artistica occidentale con opere video in cui si interroga su dipinti collezionati dai musei del suo paese, quali: Girl with Hair Ribbon di Roy Lichtenstein (Museo d’Arte Contemporanea di Tokyo); The Sower di J.F.Millet (Yamanashi Prefectural Museum of Art); i Girasoli di Vincent van Gogh (Seiji Togo Memorial Yasuda Kasai Museum of Art); La Madone de Port Ligat di Salvador Dali (Fukuoka Art Museum).
Ennio Bertrand
Ennio Bertrand è membro dell’Associazione Arstechnica, fondata nel 1988 a Parigi presso “La Cité des sciences et de l'industrie, La Villette” e cofondatore di Arslab, arte scienza e nuovi media a Torino nel 1996.
Bertrand lavora con immagini e luci digitali, video, suono e installazioni interattive per le quali sviluppa sia software chw hardware.
Le sue ricerche esplorano la percezione, le interazioni sociali e i media delle comunicazioni. Vive e lavora a Torino e Milano.
Caretto/Spagna
Andrea Caretto è nato a Torino nel 1970. E’ laureato in Scienze Naturali presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino, con una tesi in museologia scientifica.
Raffaella Spagna è nata a Rivoli nel 1967. E’ laureata in Architettura indirizzo Urbanistico, presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, con una tesi sull’architettura del paesaggio e l’arte dei giardini.
I due artisti hanno iniziato a collaborare nel 2002. Vivono e lavorano a Cambiano (To) Recentemente hanno preso parte alle mostre: T1 The Pantagruel Syndrome, Torino Triennale Tre Musei, al Castello di Rivoli, Museo d’Arte Contemporanea (Rivoli, Torino, 2006), a CHRONOS, il tempo nell’arte dall'epoca barocca all’età contemporanea, al CeSAC – Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee, di Caraglio (Cuneo, 2005), a Empowerment: Cantiere Italia, al Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce e Villa Bombrini di Genova (2004), a Località, Critica in opera 29, alla Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Castel San Pietro (2003) e a How Latitudes Become Forms. Art in a global age, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2003). Hanno esposto alle mostre personali:
Domesticazioni, presso Fabio Paris Art Gallery di Brescia (2005) e Azioni 2000-2006, presso il Museo Marino Marini di Firenze (2006). Hanno curato interventi e workshop tra i quali “Colonizzazione_01 - azione collettiva di vita e lavoro in uno spazio interstiziale” per il Parco d’Arte Vivente svolto nel dicembre 2006.
Francesco Mariotti
Francesco “Pancho” Mariotti è nato a Berna nel 1943 da genitori di origine svizzero-italiani. A nove anni con la famiglia si trasferisce in Perù, a Lima dove inizia gli studi ma sarà a Parigi che frequenterà i primi corsi d’arte per poi iscriversi alla facoltà di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Amburgo. Proprio qui nascono nel 1966/67 i suoi primi “Duftbilder”, quadri-paesaggio su un’idea di natura evocata dalla mediazione tecnologica.
La ricerca di un’integrazione tra arte e strumenti di vario tipo, prototecnologici e di fattura anche molto artigianale, e soprattutto l’attenzione per i sistemi energetici generatori di diverse fonti luminose, lo avvicinarono a Klaus Geldmacher con il quale iniziò un sodalizio di lavoro e di amicizia che porterà a firmare insieme fino ai più recenti dedicati alle “Lucciole”.
Le lucciole tecnologiche di Mariotti, soprattutto quelle esposte nella mostra a Lima del 1996, intitolata “Il ritorno delle lucciole”, rappresentavano la risposta provocatoria alla denuncia di Pasolini della loro scomparsa. “Io cerco di marcare un segno di ottimismo, forse ancora più tragico perché artificiale. Parecchie installazioni che ho allestito in giro per il mondo, hanno provocato spesso le stesse reazioni nel pubblico. Alcuni dicono: Mi sono sentito così bene, era come stare in un bosco, i ricordi da bambino…”.
BIOARTE
Conigli verdi che brillano al contatto con i raggi della luce del sole, maiali con le ali, cloni di alberi, ibridi di fiori e farfalle transgeniche. Non sono i protagonisti di un fumetto o di un cartone animato ma opere artistiche, anzi bio-artistiche. A realizzarle sono gli artisti biotech che, maneggiando provette, coltivando tessuti epidermici, incrociando fiori, si stanno affermando come esponenti di una nuova tendenza mondiale, che porta l’arte dentro i laboratori di genetica e di biologia.
Questi artisti-scienziati sono dei pionieri in questo campo e ricordano i primi net-performer che utilizzavano l’informatica come mezzo di espressione creativa. La bioarte non condanna le biotecnologie, anzi, le sperimenta allo scopo di sollevare il velo su quanto accade all’interno dei laboratori di genetica e fa presa sui timori provocati dall’accelerazione stimolata dal progresso tecnologico.
LAND ART
La Land Art o Earth Art nasce negli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70 come esperienza creativa nell’ambito dell’arte concettuale, ma la definizione viene utilizzata per la prima volta soltanto nel 1969, in California, da Gerry Schum, autore di un famoso video sull’argomento, in riferimento al lavoro di artisti come Richard Long, Barry Flanagan, Robert Smithson, Dennis Oppenheim, Walter De Maria, e Christo, ecc. che agiscono direttamente sul paesaggio, modificandone l’aspetto mediante interventi temporanei o facendo uso di materiali naturali. L’azione prevede quindi l’obsolescenza delle opere, programmata dall’artista o affidata all’indomita vitalità degli agenti naturali, che rende il tempo, cioè il nemico principale dell’arte tradizionale, indissolubilmente connessa al concetto della sua persistenza, un protagonista positivo e previsto fin dall’inizio del linguaggio artistico.
La Land Art manifesta un’attenzione ecologica per la natura, per la sua armonica vitalità, per i ritmi e per l’ordine che la caratterizzano e coi quali l’uomo è chiamato a interagire. Il paesaggio diventa per questi artisti l’orizzonte “biologico” per l’esercizio di una creatività la cui vocazione non è tanto quella di produrre un’innovazione ispirata dalla tracotanza della tecnica quanto quella di introdurre una trasformazione consonante con la specificità della vita e col tempo che la regola (tale atteggiamento trova riscontro anche nel ripudio, condiviso con la Minimal Art, della ricerca della novità formale, tipicamente novecentesca, in favore di un confronto serrato ed empatico con la forma del mondo).
LA TOMBA DEL POLLO A QUATTRO COSCE
Conversazione fra Michel Blazy e Ivana Mulatero
Ile de Saint Denis-Paris, 2 agosto 2007 - In collaborazione con Chiara Pastorini
Ivana Mulatero: Da una tua piccola pubblicazione intitolata “La Toilette de Blacky Nature molle à la barquette”, che documenta l’esposizione Capilliculture animalière tenutasi nell’estate 2005 a Château de Tours, mi incuriosiscono le immagini di alcune tavole apparecchiate in cui in primo piano vi sono bicchieri, vaschette, verdure e frutta, dall’aspetto lattiginoso e diafano, appunto molle. È immediato domandarsi di quali materiali ti sei avvalso e con quali procedimenti.
Michel Blazy: Ho realizzano degli stampi in agar-agar su stoviglie, pirofile e poi su mele, zucchine, etc. In seguito tutti questi elementi, per reazione chimica, sviluppano un mutamento, si riducono di dimensione e assumono un aspetto da “natura molle”.
Quel ”in seguito” mi suggerisce che questo lavoro su nature molli implica una concezione del tempo, che è di genere particolare. Si direbbe un tempo “lungo”, è cosi?
MB: Il tempo interviene sempre, ed è lui che lavora costituendo la metamorfosi dell’opera. Anche qui, nel mio studio e nel giardino con le piante, e anche gli animali che mi circondano, ogni cosa è governata dal tempo. Per quanto tempo le cose resteranno così, in questo stato? Il mio lavoro ha bisogno di tempo per esistere.
Si tratta di una condizione mai fissa nè stabilizzata o cristallizzata, ma in continuo mutamento?
MB: Sí, ci sono degli stati che evolvono, a volte fin quasi alla completa sparizione dell’opera. In seguito, è possibile ricominciarla e per me è molto importante annotare le modalità di fabbricazione, quindi, è cruciale il ruolo della memoria. Nelle tecniche impiegate non c’è davvero alcun savoir faire. Perché io non ne ho alcuno! Non sono particolarmente competente e quindi si tratta di cose che sono davvero molto semplici da realizzare.
Abitualmente usi dei quaderni su cui registrare le diverse trasformazioni?
MB: Uso dei video. Ci sono diverse maniere in cui io utilizzo i video: possono essere una sorta di memoria, e in questo caso il video è semplicemente come una ricetta scritta (in cui però si filmano i gesti) che consente di riprodurre l’opera (si tratta in questo caso di video-documentazione), oppure i video possono essere concepiti come dei film.
Anche nel progetto che hai ideato per il Parco d’Arte Vivente sarà presente un video. Quali sono le condizioni fondamentali che presiedono l’ideazione complessiva dell’opera La tomba del pollo a quattro cosce?
MB: L’opera deve essere in rapporto con un ambiente, in altre parole, essa deve poter vivere all’esterno e, allo stesso tempo, nell’ambito di un interno, nello specifico del progetto che ho ideato per il parco d’Arte Vivente, in uno stand della fiera “Altissima 14”. Spesso, io lavoro con il tempo e ci sono cose che si mostrano per tre giorni (e bisogna che qui l’evoluzione si abbia rapidamente), e ce ne sono altre che possono permanere per un anno. I materiali, in funzione delle varie condizioni esterne, evolvono in una certa maniera. Quindi, utilizzando il tempo, faccio in modo che succeda qualche cosa quando la gente guarda la mia opera. Può essere qualcosa che vive o che muore, ma la gente deve sentire che sta vivendo qualcosa nel presente e che ciò che vede non sarà più così dopo.
Materialmente l’opera si compone di una cassa in polistirolo di grandi dimensioni, che può ricordare gli imballaggi industriali con gli angoli arrotondati, riempita di terra e in essa ci sono dei funghi che crescono.
Qual è il tempo della loro crescita?
MB: Circa tre settimane. Quando si comprano, ci sono le istruzioni per l’uso: è molto semplice coltivarli. Nella cassa in polistirolo, di notevoli dimensioni, sono collocate le singole scatole in cui crescono i funghi, poi uniformate dalla terra, e nell’insieme pare di osservare un vero giardino, al cui centro vi è il grande scheletro di un pollo adagiato sulla superficie. Le ossa di questo scheletro sono ricavate da un impasto che ottengo utilizzando i biscotti per cani, fatti a loro volta con dei sottoprodotti animali.
E probabilmente sono fatti anche con il pollo.
MB: Con il pollo, le mucche, i tacchini...tutto. Quindi la mia opera è una vera spoglia animale!
Si tratta di un pollo preistorico?
MB: Forse. Oppure del futuro! Nell’insieme, l’opera è come una tomba dove, a poco a poco, le ossa scompariranno perché ci sono i funghi, e quando li innaffieremo, ci saranno dei piccoli moscerini i quali, a loro volta, depositeranno le uova nelle ossa. Perciò, lentamente, lo scheletro scomparirà. Ma non in tre giorni!
Questo è un progetto sulla capacità da parte della materia vivente di trasformarsi e di produrre altre cose, e, allo stesso tempo, una critica al modo molto utilitaristico di utilizzare questa materia vivente tipico della nostra società consumistica.
In che senso si tratta di una critica alla nostra società dei consumi?
MB: Diciamo che il pollo a quattro cosce rappresenta l’idea dello sfruttamento animale per far produrre sempre più carne. Per esempio, so che ai polli si asportano gli occhi e si bruciano le narici. Dal momento che sono allevati molto vicini gli uni agli altri, questa pratica è utilizzata per impedire che si feriscano a vicenda. E in seguito si fanno ingrassare, non hanno nemmeno le piume. Ci si serve di questa materia come se fosse inanimata.
Ed è un progetto reale quello di produrre dei polli a quattro cosce!
Quest’opera ricorda la cappella di una chiesa, uno spazio raccolto, con l’entrata che dà direttamente sulla tomba e un muro come fondale di colore bianco ma sfogliato e pieno di strane muffe, realizzate con una pennellatura di agar-agar, come in precedenti interventi, penso al padiglione che hai proposto al MAMAC di Nizza nella primavera 2007, all’interno dell’esposizione Nice to meet you. Un muro dalle tonalità rosse, sfrangiato, che emetteva dei suoni, perché la materia di agar-agar si distende e si strappa producendo dei crack, crack, crack… In aggiunta, una parete laterale offre la vista di una “cicatrice” da cui gocciola un liquido rosso.
MB: L’idea è soprattutto di realizzare uno spazio vuoto. Come nei dipinti di nature morte sulle vanitas, ci sono le rose, il cranio e anche i muri che si sbucciano.
Certe nature morte sulla vanità di scuola olandese del XVII secolo erano un’enigma, una meditazione sul tempo e sulla morte, o meglio, sulla caducità della vita. Che relazione può esserci tra la tomba del pollo a quattro cosce e la cicatrice nel muro?
MB: La cicatrice è l’immagine di una ferita. Già a partire da questa sola parola si possono fare molteplici interpretazioni. Per esempio, immaginare che si tratti di una ferita del mondo animale.
Le tue opere cercano soprattutto di impressionare lo spettatore o, piuttosto, di portarlo ad una consapevolezza critica su alcuni problemi?
MB: Né l’uno, né l’altro. Non voglio che le opere siano interpretate come messaggi politici di rivendicazione. Preferisco realizzare delle cose che assomigliano ad un enigma, che lo spettatore non coglie chiaramente. Voglio che provi allo stesso tempo una specie di disgusto e di attrazione per l’opera. Preferisco che i sentimenti rimangano ambigui. Le reazioni possono essere indifferentemente negative o positive, ma le opere non lasciano mai indifferenti le persone, ed è sicuramente richiesto un nuovo genere di attenzione da parte dello spettatore, che non è quella che usualmente si rivolge ad un’opera d’arte.
Con i biscotti per cani utilizzati come se fossero ossa, avevi già realizzato alcune opere come Ver dur del 2000, esposta alla galleria parigina Art:Concept, e sempre nello stesso spazio, cinque anni dopo Vanité au bacon.
MB : In quegli interventi le ossa erano di colore verde, a Torino saranno bianche. Quindi, con il bianco del polistirolo e il bianco dei funghi ci sarà anche una corrispondenza formale tra le ossa che scompaiono e i funghi che crescono. Come se le ossa fossero assorbite dalla terra e rinascessero nei funghi.
Le ossa le realizzi tu? Non esistono di queste dimensioni in commercio.
MB: Sí.
E’ come se tu fossi un cuoco (in un “…anarchic kitchen garden”, per dirla con le parole di Pascal Pique), usi i cibi per cani e li ricucini producendo delle sculture.
MB: E’ vero, e questi materiali sono interamente biodegradabili. Bisogna che siano assorbiti nel terreno e che non ci siano altri componenti. Ogni biscotto viene grattugiato e poi impastato con l’uovo, che funge da collante e può essere addizionato con un colorante alimentare. C’è, in questo senso, un richiamo alla classicità della storia dell’arte, in cui l’uovo era impiegato nella preparazione della pittura a tempera.
C’è una continuità tra l’opera Ver dur e quest’ultimo progetto della Tomba del pollo a quattro cosce?
MB: Sí, certo, si tratta di una continuità “materiologica”. Tutte le sculture che creo sono realizzate con materiali molli, mousse di carote o patate, cioccolato, oppure che cadono, come la schiuma. Le sole sculture “dure” che ho costruito sono degli scheletri. Mi sembra che ogni volta che lavoro ad una scultura è come se producessi un essere vivente. Affinché la struttura tenga, occorre realizzare lo scheletro, come nella scultura quando si realizzano le armature di ferro.
Mi sembra che nel tuo progetto per Torino siano contenute due direzioni opposte: l’idea della crescita, rappresentata dalla coltivazione dei funghi, e in senso inverso lo scomparire dello scheletro. E sono messe in luce due tendenze fondamentali: l’innalzamento e lo sprofondamento.
MB: Sono tendenze che fanno parte della scultura stessa. Si cerca di mettere dritto qualche cosa che, invece, ha l’abitudine a cadere. Si tratta del movimento della vita e della morte. Generalmente, noi mettiamo una barriera molto netta tra le due entità, cercando di separarle, ma in realtà si tratta della stessa materia che è in incessante trasformazione. C’è la morte degli individui, ma non c’è mai la morte del movimento.
Alla tua opera si potrebbe applicare il celebre aforisma attribuito ad Eraclito, dal greco πάντα ῥει, tradotto come “tutto scorre” , un divenire per cui nulla si crea o si distrugge, ma, al contrario, si trasforma. Del resto anche Jackie-Ruth Meyer ha sottolineato che il tuo lavoro non si riferisce a conoscenze teoriche, non si basa su sistemi scientifici o estetici, esso è “…a life-size experience to be shared and its philosophical dimension fosters plenty of consequences”, ed elencando i luoghi in cui abitualmente vivi e lavori - cucina, studio, giardino –gli elementi vitali sono preparati e assemblati seguendo i metodi di germinazione, contaminazione o di attrazione capillare.
MB: E’ vero. La terra non è che della materia morta, le foglie marciscono, vengono mangiate da dei piccoli animali che la trasformano, e in seguito ci sono i vermi che le trasformano in terra. Quando sono arrivato in questo giardino non c’era terra. E la terra è soltanto erba morta. La morte è allo stesso tempo il fermento della vita. Ma per tornare alla tua domanda circa una possibile continuità tra le opere precedenti e La tomba del pollo a quattro cosce, il riferimento formale più immediato è con Ver dur perché entrambe sono costituite della stessa materia, ma in realtà, gli antenati sono tutti i lavori precedenti. In ognuno vi è il riferimento al movimento tra la vita e la morte, ciò che cresce e ciò che sparisce, e in essi presiede l’idea di utilizzare dei materiali e di osservarne la vita nelle diverse fasi di mutamento biologico. Sono tutti materiali che di solito compro al supermercato, che hanno una data di scadenza e che, portati in studio, è come se acquistassero una vita propria. Nel mio atelier vivono il cane, il gatto, ci sono i topi e le piante, quindi vengono trasformati anche dal contesto ambientale ed esistenziale.
Ciò che si acquista al supermercato ha un aspetto molto plastico, brilla come la pittura acrilica, e ciò che io utilizzo mi preme che provenga inizialmente dall’industria. Il riferimento è la natura ma trasformata dall’industria. Utilizzandoli, compio un percorso inverso, è come se li rimettessi nel circuito naturale.
Ed è come liberare questi prodotti dalla prigionia dell’uomo.
MB: Si tratta di una liberazione del prodotto sia dal tempo - perché i prodotti comprati al supermercato hanno una data di scadenza - che dalla loro stessa funzione. Ovviamente la loro data di scadenza è in funzione della loro possibilità di essere consumati dall’uomo. I prodotti sono liberati dal tempo e dalla loro funzione, e quello che io faccio è osservare ciò che succede e cercare di riprodurlo.
Io mi chiedo se questi elementi (come ad esempio, le verdure, le mousse, le gelatine) sono “viventi” se considerati perlopiù dal punto di vista della materia oppure se considerati come concetto di vivente?
MB: Parlo di vivente da entrambe le prospettive. Per il progetto torinese è veramente questione di vivente sul piano della materia perché sarà della materia vivente che subirà dei processi di trasformazione, sparirà e allo stesso tempo ci sarà altra materia che comparirà. Ma sempre si può parlare di vivente anche sul piano dei concetti in quanto attraverso, ad esempio, le istruzioni per le modalità di utilizzo, l’opera acquista una vita autonoma e può essere riprodotta senza il mio intervento.
Le tue opere diventano degli organismi autonomi, caratterizzati da una loro soggettività?
MB: Si.
In un’intervista con François Piron, che ha riportato come spesso i critici ti considerino un “contemporary art gardener”, hai detto che il tuo lavoro concerne il vivente, ma non la natura. Puoi spiegare in che senso?
MB: Innanzitutto è difficile definire che cos’è la natura. Quando si parla di natura facciamo riferimento, implicitamente, a quello che non è natura, a ciò che è cultura. Non sono sicuro che la natura esista. Per me ci sono semplicemente le cose che sono viventi e quelle che non lo sono. In quell’intervista ho detto a Piron che considero il mio lavoro come un essere che ha più connessioni con la science fiction che con la natura. Amo la metafora del seme, che riguarda un po’ tutti i miei progetti e i materiali coinvolti, organici e inorganici, che svolgono mutamenti minimi, indipendentemente da me e a volte quasi impercettibili, in una condizione latente di dormiveglia. Mi piace l’idea di questo minimo stato di esistenza.
Quindi, preferisci parlare non di elementi naturali o non-naturali, ma, piuttosto, di viventi e di non-viventi. In questo senso, il concetto di vivente sostituisce quello di natura?
MB: Sí, ma il concetto di vivente ingloba anche il concetto di artificialità. Se inseriamo una sostanza corrosiva in un terreno questa agisce sulla materia vivente e il tutto costituisce a sua volta ancora un insieme vivente. Quindi, nel concetto di vivente è compreso l’ambito dell’artificialità, ma non lo è in quello di naturale. Per esempio, le piante che vivono nelle città in particolare le erbacce, ci sono perché c’è l’uomo; esse si nutrono dell’inquinamento stesso che l’uomo produce. Gli uccelli che vivono in gabbia non possono volare. Se volano muoiono perché sono degli uccelli da allevamento, non ne esistono di questo tipo in libertà. Sono dei volatili che sono stati prodotti per rimanere nelle gabbie. Altro esempio: se si lascia il mio cane nella natura sopravvive al massimo per tre giorni!
Non si può parlare di cose che sarebbero state prodotte dalla natura perché quando parliamo di natura la opponiamo alla cultura, quindi la consideriamo come qualcosa di assolutamente indipendente dall’uomo. Ma siccome l’uomo è sulla terra da moltissimo tempo, ha modificato tutto. Ciò che chiamiamo natura o terra è, in realtà, una specie di giardino da gestire. È difficile parlare di natura come di qualcosa che sussista indipendentemente dall’uomo, del resto i miei progetti oltrepassano la dicotomia fra artificialità e natura. In questo senso preferisco riferirmi al vivente, inteso come insieme di vita, cultura e artificio.
Un insieme in cui si rispecchia anche la complessità della situazione e vari elementi entrano in gioco.
MB: C’è un termine che mi piace molto, ed è la parola “selvaggio”. Tutte le cose che non controlliamo e che fanno parte del nostro quotidiano (per esempio i moscerini, i ragni, le erbacce in città etc.) rappresentano la sola circostanza in cui si manifesta il selvaggio. Il selvaggio si esprime in ciò che non è controllato.
Si può fare un parallelismo tra il concetto di terzo paesaggio di Gilles Clément, dove la natura ritorna ad essere selvaggia in certi punti perché non è seguita dall’uomo, e il meccanismo di vita dei tuoi lavori che sono innescati da te, ma poi vivono per conto loro creando tutta una serie di cambiamenti e di interconnessioni. I tuoi lavori possono essere paragonati alle piante selvagge (magari anche erbacce) che vengono lasciate dal giardiniere libere di crescere?
MB: In effetti, Clément è forse la persona a cui mi sento più vicino. L’ho incontrato una decina di anni fa alla Fine Arts School di Valente e insieme abbiamo realizzato una piccola pubblicazione intitolata “Contributions à l’étude du jardin planétaire” (ERBA Editions, Valence 1995).
Senza dubbio, è una persona che ha lasciato un segno in me, penso al concetto di “giardino planetario” e all’idea del minimo intervento che è sempre stata uno dei miei maggiori interessi. il suo rapporto al vivente e alla pianta, mi riguarda molto. Nel mio piccolo cortile verde, io svolgo la sua stessa attività, cioè non pianto nulla, guardo semplicemente le piante vivere e sviluppare un loro specifico ecosistema. Quello che mi piace di Clément è che considera il giardino a partire dall’individuo “pianta”. Lui guarda la pianta e poi non si comporta come un paesaggista che cerca di costruire un paesaggio, ma come un giardiniere che si mette dal punto di vista dei bisogni del vegetale, e con questa forma mentis interviene su degli altri materiali.
Io guardo le mie sculture un po’ come lui guarda le piante. Osservo l’opera, scruto che cosa le succede, come si trasforma nel tempo e annoto i diversi rapporti che si creano con gli altri esseri viventi che la circondano.
09
novembre 2007
Artissima al PAV
Dal 09 all'undici novembre 2007
arte contemporanea
presentazione
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Location
PAV – PARCO D’ARTE VIVENTE
Torino, Via Giordano Bruno, 31, (Torino)
Torino, Via Giordano Bruno, 31, (Torino)
Ufficio stampa
THREESIXTY
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