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Artisti contemporanei Cinesi
La rassegna con cui aprirà il nuovo spazio di Padova riguarda una selezione molto accurata di artisti le cui peculiarità coprono un arco assai rappresentativo delle esperienze in corso che da un lato coincidono con quelle di ogni parte del mondo ma dall’altro possiedono due importanti singolarità: un formidabile background di memorie stratificate in continua ebollizione e il vigore immaginativo di uno status nascenti, non logorato e spremuto da decenni di innovazioni continue come in occidente
Comunicato stampa
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La rassegna con cui aprirà il nuovo spazio di Padova riguarda una selezione molto accurata di artisti le cui peculiarità coprono un arco assai rappresentativo delle esperienze in corso che da un lato coincidono con quelle di ogni parte del mondo ma dall’altro possiedono due importanti singolarità: un formidabile background di memorie stratificate in continua ebollizione e il vigore immaginativo di uno status nascenti, non logorato e spremuto da decenni di innovazioni continue come in occidente.
La mostra sarà presentata da Virginia Baradel, la critica d’arte che per prima, nella Biennale diretta da
Bonito Oliva nel 1993, curò la sezione “Passaggio ad Oriente” inserendo 14 pittori cinesi esponenti di
un’avanguardia allora ancora clandestina e sgradita al governo.
Non v’è dubbio alcuno che il fenomeno artistico più interessante e apprezzato del momento sia l’arte contemporanea cinese.
A partire dal 1999, l’anno dei 19 artisti cinesi alla Biennale di Harald Szeemann, si sono avute in Europa, e soprattutto in Italia, diverse occasioni per conoscere ed ammirare la nouvelle vague cinese che dimostra una straordinaria vitalità nel fagocitare le neovanguardie occidentali mischiandole, con accorta fantasia concettuale, alle reminiscenze di una tradizione millenaria ormai perduta, ai dictat e agli stereotipi della rivoluzione culturale e alla frenetica, fatale, babelica accelerazione dell’evoluzione economica e urbanistica. Un bel paniere di stimoli e provocazioni esistenziali che scatena una creatività a lungo repressa.
Se nei primi anni Novanta era soprattutto la pittura “popi” e il “realismo cinico” a reggere le sperimentazioni più ardite in una chiave post-pop e iperrealista che frullava ritratti di matrimoni popolari, tazebao e icone di Mao con gli eroi dei videogiochi; nei secondi anni Novanta, in un clima meno soffocante, gli artisti hanno incominciato a lavorare anche con la fotografia, il video, la performance e ogni sorta di materiale espressivo prodotto dall’arte contemporanea globale.
In questo fermento straordinario, che, di fatto, comprime quel che in Occidente è avvenuto in un secolo, si situa la svolta decisiva dei primi anni 2000 con la destinazione della ormai famosa “Fabbrica 798” (una vecchia fabbrica meccanica abbandonata, all’inizio occupata abusivamente) a quartiere degli artisti. Nei grandi spazi vetero-razionalisti, ideali per l’uso artistico contemporaneo a New York come a Pechino, centinaia di artisti hanno installato i loro studi, hanno creato ritrovi per la ristorazione e spazi collettivi per le esposizioni.
L’interesse per la ricchezza e la varietà delle ricerche individuali degli artisti cinesi divampò in occasione alla prima Biennale che si tenne a Pechino nel 2003 quando i visitatori internazionali ebbero modo di sconfinare da quella kermesse, ancora un po’ ingessata, per affollare l’“art district 798” e accorgersi di quanto fossero avvincenti le prime linee della nuova arte cinese. I galleristi più avveduti comunque erano sbarcati in Cina, visitato gli studi degli
artisti e la “798” già alla fine degli anni Novanta.
Tra questi il famoso gallerista Dante Vecchiato fu tra i più entusiasti sostenitori del nuovo orizzonte espressivo e incominciò a trattare con alcuni artisti proponendo le loro opere sul mercato dell’arte contemporanea occidentale.
La collisione tra le nostre avanguardie, la tradizione cinese e la coscienza delle feroci contraddizioni dell’oggi producono una sorta di transavanguardia cinese che mescola realismo, surrealismo e pop. Un gusto sottile e vagamente luciferino sembra interessare le deformazioni, le polluzioni, le allucinazioni figurative a volte chiassosamente neopop, altre più delicate e sommesse, altre ancora più fosche ed enigmatiche.
Di fondo si avverte l’angoscia che assedia la ricerca di una nuova identità. Un’angoscia non rimossa, incombente ma che, tuttavia, viene ogni volta sventata dall’ironia e da un’intelligente malizia evocativa che ne neutralizza il veleno in una storpiatura, un eccesso, una mostruosità liberatorie.
La radice pop è molto presente nelle variazione sul tema di Mao, icona fantasmagorica, idolo e patibolo, che gli artisti di seconda generazione dalla rivoluzione culturale prendono di mira sulle lontane orme di Warhol ma sapendo che per loro si tratta di una fumante materia prima, non solo iconografica.
La mostra sarà presentata da Virginia Baradel, la critica d’arte che per prima, nella Biennale diretta da
Bonito Oliva nel 1993, curò la sezione “Passaggio ad Oriente” inserendo 14 pittori cinesi esponenti di
un’avanguardia allora ancora clandestina e sgradita al governo.
Non v’è dubbio alcuno che il fenomeno artistico più interessante e apprezzato del momento sia l’arte contemporanea cinese.
A partire dal 1999, l’anno dei 19 artisti cinesi alla Biennale di Harald Szeemann, si sono avute in Europa, e soprattutto in Italia, diverse occasioni per conoscere ed ammirare la nouvelle vague cinese che dimostra una straordinaria vitalità nel fagocitare le neovanguardie occidentali mischiandole, con accorta fantasia concettuale, alle reminiscenze di una tradizione millenaria ormai perduta, ai dictat e agli stereotipi della rivoluzione culturale e alla frenetica, fatale, babelica accelerazione dell’evoluzione economica e urbanistica. Un bel paniere di stimoli e provocazioni esistenziali che scatena una creatività a lungo repressa.
Se nei primi anni Novanta era soprattutto la pittura “popi” e il “realismo cinico” a reggere le sperimentazioni più ardite in una chiave post-pop e iperrealista che frullava ritratti di matrimoni popolari, tazebao e icone di Mao con gli eroi dei videogiochi; nei secondi anni Novanta, in un clima meno soffocante, gli artisti hanno incominciato a lavorare anche con la fotografia, il video, la performance e ogni sorta di materiale espressivo prodotto dall’arte contemporanea globale.
In questo fermento straordinario, che, di fatto, comprime quel che in Occidente è avvenuto in un secolo, si situa la svolta decisiva dei primi anni 2000 con la destinazione della ormai famosa “Fabbrica 798” (una vecchia fabbrica meccanica abbandonata, all’inizio occupata abusivamente) a quartiere degli artisti. Nei grandi spazi vetero-razionalisti, ideali per l’uso artistico contemporaneo a New York come a Pechino, centinaia di artisti hanno installato i loro studi, hanno creato ritrovi per la ristorazione e spazi collettivi per le esposizioni.
L’interesse per la ricchezza e la varietà delle ricerche individuali degli artisti cinesi divampò in occasione alla prima Biennale che si tenne a Pechino nel 2003 quando i visitatori internazionali ebbero modo di sconfinare da quella kermesse, ancora un po’ ingessata, per affollare l’“art district 798” e accorgersi di quanto fossero avvincenti le prime linee della nuova arte cinese. I galleristi più avveduti comunque erano sbarcati in Cina, visitato gli studi degli
artisti e la “798” già alla fine degli anni Novanta.
Tra questi il famoso gallerista Dante Vecchiato fu tra i più entusiasti sostenitori del nuovo orizzonte espressivo e incominciò a trattare con alcuni artisti proponendo le loro opere sul mercato dell’arte contemporanea occidentale.
La collisione tra le nostre avanguardie, la tradizione cinese e la coscienza delle feroci contraddizioni dell’oggi producono una sorta di transavanguardia cinese che mescola realismo, surrealismo e pop. Un gusto sottile e vagamente luciferino sembra interessare le deformazioni, le polluzioni, le allucinazioni figurative a volte chiassosamente neopop, altre più delicate e sommesse, altre ancora più fosche ed enigmatiche.
Di fondo si avverte l’angoscia che assedia la ricerca di una nuova identità. Un’angoscia non rimossa, incombente ma che, tuttavia, viene ogni volta sventata dall’ironia e da un’intelligente malizia evocativa che ne neutralizza il veleno in una storpiatura, un eccesso, una mostruosità liberatorie.
La radice pop è molto presente nelle variazione sul tema di Mao, icona fantasmagorica, idolo e patibolo, che gli artisti di seconda generazione dalla rivoluzione culturale prendono di mira sulle lontane orme di Warhol ma sapendo che per loro si tratta di una fumante materia prima, non solo iconografica.
16
marzo 2006
Artisti contemporanei Cinesi
Dal 16 marzo al 30 giugno 2006
arte contemporanea
Location
Ufficio stampa
FENICE
Autore