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Beniamino Peretti – Donne senza tempo
Una sorta di “ascolto” attraverso gli occhi, un lasciarsi interpellare, interrogare dall’opera che ci attrae e ci smarrisce, ci si propone e ci si sottrae ad un tempo. Un invito, oggi estremamente raro, da non eludere.
Comunicato stampa
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Inaugura Sabato 5 Settembre, alla Barchessa Rambaldi ARTE di Bardolino, “DONNE SENZA TEMPO” esposizione personale dell’artista BENIAMINO PERETTI.
Materici colori della terra e giunoniche posture si incontrano nell’opera di Peretti. Figure sospese in un’atmosfera visionaria, come viaggiassero sulla traccia del tempo, fino ad arrivare a noi così come le vediamo: erose, vissute, frammentate. Con grande tecnica l’artista proietta metamorfosi del corpo femminile che sembrano dettate dal subconscio.
Immagini calde, ma non sempre rassicuranti, quelle che ne scaturiscono. Forme dolcemente distese, fisionomie imprecisate, donne acefale o a volte con teste piccolissime.
Immagini che esprimono primitiva sensualità.
D.L.
BEN PERETTI: L'IMMAGINE COME CENERE VIVA
La creazione vive come genesi
sotto la superficie visibile dell’opera
Paul Klee
(Gedichte,Poesie.1914)
Per parlare delle opere di Ben Peretti è opportuna una fenomenologia non tanto dell'immagine, ma dello stesso atto che la produce, del processo che porta alla realizzazione dell'immagine.
Le sue opere, ai limiti della figurazione, ruotano tutte – a mio avviso – attorno al problema della formazione: formazione dell'immagine, formazione come processo e come genesi. Per questo richiama alla mente Paul Klee e la sua poetica:"Buona è la formazione, cattiva la forma. La forma è fine, morte, la formazione è movimento, azione (...) è vita",
Lo spazio è già forma, come per Paul Klee, e va soltanto indagato, per scoprire i processi (ovvero la "formazione", la "genesi") che lo costituiscono. Le figure di Peretti sono forme in fieri, liberamente ruotanti nello spazio, punto di partenza per l’atto creativo che, come scriveva lo stesso Klee, altro non è che l'azione esemplare del proprio vivere ed essere nel mondo. Come per Klee, anche per Ben Peretti la creazione artistica è il frutto di una duplice azione, di penetrazione nelle cose, nel visibile ("Io rispecchio le cose fino in fondo al cuore" annotava Klee nei Diari, nel 1901), e di riduzione all'essenziale ( "esprimere la molteplicità con una sola parola": Peretti potrebbe assumere tale annotazione kleiana del 1901 come sintesi del proprio pensiero sull’arte e del proprio “fare” artistico). Questo è il motivo conduttore che, intrecciato con altri fili e suggestioni, sostanzia la sua opera e, nel contempo, riflette un modo d’orientarsi tra le cose della vita e della natura, una via per ritrovare quelle che Bergson chiamava “le articolazioni del reale”. Le immagini che Ben propone, in forza di un consumato mestiere, di una profonda competenza tecnica e di un'esperienza più che decennale, come frescante e decoratore – trasmessagli anche per via familiare, attraverso le generazioni, di padre in figlio – sono dapprima concepite (pensate, progettate, espresse graficamente coll’ausilio del computer) con qualche riconoscibile riferimento alla realtà o alla natura, poi rese più essenziali, avvolte su se stesse, fatte volteggiare nello spazio, ridotte a strutture costituite di linee dinamiche, ad esprimere il movimento interno di quei “corpi”al limite del figurativo. Anche qui Paul Klee docet, là dove sostiene che "ogni opera è anzitutto (…) non opera che è, ma in prima linea genesi, opera che diviene". E’ la linea stessa che, attraverso il proprio movimento – che è genesi e “formazione” - si trasforma e diventa immagine, non statica ma dinamica, dall'equilibrio sempre precario, instabile, perché ciò che viene raffigurato non è tanto il fermo-immagine di una rotazione, come potrebbe apparire guardando superficialmente la costruzione generativa dell’opera di Ben e pensando al noto paradosso di Zenone della freccia colta in un tracciato puntuale in ogni istante del suo volo, quanto piuttosto l’affermazione di un processo in corso, l’esplicazione di una forma che è sempre in divenire, colta nel suo farsi, senza alcun esito predefinito da raggiungere. Tale morfogenesi mai compiuta si esplica nella piega – le pli indagata da Deleuze come metafora dell'anima e dell'esperienza moderna – che è piegatura, ondulazione, linea curva, flessione, sinuosità, nelle sue molteplici inclinazioni e prospettive, espressione del continuum, di un divenire senza cesure, nella materia, e della libertà – contro ogni mero meccanicismo- nell'universo dotato d'anima. Libere creazioni, le figure di Peretti, non cristallizzate, respirano nelle loro inflessioni costitutive, nel loro incessante “implicarsi”, farsi piega, torcendosi in uno spazio tridimensionale che ne segue l'infinito processo di formazione e de-formazione.
Nell'opera Perettiana la tecnica svolge un ruolo indubbiamente importante; ingobbio, intonaco, intonachino, materiali edili, terre e pigmenti preziosi mescolati e diluiti ad arte sono elementi essenziali, il cui l'utilizzo richiede un'approfondita competenza. La pittura a fresco, inoltre, fa pensare ai tempi lunghi dell’arte medievale, della costruzione di cattedrali – processo laborioso e titanico che poteva durare più d’un secolo -, richiama alla mente i grandi cicli murali dipinti nell’arco di più giornate da maestro e allievi di bottega, e tecniche tramandate attraverso generazioni di maestranze. Ci richiama Giotto della Cappella degli Scrovegni a Padova o della Basilica di S. Francesco ad Assisi, ci rimanda anche al Rinascimento, al magistrale e sovrumano esempio d’arte michelangiolesca a Roma, nella Cappella Sistina.
Che un artista contemporaneo si cimenti con l’affresco, sia pure su tela e con velature a secco, e cerchi da sé i propri colori, li crei, mescolando terre, ossidi e polveri alla maniera antica, si misuri con l’intonaco e la sua facile disseccabilità, con la sua possibilità anche di assorbire il colore e di restituirlo in superficie, per un processo chimico ben noto, con effetti di estrema leggerezza, rivela mestiere e passione, capacità tecnica e curiosità intellettuale, abilità artigianale e creatività che si sostanzia di un’abile e paziente manualità. La levità e la disinvoltura con cui, come pochi altri artisti sanno fare, Peretti sa distanziarsi dalle proprie opere per guardarle con occhio disincantato e oggettivo, non precludono la certosina applicazione e la costanza del suo impegno nel realizzarle, la sua dedizione totale al proprio compito d’artista. Il suo affaccendarsi sulla tela prende la forma di una concentrazione e successione di operazioni compiute sulla materia del colore ancora fresca, quasi a sfidarla, a provocarne la risposta in termini estetici. Il pittore la mette alla prova - con la capacità di ripetere ogni volta la sequenza di gesti che lo rende abile nelle tecniche acquisite e gli permette il raggiungimento degli effetti voluti - incidendola con segni e reticoli, imprimendovi qualche solco o linea di demarcazione interna allo spazio pittorico. Le sue mani rispettano e assecondano la materia, pur trasformandola secondo un sentire che è progetto estetico e nel contempo ascolto e osservazione dei materiali e della loro natura, con l'occhio costantemente rivolto anche alla componente concreta, tattile, della pittura e alle tecniche che la tradizione pittorica ha elaborato nel corso dei secoli.
E così la physis, il mondo della materia - anche inorganica, minerale - ne favorisce l’operare, si piega al suo tocco d’artista, a quel processo del dar forma nuova alle cose che gli antichi greci chiamavano techne e che noi traduciamo con la parola arte.
Per questo i dipinti di Ben emanano un fascino d’antico, come fossero scampati all’oblio del tempo in forza di un’energia in essi racchiusa, eppure sfuggenti ad ogni sforzo che dall'esterno tenti di bloccarli in qualsivoglia stato di quiete per poterne afferrare un assetto definito e definitivo. Le sue tele, i suoi affreschi, su tavola (pannello in legno tamburato) o su tela di iuta spalmata d’intonaco, si presentano, invece, come soglie visionarie ove cogliere le infinite risonanze del dialogo che la luce intesse con la materia, con l’eco del colore che traspare sotto la coltre ovattata di superficie, e dove scoprire l’energia pulsante che le pervade.
La gestualità è un elemento che Ben stesso sente come caratteristica irrinunciabile del proprio lavoro, intessuta com'è di sensibilità, emozione, impulsi ed intuizioni, riflessione e memoria: un insieme che permette allo sguardo dell’artista di spaziare nella secolare tradizione dell’affresco e tra una miriade di altre suggestioni (dalle “icone” di Campigli alle pitture tombali etrusche, dalle sculture della classicità greco-romana alle figure ritorte di Francis Bacon) per cogliervi un palpito di bellezza e uno stimolo per una nuova creazione d’arte.
All’effetto di trasparenza leggera consentita dalla metodologia dell’affresco Peretti associa – quasi in contrappunto - la ricerca di altre tecniche tese a rendere palpabile la matericità del dipinto, secondo modalità espressive che gli maturano dentro, nel ripensamento della propria esperienza così come di secoli di storia dell’arte, ma anche della storia tout court dell’umanità. Ciò che emerge da questo lavoro di introiezione e di rielaborazione – in cui la virtualità del mezzo informatico diventa un importante punto di partenza, oltre che ausilio e supporto alla mente e all'occhio dell'artista-demiurgo – è un universo figurale fluido e senza tempo, che risulta non estraneo all’orizzonte mentale dell’uomo immerso nell’odierna civiltà mediatica e tecnologica.
Qui la padronanza tecnica si incontra con una “sapienza” esistenziale oltre che pittorica per dar vita ad immagini solo apparentemente semplici, il cui ordine e nitore valgono a contenere l’energia del gesto esprimente il movimento. In queste “figure in fuga”, quasi visioni afferrate al volo come fotogrammi rubati all’immaginazione o alla memoria, l’estrema pulizia formale e l’attenzione al dettaglio vengono sottoposte a una sorta di sfida gestuale mediante il segno che l’artista incide nel vivo della materia, sovrapponendo così il momento creativo a quello realizzativo. Ciò non esclude -s'è detto- una fase preparatoria e progettuale accurata, a tavolino, davanti al monitor del computer, ove Ben viene elaborando in nuce le sue “figure”. Il graffio eseguito poi, in fase d'affresco, seguendo l’intuizione del momento, ne sottolinea il dinamismo. Ecco allora il segno che ripete un contorno, sdoppiandolo o scavandogli accanto un solco che molto ha del graffito, o imprimendo nell’intonaco ancora umido incisive linee di forza.
Mi sembrano, quelle di Ben, immagini all’ennesima potenza, ovvero immagini di immagini o – per rubare un’espressione a Bailly, nella sua Apostrofe muta – “ombre portate dal sogno di un’ombra che passa”, funi gettate sopra l'abisso, tentativi - che solo l’arte consente - di fermare faustianamente l’attimo che fugge.
In queste istantanee dello spirito o della memoria trovano spazio emergenze dell’inconscio, fantasmi virtualmente evocati e pensieri coscienti, studio della forma e lavorìo della fantasia, oltre al portato del proprio vissuto, di uomo e d’artista. La passione, si potrebbe dire archeologica, per l’antico, per il reperto, il frammento o il lacerto del passato, si mescola alle immagini inconsce, tratte dal mondo onirico o dalla memoria ancestrale, e traspare in queste opere cariche di valenze e tracce sottese, appena rivelate da pochi tocchi e aggiunte di getto, virgole di bianco o rapidi graffi nello “sfondo”, repentinamente tracciati durante l’esecuzione. Segni di un universo interiore che affiora a porgere una qualche suggestione di senso. Una pittura che, nella sua originalità, dà vita a creazioni che ci appaiono, hegelianamente, “modellate dal lavoro dello spirito”, in quanto sembrano trattenere in sé il richiamo e l’anticipazione di una presenza che è anche assenza, lasciandoci intuire il mistero insito nell’interiorità umana. Potremmo azzardare per queste opere il nome di apparizioni, in grado di inscenare una terrena epifania, quasi a "rendere visibile l'invisibile". E la tecnica dell’affresco, sia pure per interposta tela, fa sì che il colore risulti non semplicemente “messo sul” proprio oggetto, ma costitutivo, a darne per così dire - il colorito, ovvero ciò che restituisce alla pittura la sua “carne”, l’aspetto “vivo” a cui, per tradizione, tende.
Peretti è capace di dipingere figure vagamente antropomorfe lasciando filtrare attraverso la tela scarti d’invisibilità, tant’è che questi suoi “fantasmi”, mentre sembrano a portata di mano, o di sguardo, si rivelano infine irriconoscibili, inafferrabili, inattingibili, e dunque indescrivibili, elusivi dinnanzi a qualsiasi tentativo di definizione. L’analisi “filologica” di queste opere si arena su sentieri interrotti, per usare la bella metafora heideggeriana. Il significato della pittura di Peretti va cercato altrove: nella capacità di recare, nel proprio essere segno e colore insieme, un’apertura all’uomo, alla sua storia e al suo mistero. Come scrive Didi-Huberman in un saggio del 2002 “l'immagine (...) manifesta uno stato di sopravvivenza che non appartiene né pienamente alla vita né pienamente alla morte, ma a un genere di stato paradossale quanto quello degli spettri che, incessantemente, mettono dal di dentro in moto la nostra memoria. L'immagine andrebbe pensata come cenere viva”.
Nel tracciare le sue visioni, questa pittura distoglie il nostro sguardo dalla modalità visiva usuale, con cui siamo soliti guardare il mondo che ci circonda, sottrae alla presenza ordinaria le figure che sceglie di rappresentare per portare il riguardante ( non un mero spettatore, ma chi, coinvolto attraverso lo sguardo, impegna il suo sentire interiore, cuore, emozioni, pensiero) a compiere una scoperta, con lo stesso stupore che suscita nell’appassionato di archeologia il ritrovamento di un reperto del passato. La “cenere viva” dell'immagine, la vita simulacrale, il fatto che qualcosa che penseremmo statico e privo di vita, la acquisti ed anzi dia vita all'immaginazione, colpendo il nostro sguardo e - attraverso di esso – la nostra interiorità, crea un circolo di comunicazione, una condivisione che, sovvertendo i ruoli precostituiti di soggetto/oggetto, ci conduce nel cuore dell'opera proprio mentre essa penetra in noi.
Gli affreschi di Ben Peretti ci conducono ad attraversare le ombre e i sogni, i fantasmi della memoria e dell’inconscio, le nostre credenze e gli echi dell’immaginario collettivo che pur ci appartengono, le ansie e le “curae” che ci pervadono, per tornare ad uno sguardo limpido, puro, originario, che non è né domanda né risposta, ma silenziosa e appagante contemplazione. Una sorta di “ascolto” attraverso gli occhi, un lasciarsi interpellare, interrogare dall’opera che ci attrae e ci smarrisce, ci si propone e ci si sottrae ad un tempo. Un invito, oggi estremamente raro, da non eludere.
Elisabetta Bovo
critico d'arte, giornalista, docente di Iconologia ed ermeneutica dell'immagine
Materici colori della terra e giunoniche posture si incontrano nell’opera di Peretti. Figure sospese in un’atmosfera visionaria, come viaggiassero sulla traccia del tempo, fino ad arrivare a noi così come le vediamo: erose, vissute, frammentate. Con grande tecnica l’artista proietta metamorfosi del corpo femminile che sembrano dettate dal subconscio.
Immagini calde, ma non sempre rassicuranti, quelle che ne scaturiscono. Forme dolcemente distese, fisionomie imprecisate, donne acefale o a volte con teste piccolissime.
Immagini che esprimono primitiva sensualità.
D.L.
BEN PERETTI: L'IMMAGINE COME CENERE VIVA
La creazione vive come genesi
sotto la superficie visibile dell’opera
Paul Klee
(Gedichte,Poesie.1914)
Per parlare delle opere di Ben Peretti è opportuna una fenomenologia non tanto dell'immagine, ma dello stesso atto che la produce, del processo che porta alla realizzazione dell'immagine.
Le sue opere, ai limiti della figurazione, ruotano tutte – a mio avviso – attorno al problema della formazione: formazione dell'immagine, formazione come processo e come genesi. Per questo richiama alla mente Paul Klee e la sua poetica:"Buona è la formazione, cattiva la forma. La forma è fine, morte, la formazione è movimento, azione (...) è vita",
Lo spazio è già forma, come per Paul Klee, e va soltanto indagato, per scoprire i processi (ovvero la "formazione", la "genesi") che lo costituiscono. Le figure di Peretti sono forme in fieri, liberamente ruotanti nello spazio, punto di partenza per l’atto creativo che, come scriveva lo stesso Klee, altro non è che l'azione esemplare del proprio vivere ed essere nel mondo. Come per Klee, anche per Ben Peretti la creazione artistica è il frutto di una duplice azione, di penetrazione nelle cose, nel visibile ("Io rispecchio le cose fino in fondo al cuore" annotava Klee nei Diari, nel 1901), e di riduzione all'essenziale ( "esprimere la molteplicità con una sola parola": Peretti potrebbe assumere tale annotazione kleiana del 1901 come sintesi del proprio pensiero sull’arte e del proprio “fare” artistico). Questo è il motivo conduttore che, intrecciato con altri fili e suggestioni, sostanzia la sua opera e, nel contempo, riflette un modo d’orientarsi tra le cose della vita e della natura, una via per ritrovare quelle che Bergson chiamava “le articolazioni del reale”. Le immagini che Ben propone, in forza di un consumato mestiere, di una profonda competenza tecnica e di un'esperienza più che decennale, come frescante e decoratore – trasmessagli anche per via familiare, attraverso le generazioni, di padre in figlio – sono dapprima concepite (pensate, progettate, espresse graficamente coll’ausilio del computer) con qualche riconoscibile riferimento alla realtà o alla natura, poi rese più essenziali, avvolte su se stesse, fatte volteggiare nello spazio, ridotte a strutture costituite di linee dinamiche, ad esprimere il movimento interno di quei “corpi”al limite del figurativo. Anche qui Paul Klee docet, là dove sostiene che "ogni opera è anzitutto (…) non opera che è, ma in prima linea genesi, opera che diviene". E’ la linea stessa che, attraverso il proprio movimento – che è genesi e “formazione” - si trasforma e diventa immagine, non statica ma dinamica, dall'equilibrio sempre precario, instabile, perché ciò che viene raffigurato non è tanto il fermo-immagine di una rotazione, come potrebbe apparire guardando superficialmente la costruzione generativa dell’opera di Ben e pensando al noto paradosso di Zenone della freccia colta in un tracciato puntuale in ogni istante del suo volo, quanto piuttosto l’affermazione di un processo in corso, l’esplicazione di una forma che è sempre in divenire, colta nel suo farsi, senza alcun esito predefinito da raggiungere. Tale morfogenesi mai compiuta si esplica nella piega – le pli indagata da Deleuze come metafora dell'anima e dell'esperienza moderna – che è piegatura, ondulazione, linea curva, flessione, sinuosità, nelle sue molteplici inclinazioni e prospettive, espressione del continuum, di un divenire senza cesure, nella materia, e della libertà – contro ogni mero meccanicismo- nell'universo dotato d'anima. Libere creazioni, le figure di Peretti, non cristallizzate, respirano nelle loro inflessioni costitutive, nel loro incessante “implicarsi”, farsi piega, torcendosi in uno spazio tridimensionale che ne segue l'infinito processo di formazione e de-formazione.
Nell'opera Perettiana la tecnica svolge un ruolo indubbiamente importante; ingobbio, intonaco, intonachino, materiali edili, terre e pigmenti preziosi mescolati e diluiti ad arte sono elementi essenziali, il cui l'utilizzo richiede un'approfondita competenza. La pittura a fresco, inoltre, fa pensare ai tempi lunghi dell’arte medievale, della costruzione di cattedrali – processo laborioso e titanico che poteva durare più d’un secolo -, richiama alla mente i grandi cicli murali dipinti nell’arco di più giornate da maestro e allievi di bottega, e tecniche tramandate attraverso generazioni di maestranze. Ci richiama Giotto della Cappella degli Scrovegni a Padova o della Basilica di S. Francesco ad Assisi, ci rimanda anche al Rinascimento, al magistrale e sovrumano esempio d’arte michelangiolesca a Roma, nella Cappella Sistina.
Che un artista contemporaneo si cimenti con l’affresco, sia pure su tela e con velature a secco, e cerchi da sé i propri colori, li crei, mescolando terre, ossidi e polveri alla maniera antica, si misuri con l’intonaco e la sua facile disseccabilità, con la sua possibilità anche di assorbire il colore e di restituirlo in superficie, per un processo chimico ben noto, con effetti di estrema leggerezza, rivela mestiere e passione, capacità tecnica e curiosità intellettuale, abilità artigianale e creatività che si sostanzia di un’abile e paziente manualità. La levità e la disinvoltura con cui, come pochi altri artisti sanno fare, Peretti sa distanziarsi dalle proprie opere per guardarle con occhio disincantato e oggettivo, non precludono la certosina applicazione e la costanza del suo impegno nel realizzarle, la sua dedizione totale al proprio compito d’artista. Il suo affaccendarsi sulla tela prende la forma di una concentrazione e successione di operazioni compiute sulla materia del colore ancora fresca, quasi a sfidarla, a provocarne la risposta in termini estetici. Il pittore la mette alla prova - con la capacità di ripetere ogni volta la sequenza di gesti che lo rende abile nelle tecniche acquisite e gli permette il raggiungimento degli effetti voluti - incidendola con segni e reticoli, imprimendovi qualche solco o linea di demarcazione interna allo spazio pittorico. Le sue mani rispettano e assecondano la materia, pur trasformandola secondo un sentire che è progetto estetico e nel contempo ascolto e osservazione dei materiali e della loro natura, con l'occhio costantemente rivolto anche alla componente concreta, tattile, della pittura e alle tecniche che la tradizione pittorica ha elaborato nel corso dei secoli.
E così la physis, il mondo della materia - anche inorganica, minerale - ne favorisce l’operare, si piega al suo tocco d’artista, a quel processo del dar forma nuova alle cose che gli antichi greci chiamavano techne e che noi traduciamo con la parola arte.
Per questo i dipinti di Ben emanano un fascino d’antico, come fossero scampati all’oblio del tempo in forza di un’energia in essi racchiusa, eppure sfuggenti ad ogni sforzo che dall'esterno tenti di bloccarli in qualsivoglia stato di quiete per poterne afferrare un assetto definito e definitivo. Le sue tele, i suoi affreschi, su tavola (pannello in legno tamburato) o su tela di iuta spalmata d’intonaco, si presentano, invece, come soglie visionarie ove cogliere le infinite risonanze del dialogo che la luce intesse con la materia, con l’eco del colore che traspare sotto la coltre ovattata di superficie, e dove scoprire l’energia pulsante che le pervade.
La gestualità è un elemento che Ben stesso sente come caratteristica irrinunciabile del proprio lavoro, intessuta com'è di sensibilità, emozione, impulsi ed intuizioni, riflessione e memoria: un insieme che permette allo sguardo dell’artista di spaziare nella secolare tradizione dell’affresco e tra una miriade di altre suggestioni (dalle “icone” di Campigli alle pitture tombali etrusche, dalle sculture della classicità greco-romana alle figure ritorte di Francis Bacon) per cogliervi un palpito di bellezza e uno stimolo per una nuova creazione d’arte.
All’effetto di trasparenza leggera consentita dalla metodologia dell’affresco Peretti associa – quasi in contrappunto - la ricerca di altre tecniche tese a rendere palpabile la matericità del dipinto, secondo modalità espressive che gli maturano dentro, nel ripensamento della propria esperienza così come di secoli di storia dell’arte, ma anche della storia tout court dell’umanità. Ciò che emerge da questo lavoro di introiezione e di rielaborazione – in cui la virtualità del mezzo informatico diventa un importante punto di partenza, oltre che ausilio e supporto alla mente e all'occhio dell'artista-demiurgo – è un universo figurale fluido e senza tempo, che risulta non estraneo all’orizzonte mentale dell’uomo immerso nell’odierna civiltà mediatica e tecnologica.
Qui la padronanza tecnica si incontra con una “sapienza” esistenziale oltre che pittorica per dar vita ad immagini solo apparentemente semplici, il cui ordine e nitore valgono a contenere l’energia del gesto esprimente il movimento. In queste “figure in fuga”, quasi visioni afferrate al volo come fotogrammi rubati all’immaginazione o alla memoria, l’estrema pulizia formale e l’attenzione al dettaglio vengono sottoposte a una sorta di sfida gestuale mediante il segno che l’artista incide nel vivo della materia, sovrapponendo così il momento creativo a quello realizzativo. Ciò non esclude -s'è detto- una fase preparatoria e progettuale accurata, a tavolino, davanti al monitor del computer, ove Ben viene elaborando in nuce le sue “figure”. Il graffio eseguito poi, in fase d'affresco, seguendo l’intuizione del momento, ne sottolinea il dinamismo. Ecco allora il segno che ripete un contorno, sdoppiandolo o scavandogli accanto un solco che molto ha del graffito, o imprimendo nell’intonaco ancora umido incisive linee di forza.
Mi sembrano, quelle di Ben, immagini all’ennesima potenza, ovvero immagini di immagini o – per rubare un’espressione a Bailly, nella sua Apostrofe muta – “ombre portate dal sogno di un’ombra che passa”, funi gettate sopra l'abisso, tentativi - che solo l’arte consente - di fermare faustianamente l’attimo che fugge.
In queste istantanee dello spirito o della memoria trovano spazio emergenze dell’inconscio, fantasmi virtualmente evocati e pensieri coscienti, studio della forma e lavorìo della fantasia, oltre al portato del proprio vissuto, di uomo e d’artista. La passione, si potrebbe dire archeologica, per l’antico, per il reperto, il frammento o il lacerto del passato, si mescola alle immagini inconsce, tratte dal mondo onirico o dalla memoria ancestrale, e traspare in queste opere cariche di valenze e tracce sottese, appena rivelate da pochi tocchi e aggiunte di getto, virgole di bianco o rapidi graffi nello “sfondo”, repentinamente tracciati durante l’esecuzione. Segni di un universo interiore che affiora a porgere una qualche suggestione di senso. Una pittura che, nella sua originalità, dà vita a creazioni che ci appaiono, hegelianamente, “modellate dal lavoro dello spirito”, in quanto sembrano trattenere in sé il richiamo e l’anticipazione di una presenza che è anche assenza, lasciandoci intuire il mistero insito nell’interiorità umana. Potremmo azzardare per queste opere il nome di apparizioni, in grado di inscenare una terrena epifania, quasi a "rendere visibile l'invisibile". E la tecnica dell’affresco, sia pure per interposta tela, fa sì che il colore risulti non semplicemente “messo sul” proprio oggetto, ma costitutivo, a darne per così dire - il colorito, ovvero ciò che restituisce alla pittura la sua “carne”, l’aspetto “vivo” a cui, per tradizione, tende.
Peretti è capace di dipingere figure vagamente antropomorfe lasciando filtrare attraverso la tela scarti d’invisibilità, tant’è che questi suoi “fantasmi”, mentre sembrano a portata di mano, o di sguardo, si rivelano infine irriconoscibili, inafferrabili, inattingibili, e dunque indescrivibili, elusivi dinnanzi a qualsiasi tentativo di definizione. L’analisi “filologica” di queste opere si arena su sentieri interrotti, per usare la bella metafora heideggeriana. Il significato della pittura di Peretti va cercato altrove: nella capacità di recare, nel proprio essere segno e colore insieme, un’apertura all’uomo, alla sua storia e al suo mistero. Come scrive Didi-Huberman in un saggio del 2002 “l'immagine (...) manifesta uno stato di sopravvivenza che non appartiene né pienamente alla vita né pienamente alla morte, ma a un genere di stato paradossale quanto quello degli spettri che, incessantemente, mettono dal di dentro in moto la nostra memoria. L'immagine andrebbe pensata come cenere viva”.
Nel tracciare le sue visioni, questa pittura distoglie il nostro sguardo dalla modalità visiva usuale, con cui siamo soliti guardare il mondo che ci circonda, sottrae alla presenza ordinaria le figure che sceglie di rappresentare per portare il riguardante ( non un mero spettatore, ma chi, coinvolto attraverso lo sguardo, impegna il suo sentire interiore, cuore, emozioni, pensiero) a compiere una scoperta, con lo stesso stupore che suscita nell’appassionato di archeologia il ritrovamento di un reperto del passato. La “cenere viva” dell'immagine, la vita simulacrale, il fatto che qualcosa che penseremmo statico e privo di vita, la acquisti ed anzi dia vita all'immaginazione, colpendo il nostro sguardo e - attraverso di esso – la nostra interiorità, crea un circolo di comunicazione, una condivisione che, sovvertendo i ruoli precostituiti di soggetto/oggetto, ci conduce nel cuore dell'opera proprio mentre essa penetra in noi.
Gli affreschi di Ben Peretti ci conducono ad attraversare le ombre e i sogni, i fantasmi della memoria e dell’inconscio, le nostre credenze e gli echi dell’immaginario collettivo che pur ci appartengono, le ansie e le “curae” che ci pervadono, per tornare ad uno sguardo limpido, puro, originario, che non è né domanda né risposta, ma silenziosa e appagante contemplazione. Una sorta di “ascolto” attraverso gli occhi, un lasciarsi interpellare, interrogare dall’opera che ci attrae e ci smarrisce, ci si propone e ci si sottrae ad un tempo. Un invito, oggi estremamente raro, da non eludere.
Elisabetta Bovo
critico d'arte, giornalista, docente di Iconologia ed ermeneutica dell'immagine
05
settembre 2009
Beniamino Peretti – Donne senza tempo
Dal 05 settembre al 31 ottobre 2009
arte contemporanea
Location
BARCHESSA RAMBALDI
Bardolino, Via San Martino, (Verona)
Bardolino, Via San Martino, (Verona)
Orario di apertura
tutti i giorni 19:00 - 24:00 - chiuso martedì
Vernissage
5 Settembre 2009, ore 19:00
Autore
Curatore