Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Artistesse
Nell’ambito del film-festival “Sguardi Altrove” una mostra collettiva raccoglie le opere profondamente “femminili” di sei artiste-donne, o donne-artiste, italiane contemporanee.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Dover distinguere tra artisti-uomini e artiste-donne sa ancora e sempre un po' di retroguardia. O di indefinibile progressismo (ma quale? paleofemminista? neomaschilista? o viceversa?). Oppure di ormai frusta political correctness. O di ambigua accettazione di ghetti esistenti e immarcescibili. Insomma, comunque la si rigiri, si rischia di fare brutta figura.
E va bene, oggi ci sentiamo di correre questo rischio. Perché ci sembra di poter sostenere che esistono donne artiste che sono, sul serio, artiste come donne, in quanto donne, e forse addirittura soprattutto per donne, quasi senza possibilità di travisamenti.
In che senso? È presto detto: il loro universo di riferimento è essenzialmente femminile. Ad esso si ispirano; quello interrogano e indagano; è di esso che scelgono di parlare con altre donne, che lo condividono, lo conoscono bene e possono capirle meglio. Ciò non toglie, ovviamente, che accanto e tutt'intorno vi siano anche esseri umani in genere più pelosi, con voci più basse e roche e provvisti di una certa appendice inferiore (e le differenze potrebbero continuare, con divertimento di alcune e magari innervosimento di altri, ma qui ci fermiamo). Ci sono anche maschi disinteressatamente interessati alla psiche femminile, certo. Così come ci sono femmine maliziosamente benevole nel volersi rivolgere anche a maschi. Non saranno la maggioranza, né queste né quelli, ma ci sono. Il dialogo tra i sessi, per fortuna, ha il diritto e la possibilità di esistere.
Ciò che tuttavia vogliamo raccogliere insieme stavolta, al di là delle possibili interpretazioni conflittuali, è una pattuglia di pugnaci eroine sparse sul fronte interno: ovvero donne che usano l'arte per guardarsi allo specchio, sia individualmente sia come appartenenti a quella mezza umanità in genere meno pelosa, con voci più alte e acute e provvista di un certo paio di rigonfiamenti superiori (e le differenze potrebbero continuare, con divertimento di alcuni e magari innervosimento di altre, ma qui ci fermiamo). In altre parole, donne-artiste-donne, tali totalmente e innegabilmente; o addirittura, come le chiamerebbe una cantautrice catanese, "artistesse".
Senza incamminarsi a cercare troppo lontano, subito troviamo una pittrice che sa andare molto a fondo, forse perché viene dalla pratica sommessa dell'illustrazione, e proprio perciò ha meno pretese universalistiche ma sa guardarsi con più attenzione intorno. Daniela Brambilla (Milano 1950) dipinge figurativo, ma con un furore interno che trasfigura ciò che raffigura. È il caso della serie di soggetti cui si sta dedicando di recente, accomunati da presenze femminili – adulte e anche bambine – colte in momenti problematici e interrogativi, in particolare confrontandosi sul tema della vergogna. La vergogna del proprio corpo, quella indotta da sistemi educativi repressivi un tempo comuni. Cioè, in definitiva, la vergogna del proprio Io non solo fisico. Quella che si fatica eccome a saper superare. Quella che però si deve imparare a vincere comunque, per abbandonare l'avarizia di sé e invece scoprire la bella generosità del sapersi dare. Ad esempio, anche con pennellate potenti che svelano qualche proprio segreto.
Un discorso per certi versi simile porta avanti da anni, con encomiabile caparbietà, Giovanna Torresin (Usmate Velate 1954). Le sue ricerche, che le hanno dato notorietà internazionale, vertono soprattutto sul difficile rapporto tra l'interno dell'involucro del sé e l'esterno. Il primo si presenta nudo e indifeso, bisognoso pertanto di qualcosa che lo protegga ulteriormente dalle possibili ingiurie che la realtà ha in serbo nei suoi confronti. Celebratrice pura della corazza, questa artista si è costruita pertanto una serie di seconde pelli più resistenti di quella naturale, se ne è virtualmente rivestita e ha provato ad urlare così la sua paura e il suo coraggio. Uno stadio di tale composito percorso ha comportato addirittura la sua trasfigurazione in Madonna, come quelle dipinte su tavola per esempio nel Cinquecento, col Bambinello in braccio o al seno, ma bisognosa di protezione persino da lui. Quietamente inquieta.
Anche Monica Palumbo (Matera 1972) usa come campo di battaglia il proprio corpo. Un corpo che la società contemporanea, imperativa, chiede essere in determinati modi – o forse sarebbe meglio dire modi "preordinati" – e che ogni donna invece sente essere "diverso": come il proprio personale, soggettivamente, non come quello considerato oggettivo ma in realtà spersonalizzato. Così l'artista, in fotografia come in pittura, si prova a reinterpretare ruoli che potrebbero anche essere di qualunque donna, e anche i suoi, sebbene non lo siano. E, quando si rende conto di mercificarsi, spingendo l'acceleratore mentale arriva a immaginare parti del proprio organismo fisico come nutrimenti materiali per bocche sconosciute. Piatti prelibati per orchi affamati, con l'acquolina in bocca. È un "ruolo sociale" anche questo?
Quanto a reinterpretare ruoli altrui, tra le artiste italiane Debora Vrizzi (Cividale del Friuli 1975) non è seconda a nessuno. Di questa nostra Cindy Sherman nazionale è rimasta famosa la personale interpretazione fotografica della storia di Cappuccetto Rosso, dove la parte del Lupo veniva recitata dallo stesso padre dell'artista, inondando di irridente freudismo un canovaccio già grondante psicoanaliticità di suo. Non contenta, la fotografa-regista si mette e rimette in scena su set che sceglie drammatici, anzi tragici, per poi ribaltarli in amabilmente sarcastici. Dopo essersi rifatta come Biancaneve tra i sette nani, ha lasciato la favola per buttarsi nella storia e nella cronaca, rievocando le morti di donne-icone pop e rimorendo ogni volta per ognuna di loro: come Maria Antonietta sulla ghigliottina con una brioche in bocca, come Marilyn Monroe in odor di Chanel N° 5, come Madre Teresa di Calcutta incartapecorita (e incinta!)… Tra il serio e il faceto, così, questa donna di carattere riscrive sul proprio corpo la storia delle donne storiche, delle donne di carattere. Donna al quadrato, dunque.
Compagna di merende della bruna Vrizzi è la sua amica gemellina bionda Emanuela Biancuzzi (Cividale del Friuli 1970). Insieme, dichiarandosi figlie ideali dello scomparso multiartista friulano Piermario Ciani, hanno dato origine al dinamico duo The Cianographic Sisters: "Trattasi di due promettenti nevrotiche (…) particolarmente determinate ad affermare, affermarsi, imporre i propri contenuti nell'ambito di un'arte come ricerca introspettiva. Biancuzzi lavora con la pittura, l'illustrazione, il collage di immagini e sentimenti usando graficamente i materiali e traendone nuove coinvolgenti variazioni". In solitaria, la bionda si dedica anema e core alla cinofilia e alla difesa della vita animale dovunque e comunque. Legata a doppio filo all'immagine narrativa, riporta sulle due dimensioni gli incubi di una Doña Quijote al galoppo lancia in resta contro le tante, troppe brutture comportamentali che feriscono gli animi gentili. Non si offende se la si chiama "schi-zoo-frenica", anzi ringrazia e se ne vanta.
Infine, ultima ma non ultima, Teresa Morelli (Genova 1978) irride pure lei, beata tra le donne. Beata, nel senso che se ne frega della decenza. Tra le donne, nel senso che le osserva e le disseziona con la giusta cattiveria femminile e non gliene lascia passare una (ma neanche agli uomini, anzi! e neppure ai mezz'e mezzo, vedi il suo strepitoso trans abbigliato da Biancaneve alle prese con una mela-cuore assassina). Irride, nel senso che il suo sguardo brilla di allegra cattiveria ogni volta che qui o lì riesce a cogliere un qualunque peccatuccio di vanità, di orgoglio, di presunzione, di superficialità. Con tratto libero neopop, sovranamente incurante delle belle maniere, racconta una realtà volgaruccia e sconclusionata come se si fosse in un cartone animato o in un fumetto. Anche la sua pittura sghemba, dunque, deliziosamente pettegola, è definitivamente contemporanea.
Ferruccio Giromini
E va bene, oggi ci sentiamo di correre questo rischio. Perché ci sembra di poter sostenere che esistono donne artiste che sono, sul serio, artiste come donne, in quanto donne, e forse addirittura soprattutto per donne, quasi senza possibilità di travisamenti.
In che senso? È presto detto: il loro universo di riferimento è essenzialmente femminile. Ad esso si ispirano; quello interrogano e indagano; è di esso che scelgono di parlare con altre donne, che lo condividono, lo conoscono bene e possono capirle meglio. Ciò non toglie, ovviamente, che accanto e tutt'intorno vi siano anche esseri umani in genere più pelosi, con voci più basse e roche e provvisti di una certa appendice inferiore (e le differenze potrebbero continuare, con divertimento di alcune e magari innervosimento di altri, ma qui ci fermiamo). Ci sono anche maschi disinteressatamente interessati alla psiche femminile, certo. Così come ci sono femmine maliziosamente benevole nel volersi rivolgere anche a maschi. Non saranno la maggioranza, né queste né quelli, ma ci sono. Il dialogo tra i sessi, per fortuna, ha il diritto e la possibilità di esistere.
Ciò che tuttavia vogliamo raccogliere insieme stavolta, al di là delle possibili interpretazioni conflittuali, è una pattuglia di pugnaci eroine sparse sul fronte interno: ovvero donne che usano l'arte per guardarsi allo specchio, sia individualmente sia come appartenenti a quella mezza umanità in genere meno pelosa, con voci più alte e acute e provvista di un certo paio di rigonfiamenti superiori (e le differenze potrebbero continuare, con divertimento di alcuni e magari innervosimento di altre, ma qui ci fermiamo). In altre parole, donne-artiste-donne, tali totalmente e innegabilmente; o addirittura, come le chiamerebbe una cantautrice catanese, "artistesse".
Senza incamminarsi a cercare troppo lontano, subito troviamo una pittrice che sa andare molto a fondo, forse perché viene dalla pratica sommessa dell'illustrazione, e proprio perciò ha meno pretese universalistiche ma sa guardarsi con più attenzione intorno. Daniela Brambilla (Milano 1950) dipinge figurativo, ma con un furore interno che trasfigura ciò che raffigura. È il caso della serie di soggetti cui si sta dedicando di recente, accomunati da presenze femminili – adulte e anche bambine – colte in momenti problematici e interrogativi, in particolare confrontandosi sul tema della vergogna. La vergogna del proprio corpo, quella indotta da sistemi educativi repressivi un tempo comuni. Cioè, in definitiva, la vergogna del proprio Io non solo fisico. Quella che si fatica eccome a saper superare. Quella che però si deve imparare a vincere comunque, per abbandonare l'avarizia di sé e invece scoprire la bella generosità del sapersi dare. Ad esempio, anche con pennellate potenti che svelano qualche proprio segreto.
Un discorso per certi versi simile porta avanti da anni, con encomiabile caparbietà, Giovanna Torresin (Usmate Velate 1954). Le sue ricerche, che le hanno dato notorietà internazionale, vertono soprattutto sul difficile rapporto tra l'interno dell'involucro del sé e l'esterno. Il primo si presenta nudo e indifeso, bisognoso pertanto di qualcosa che lo protegga ulteriormente dalle possibili ingiurie che la realtà ha in serbo nei suoi confronti. Celebratrice pura della corazza, questa artista si è costruita pertanto una serie di seconde pelli più resistenti di quella naturale, se ne è virtualmente rivestita e ha provato ad urlare così la sua paura e il suo coraggio. Uno stadio di tale composito percorso ha comportato addirittura la sua trasfigurazione in Madonna, come quelle dipinte su tavola per esempio nel Cinquecento, col Bambinello in braccio o al seno, ma bisognosa di protezione persino da lui. Quietamente inquieta.
Anche Monica Palumbo (Matera 1972) usa come campo di battaglia il proprio corpo. Un corpo che la società contemporanea, imperativa, chiede essere in determinati modi – o forse sarebbe meglio dire modi "preordinati" – e che ogni donna invece sente essere "diverso": come il proprio personale, soggettivamente, non come quello considerato oggettivo ma in realtà spersonalizzato. Così l'artista, in fotografia come in pittura, si prova a reinterpretare ruoli che potrebbero anche essere di qualunque donna, e anche i suoi, sebbene non lo siano. E, quando si rende conto di mercificarsi, spingendo l'acceleratore mentale arriva a immaginare parti del proprio organismo fisico come nutrimenti materiali per bocche sconosciute. Piatti prelibati per orchi affamati, con l'acquolina in bocca. È un "ruolo sociale" anche questo?
Quanto a reinterpretare ruoli altrui, tra le artiste italiane Debora Vrizzi (Cividale del Friuli 1975) non è seconda a nessuno. Di questa nostra Cindy Sherman nazionale è rimasta famosa la personale interpretazione fotografica della storia di Cappuccetto Rosso, dove la parte del Lupo veniva recitata dallo stesso padre dell'artista, inondando di irridente freudismo un canovaccio già grondante psicoanaliticità di suo. Non contenta, la fotografa-regista si mette e rimette in scena su set che sceglie drammatici, anzi tragici, per poi ribaltarli in amabilmente sarcastici. Dopo essersi rifatta come Biancaneve tra i sette nani, ha lasciato la favola per buttarsi nella storia e nella cronaca, rievocando le morti di donne-icone pop e rimorendo ogni volta per ognuna di loro: come Maria Antonietta sulla ghigliottina con una brioche in bocca, come Marilyn Monroe in odor di Chanel N° 5, come Madre Teresa di Calcutta incartapecorita (e incinta!)… Tra il serio e il faceto, così, questa donna di carattere riscrive sul proprio corpo la storia delle donne storiche, delle donne di carattere. Donna al quadrato, dunque.
Compagna di merende della bruna Vrizzi è la sua amica gemellina bionda Emanuela Biancuzzi (Cividale del Friuli 1970). Insieme, dichiarandosi figlie ideali dello scomparso multiartista friulano Piermario Ciani, hanno dato origine al dinamico duo The Cianographic Sisters: "Trattasi di due promettenti nevrotiche (…) particolarmente determinate ad affermare, affermarsi, imporre i propri contenuti nell'ambito di un'arte come ricerca introspettiva. Biancuzzi lavora con la pittura, l'illustrazione, il collage di immagini e sentimenti usando graficamente i materiali e traendone nuove coinvolgenti variazioni". In solitaria, la bionda si dedica anema e core alla cinofilia e alla difesa della vita animale dovunque e comunque. Legata a doppio filo all'immagine narrativa, riporta sulle due dimensioni gli incubi di una Doña Quijote al galoppo lancia in resta contro le tante, troppe brutture comportamentali che feriscono gli animi gentili. Non si offende se la si chiama "schi-zoo-frenica", anzi ringrazia e se ne vanta.
Infine, ultima ma non ultima, Teresa Morelli (Genova 1978) irride pure lei, beata tra le donne. Beata, nel senso che se ne frega della decenza. Tra le donne, nel senso che le osserva e le disseziona con la giusta cattiveria femminile e non gliene lascia passare una (ma neanche agli uomini, anzi! e neppure ai mezz'e mezzo, vedi il suo strepitoso trans abbigliato da Biancaneve alle prese con una mela-cuore assassina). Irride, nel senso che il suo sguardo brilla di allegra cattiveria ogni volta che qui o lì riesce a cogliere un qualunque peccatuccio di vanità, di orgoglio, di presunzione, di superficialità. Con tratto libero neopop, sovranamente incurante delle belle maniere, racconta una realtà volgaruccia e sconclusionata come se si fosse in un cartone animato o in un fumetto. Anche la sua pittura sghemba, dunque, deliziosamente pettegola, è definitivamente contemporanea.
Ferruccio Giromini
27
febbraio 2009
Artistesse
Dal 27 febbraio all'otto marzo 2009
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
EX CASELLI DAZIARI DI PORTA VENEZIA – CASA DEL PANE
Milano, Piazza Guglielmo Oberdan, 4, (Milano)
Milano, Piazza Guglielmo Oberdan, 4, (Milano)
Vernissage
27 Febbraio 2009, ore 19
Sito web
www.sguardialtrove.org
Autore
Curatore