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Barbara Bonfilio / Anna Madia – Descrizioni
L’esposizione raccoglie un nutrito gruppo di lavori recenti delle due giovani ed apprezzate artiste torinesi che, per la seconda volta, vengono proposte dalla galleria in una doppia personale
Comunicato stampa
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Non è la prima volta che mi chiedo se la pittura, cioè il modo tradizionale di formare figure su supporti piani a forza di tracce e colori, abbia ancora motivo d’esistere. Il caso di due giovani, Barbara ed Anna, che con piena convinzione e soddisfazione praticano il dipingere fa slittare la domanda: c’è ancora qualcosa che appartiene solo alla pittura? Che non può darti nessun altro linguaggio, tanto meno figurativo (e si sa che sono parecchi quelli messi a punto negli ultimi secoli)?
Guardo i quadri che mi mostrano, e provo ad elencare i regali esclusivi della pittura, per loro e per chiunque della pittura, dei suoi equivochi, delle sue generosità, dei suoi limiti, abbia continuato a nutrirsi anche nei momenti di tentazione più concettosa.
Barbara mi dice (ignoro se qualcuno gliel’ha insinuato o lei stessa ha avuto il dubbio): “non sono troppo rigide queste figure?”. Certo incantate, come quando interroghi lo specchio e cerchi di mettere a fuoco l’immagine che ti rappresenti come sei o vorresti essere, l’immagine “definitiva” che non può essere disturbata dal fuggevole accidente, che non sta in alcun istante e tutti li riassume in una specie di sospensione, dalla quale – e questo è il vero movimento della pittura – si libereranno a tempo debito infinite variabili espressive.
Lo sguardo trascorre dai quadri di Barbara a quelli di Anna, e riconosce nel volto così spesso ritratto del suo uomo lo stesso incanto, o forse meglio il riflesso dello stesso incantato mirare. Mi sono svegliata e ti ho guardato; ho continuato a guardarti per non so quanto tempo; voglio finalmente “capire” la forma dei tuoi occhi di mandorla; per la prima volta ho colto la curva della tua fronte; non m’ero mai accorta di come la luce scivoli sulla pelle e vi si condensi come una nebbia rada; rilascio la massa dei capelli, ma poi la raccolgo a crocchia perché sia tutta evidente la faccia imbronciata… Scatto un’istantanea come promemoria, ma sarà la pittura a permettermi di guadagnare una “assoluta” concretezza.
La pittura ha bisogno del suo tempo, che può essere lunghissimo o appena un fremito un colpo di nervoso, un alito un respiro.
La pittura di Barbara è apparentemente fredda: lei ci tiene a sottolineare la presenza in ciascuna immagine di un marchio, come allusione ad una scelta di campo etico e spia di attualità, ma io ritrovo la stessa pulizia nel “raccontare” il numero delle righe della maglietta dell’amica, la zebratura mai meccanica delle calze, la variata lucentezza dei materiali sintetici o naturali, la stessa esattezza nella descrizione del volto pallido con un piccolo neo sotto il labbro inferiore, delle pupille che riflettono luce e forse l’ambiente attorno… Sarà il tipo dei modelli? Può essere, ma prima è il modo di mirarli e poi di trascriverne i tratti; insomma il modo di prepararla, la pittura, nei propri occhi, anche raccogliendo dati con mezzi tecnologici, e poi di farla la pittura, con attenzione e pazienza, fino ad una perfetta messa a fuoco di ciò che l’occhio pittorico ha selezionato e vuol ritrovare nella concreta finzione. Non mi meraviglio che le piaccia Lucian Freud, persino nelle scelte iconografiche (Ragazza con cane, Ragazza in poltrona), ma il primo Freud, quello che richiama la “Nuova Oggettività” tedesca che usa pennelli fini come bulini e bisturi.
La pittura di Anna è, in partenza, calda, caldissima, sostenuta da una agilità e abilità non comune: così che certi colori potrebbero restare enunciati da repertorio (il rosso per esempio) se non fosse per il gesto che aggredisce la materia. Nell’ultima stagione, in un percorso già piuttosto ricco di esperienze, la sensibilità arroventata è venuta maturando, e non è solo questione di affinamento di gusto. Anna ha cominciato a godere il dopo, i tepori del dopo, la meraviglia dei tepori del dopo. Così i colori smettono di gridare e trovano un respiro più profondo e leggero; gli impasti sontuosi cedono (per sempre o solo per un poco) ad una delicatezza costruttiva che, da una base comunque calda – il bruno della faesite o il rossiccio della preparazione – a forza di velature chiarificatrici – in senso letterale e metaforico – modella immagini ad un tempo più analitiche e sognate di prima.
A Barbara, mi pare piaccia anche Balthus; per certe atmosfere un po’ tese (ma senza morbosità); dirò una cosa strana, le piace Balthus per le preparazioni rigide come di muro, che solleticano il velo cromatico, cosicché, per quanto sottile, esso abbia corpo, corpo pittorico. Torna – ma da un’altra parte – la storia della durezza: è consistenza tattile, che riguarda innanzitutto il luogo (a un tempo, luogo della rappresentazione e luogo rappresentato); in esso la figura prende consistenza per stacchi che, senza bisogno di spessori, definiscono le differenze materiali e le connessioni. Impressiona la giustezza degli incastri. Anche la sensibilità diventa oggetto. Barbara può permettersi di ritagliare la figura su fondo bianco, a patto che diventi una parete di luce.
Per Anna, il tipo di supporto e l’imprimitura sono già tono, la scelta del tono è fondamento della stesura nervosa, eccitata. E’ li che esplode la figura, quando la massa cromatica – non necessariamente spessa, anzi velare nell’ultima fase – ha raggiunto la saturazione, si potrebbe dire anche l’incandescenza, almeno metaforica. Da quel momento, l’intorno diventa alone per l’immagine, volto o figura intera. Non esiste luogo se non come condizione dell’apparire. Quasi non esiste colore locale, e invece la stessa pasta che, modellandosi costruisce il fantasma. Che però, in ogni momento, potrebbe essere nuovamente assorbito nel gorgo dl magma-colore che l’ha generato.
Stanno qui le figure di Barbara: icone del presente. Le figure di Anna veleggiano più distanti: icone del sogno, comune e privatissimo.
La pittura è per entrambe necessaria. C’è ancora qualcuno dopo Bacon, convinto che “una parte del sistema nervoso è avvicinabile solo attraverso la pittura”.
Pino Mantovani
Guardo i quadri che mi mostrano, e provo ad elencare i regali esclusivi della pittura, per loro e per chiunque della pittura, dei suoi equivochi, delle sue generosità, dei suoi limiti, abbia continuato a nutrirsi anche nei momenti di tentazione più concettosa.
Barbara mi dice (ignoro se qualcuno gliel’ha insinuato o lei stessa ha avuto il dubbio): “non sono troppo rigide queste figure?”. Certo incantate, come quando interroghi lo specchio e cerchi di mettere a fuoco l’immagine che ti rappresenti come sei o vorresti essere, l’immagine “definitiva” che non può essere disturbata dal fuggevole accidente, che non sta in alcun istante e tutti li riassume in una specie di sospensione, dalla quale – e questo è il vero movimento della pittura – si libereranno a tempo debito infinite variabili espressive.
Lo sguardo trascorre dai quadri di Barbara a quelli di Anna, e riconosce nel volto così spesso ritratto del suo uomo lo stesso incanto, o forse meglio il riflesso dello stesso incantato mirare. Mi sono svegliata e ti ho guardato; ho continuato a guardarti per non so quanto tempo; voglio finalmente “capire” la forma dei tuoi occhi di mandorla; per la prima volta ho colto la curva della tua fronte; non m’ero mai accorta di come la luce scivoli sulla pelle e vi si condensi come una nebbia rada; rilascio la massa dei capelli, ma poi la raccolgo a crocchia perché sia tutta evidente la faccia imbronciata… Scatto un’istantanea come promemoria, ma sarà la pittura a permettermi di guadagnare una “assoluta” concretezza.
La pittura ha bisogno del suo tempo, che può essere lunghissimo o appena un fremito un colpo di nervoso, un alito un respiro.
La pittura di Barbara è apparentemente fredda: lei ci tiene a sottolineare la presenza in ciascuna immagine di un marchio, come allusione ad una scelta di campo etico e spia di attualità, ma io ritrovo la stessa pulizia nel “raccontare” il numero delle righe della maglietta dell’amica, la zebratura mai meccanica delle calze, la variata lucentezza dei materiali sintetici o naturali, la stessa esattezza nella descrizione del volto pallido con un piccolo neo sotto il labbro inferiore, delle pupille che riflettono luce e forse l’ambiente attorno… Sarà il tipo dei modelli? Può essere, ma prima è il modo di mirarli e poi di trascriverne i tratti; insomma il modo di prepararla, la pittura, nei propri occhi, anche raccogliendo dati con mezzi tecnologici, e poi di farla la pittura, con attenzione e pazienza, fino ad una perfetta messa a fuoco di ciò che l’occhio pittorico ha selezionato e vuol ritrovare nella concreta finzione. Non mi meraviglio che le piaccia Lucian Freud, persino nelle scelte iconografiche (Ragazza con cane, Ragazza in poltrona), ma il primo Freud, quello che richiama la “Nuova Oggettività” tedesca che usa pennelli fini come bulini e bisturi.
La pittura di Anna è, in partenza, calda, caldissima, sostenuta da una agilità e abilità non comune: così che certi colori potrebbero restare enunciati da repertorio (il rosso per esempio) se non fosse per il gesto che aggredisce la materia. Nell’ultima stagione, in un percorso già piuttosto ricco di esperienze, la sensibilità arroventata è venuta maturando, e non è solo questione di affinamento di gusto. Anna ha cominciato a godere il dopo, i tepori del dopo, la meraviglia dei tepori del dopo. Così i colori smettono di gridare e trovano un respiro più profondo e leggero; gli impasti sontuosi cedono (per sempre o solo per un poco) ad una delicatezza costruttiva che, da una base comunque calda – il bruno della faesite o il rossiccio della preparazione – a forza di velature chiarificatrici – in senso letterale e metaforico – modella immagini ad un tempo più analitiche e sognate di prima.
A Barbara, mi pare piaccia anche Balthus; per certe atmosfere un po’ tese (ma senza morbosità); dirò una cosa strana, le piace Balthus per le preparazioni rigide come di muro, che solleticano il velo cromatico, cosicché, per quanto sottile, esso abbia corpo, corpo pittorico. Torna – ma da un’altra parte – la storia della durezza: è consistenza tattile, che riguarda innanzitutto il luogo (a un tempo, luogo della rappresentazione e luogo rappresentato); in esso la figura prende consistenza per stacchi che, senza bisogno di spessori, definiscono le differenze materiali e le connessioni. Impressiona la giustezza degli incastri. Anche la sensibilità diventa oggetto. Barbara può permettersi di ritagliare la figura su fondo bianco, a patto che diventi una parete di luce.
Per Anna, il tipo di supporto e l’imprimitura sono già tono, la scelta del tono è fondamento della stesura nervosa, eccitata. E’ li che esplode la figura, quando la massa cromatica – non necessariamente spessa, anzi velare nell’ultima fase – ha raggiunto la saturazione, si potrebbe dire anche l’incandescenza, almeno metaforica. Da quel momento, l’intorno diventa alone per l’immagine, volto o figura intera. Non esiste luogo se non come condizione dell’apparire. Quasi non esiste colore locale, e invece la stessa pasta che, modellandosi costruisce il fantasma. Che però, in ogni momento, potrebbe essere nuovamente assorbito nel gorgo dl magma-colore che l’ha generato.
Stanno qui le figure di Barbara: icone del presente. Le figure di Anna veleggiano più distanti: icone del sogno, comune e privatissimo.
La pittura è per entrambe necessaria. C’è ancora qualcuno dopo Bacon, convinto che “una parte del sistema nervoso è avvicinabile solo attraverso la pittura”.
Pino Mantovani
03
marzo 2006
Barbara Bonfilio / Anna Madia – Descrizioni
Dal 03 marzo al primo aprile 2006
giovane arte
Location
GALLERIA WUNDERKAMMER
Torino, Via Eusebio Bava, 6F, (Torino)
Torino, Via Eusebio Bava, 6F, (Torino)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 10-12 e 15.30-19
Vernissage
3 Marzo 2006, ore 18,30
Autore
Curatore