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Bianchini | Minoglio | Pedroni – Open.Aperture
mostra collettiva
Comunicato stampa
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Open.Aperture
Nei sistemi non totalitari
una frontiera non è una barriera: è un ostacolo
simbolico, un invito a passare nell’altro campo.
Marc Augé
1. Open.
La linea di frontiera tra un luogo e un altro è solo una convenzione. Forse è una proiezione immaginativa pure il confine tra l’identità e l’alterità. Nella duplice dicotomia “individuale/collettivo” e “medesimo/altro” potrebbe essere interessante innescare un ritorno a se stessi attraverso l’esperienza dell’altro. Anche per mezzo di domande che vengono rivolte a estranei, e di cui forse misuriamo meglio il senso e la portata di quando le rivolgiamo a noi stessi. Qui si tratta di mettere in atto un tentativo. Ovvero cercare, attraverso la compresenza dell’altro, di raggiungere tutti i livelli di identità, lottando contro l’impossibilità dell’incontro. L’apertura verso lo straniero, a dispetto di tutti i raccordi e gli snodi, rientra nel campo di un’etnologia della solitudine. Ma chi è veramente l’altro? Il tentativo della mostra “Open.Aperture” è legato alla comprensione di chi viene definito “non-persona” della globalizzazione: migranti, nomadi, profughi, ovvero coloro che minaccerebbero la convivenza del ricco Occidente, tollerati come ospiti lavoratori, prossimi all’espulsione. La questione è sottilmente complessa. Gli artisti qui indagano l’immagine di colui che per necessità fugge dalla sua terra per cercare una via salvifica in uno stato ricco. Chi fugge dalla propria terra desolata si affida all’illusione che viene mostrata dalle televisioni dei paesi occidentali, passa dalla previsione di trovare un futuro migliore, all’azzardo, per approdare alla consapevolezza che la realtà poi è molto diversa. Salto nell’imponderabile e nella precarietà, perché si crede sempre nella chance. Chi fugge da una situazione inumana tocca tutte le sfumature del fato e della libertà. Perché non si può non immaginare un futuro a misura d’uomo. Ora che in Occidente viviamo in una sorta di presente perpetuo, continuamente indotti a percepire i termini dello spazio, dei confini e delle proprietà, quale può essere la chiave dell’avvenire, sempre al confine tra identità e alterità, tra barriere e ostacoli simbolici? In un mondo sempre più ineguale, dove cresce sempre più la differenza tra poveri e ricchi, nell’espansione di ogni forma globalizzata, come si fa ad accettare quello che succede? “Open. Aperture” cerca di comprendere la complessa natura in divenire dei nuovi stati e delle nuove patrie, il modello di tutte le rappresentazioni identitarie dell’Occidente. Perché le dinamiche delle migrazioni costringono la società a ridefinirsi incessantemente. Si rifà a una tradizione antica di solidarietà che sia modello di appartenenza e ospitalità: alla tradizione ebraica, che proteggeva i perseguitati da una giustizia vendicativa; al cristianesimo di San Paolo; al modello delle città sovrane medievali o delle chiese che offrivano immunità; all’Illuminismo, che ha sperimentato l’idea di dare asilo e ospitalità a chi ne aveva bisogno, con la prospettiva di un diritto e di una democrazia da costruire. Riprendendo un pensiero di Derrida, i nostri artisti immaginano un altro diritto e un’altra politica della città: “l’ospitalità è la cultura stessa e non è un’etica fra le altre. Nella misura in cui tocca l’ethos, cioè la dimora, l’esser presso-di-sé, il luogo del soggiorno familiare quanto il modo di esserci, il modo di rapportarsi a sé e agli altri, agli altri come ai propri o agli estranei, l’etica è ospitalità, è da parte a parte coestensiva all’esperienza dell’ospitalità, in qualunque modo la si apra o la si limiti. Ma per questa stessa ragione, e perché l’esser-sé presso di sé (l’ipseità stessa) presuppone un’accoglienza o un’inclusione dell’altro nel tentativo di appropriarsene, di controllarlo, padroneggiarlo, secondo differenti modalità della violenza, c’è una storia dell’ospitalità, una perversione sempre possibile della Legge dell’ospitalità (che può sembrare incondizionata) e delle leggi che la limitano e la condizionano, iscrivendola in un diritto” (Jacques Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo, trad. it. di Bruno Moroncini, Napoli 1997, pp. 26-27). Una mostra quindi sull’apertura e sulla comprensione, per cercare di andare oltre il modello filosofico occidentale della complementarietà, che la storia ha rilevato come inadeguato per l’incontro tra le culture. Apertura come paradigma comunicativo con lo straniero, per uno scambio omeostatico tra l’altro e noi stessi. Uno sforzo per attuare un’ermeneutica xenologica, per un’effettiva comprensione dello straniero che potremmo diventare, in un’ottica del ribaltamento.
2. Aperture
L’absidiola sud-occidentale della Basilica di Santa Maria Maggiore fu murata nel 1586 per dare simmetria alle pareti del transetto, dopo che, nel 1470, furono demolite la sacrestia vecchia e l’absidiola nord-occidentale per edificare la Cappella Colleoni. Per raggiungere il matroneo, l’absidiola fu munita di due rampe di scale e di un pianerottolo, che rovinò la parte mediana degli affreschi trecenteschi. Il matroneo, non più fruibile dalla comunità, diventò un luogo di servizio, un magazzino. La Fondazione della Misericordia Maggiore di Bergamo ha deciso di ridare vita a questi suggestivi spazi. I matronei e il sottotetto del grande argano sono stati riaperti, così che migliaia di fruitori possano accedervi nei periodi in cui vengono organizzate mostre di arte contemporanea. Un luogo di arte antica che fa da contenitore di installazioni temporanee e viene fruito dalla comunità - ma soprattutto la suggestione di uno spazio utilizzato nel XII secolo, aperto e poi chiuso, e che adesso, nel XXI secolo, si apre di nuovo, con nuove prospettive - ha indotto Giovanni Bianchini a legare la sua installazione site specific, intitolata “Rotte”, al tema dell’apertura verso l’altro.
Il texture delle scatole aperte di grandi dimensioni - composto da innumerevoli frammenti di quotidiani stranieri incollati uno accanto all’altro, per creare raccordi di casualità e nuove relazioni di senso - è ottenuto con una modalità molto ripetitiva, come fosse lo sgranare di un rosario o di un mantra, un atto “rituale” per stare profondamente concentrato sul fare. Il lungo tempo e la pazienza che occorrono per realizzare ogni grande scatola aperta costituiscono l’anima non visibile dell’opera. L’artista non potrebbe lavorare senza questa prassi. Essere concentrato su un’operazione molto banale è un ingrediente fondamentale della sua ricerca. L’oggetto è sempre molto semplice. Preso dalla quotidianità e portato all’esagerazione in un contesto inusuale. Bianchini è convinto che basta poco per rendere qualcosa interessante. Il texture - costituito da frammenti di mappe, ideogrammi o da caratteri orientali (sono stati utilizzati caratteri cinesi, tailandesi, giapponesi, serbi, cirillici, arabi, per evocare culture diverse da quella occidentale) - dà un’aura particolare, trasformando l’oggetto comune in opera di segni combinatori. Bianchini chiede continuamente ai suoi amici viaggiatori di portargli quotidiani, cartine, mappe, che giungono da altre culture. Lavorare sui frammenti con linguaggi stranieri è una via per aprire di più il senso della scatola: è un assorbimento visuale e semantico di altri punti di vista e tradizioni. In un primo momento, queste opere sono state collocate sotto i portici del Palazzo della Ragione. Poi sono state smontate per farle viaggiare, rotte per altre rotte, entro un progetto di dinamismo, coinvolgendo più persone per portarle nello spazio del matroneo, passando dalle strette scale dell’absidiola sud-occidentale. Nel matroneo viene idealmente creato un rapporto tra la grande scatola aperta, qui intesa come una soglia da attraversare con la coscienza, e il grande affresco trecentesco raffigurante Sant’Alessandro, come fosse un labirinto in cui gli spettatori entrano in altre dimensioni della visione. I fruitori scorrono entro l’apertura dell’installazione, tra le infinite lettere e ideogrammi di tutti i linguaggi presenti sulle pareti della scatola, i quali rimangono indecifrabili segni di una relazione che potrebbe avvenire, tramite un avvicinamento culturale, oppure creare distanza e incomprensione.
In relazione alle “Rotte”, Gianpaolo Pedroni ha realizzato un’opera sonora che riprende l’idea della “musica instrumentalis”. I suoni – che hanno una provenienza naturale, dagli oggetti e dal lavoro umano, come nella migliore tradizione della musica concreta - si stagliano nello spazio per colmare il silenzio interiore, rapportandosi al concetto dell’apertura all’altro da sé.
Riprende il concetto platonico dell’Harmonia Mundi, mediazione tra spirito umano e materia, innescando un viaggio ideale tra musica di stampo umanistico e rumori della quotidianità contemporanea, in una sottile apertura a significati ermetici fortemente legati alla semplicità del reale.
Tra le scatole aperte di Bianchini e i video di Andrea Minoglio, nell’angusto passaggio che porta al sottotetto del grande argano, Pedroni ha ideato un evento sonoro diatonico, intendendolo come percorso che evochi l’ascensione dello spirito umano verso nuove aperture, forse di natura divina: è una scala ascendente, completamente costruita elettronicamente con una aggiunta vocale, che riprende la tipica funzione nel repertorio della musica sacra e barocca, oltre a sottolineare il passaggio a uno spazio e a una situazione densi di drammaticità (il sacrificio e la tragedia dell' immigrazione).
La video-installazione di Minoglio (“La vera storia di un povero cristo”) mostra un’azione da più punti di vista. Svolge il racconto e gli eventi in sequenza cinetica, tracciando una parentela iconografica con molte opere di Lorenzo Lotto, dove più scene in diversi momenti temporali coesistono in un unico spazio. La scelta formale della sincronicità è sia un omaggio allo stile di un grande artista del passato sia una maniera di “trasformare” una struttura diacronica come quella del video, che è basata sullo scorrere nel tempo e sulla sua manipolazione attraverso il montaggio.
Nel sottotetto di Santa Maria Maggiore sono stati collocati quattro monitor: uno con tre momenti della storia montati assieme, e tre laterali, con le singole scene mostrate da altri punti di vista, con diverse prospettive. Il senso di circolarità degli eventi è ulteriormente enfatizzato dal montaggio in loop e dalla presenza della grande ruota lignea (argano) accanto ai monitor. Le varie angolature della visione e della percezione dicono la stessa cosa in modi diversi. I fruitori che entrano nello spazio oscurato del sottotetto percepiscono un insieme complesso: un affresco visto da lontano, se ci si limita a entrare nella stanza e a percepire suoni e immagini mischiati insieme; un affresco visto da vicino, se ci si avvicina a guardare le singole scene riprodotte ciclicamente sui vari monitor; un affresco che racconta una storia, se si seguono i vari momenti, dall’inizio fino alla fine.
La storia è esemplare, ridotta all’essenziale. Ha una declinazione laica, ma trattata come fosse influenzata dalle rappresentazioni pittoriche religiose. Sembra una messa in visione del martirio di un santo, secondo uno svolgimento vicino alle sacre rappresentazioni del Medioevo o del Rinascimento, seguendo il canovaccio di una “Legenda aurea” dei nostri tempi. La fotografia ricorda l’atmosfera coloristica dei quadri di Piero della Francesca. Il ritmo è come un respiro che segna il dipanarsi degli eventi, tra calma rassegnazione, l’apice violento del dramma, e un ritorno al silenzio nell’epilogo. Il significato di queste strutture ritmiche mandate in loop evoca idealmente determinati repertori della musica sacra occidentale (l’uso della monodia e la ripetitività del canto gregoriano) e le danze rituali nella cultura africana, la taranta del Sud-Italia, e la danza dei dervisci. Questa scelta formale è veicolata all’intenzione di innescare un superamento della dimensione spazio-temporale, per modificare lo stato di coscienza e spostarlo in una dimensione emotiva superiore. L’espediente è legato alla condizione di vita di molti immigrati. L’opera sonora è stata ideata da Gianpaolo Pedroni, prevedendo un audio indipendente sia per la storia principale, dove l’audio di un battito cardiaco regolare si espande in tutto lo spazio del sottotetto, sia per ognuno dei tre monitor che mostrano le storie da un’altra prospettiva. Tutti i suoni dei monitor, essendo pensati per mantenere anche una propria autonomia all’interno dell’installazione, cercano di creare un corpo vivente con lo spazio e sono percepibili simultaneamente nella fruizione estemporanea del luogo.
Oltre al battito cardiaco, inteso come motore propulsivo e bordone armonico, prendono corpo altri suoni-rumori, trattati elettronicamente e riconducibili alla storia raccontata da Minoglio: il respiro profondo o ansimante, i passi, l’attraversamento nel mare, il battere dei bastoni sul corpo nei pomodori.
L’asciugamento formale del racconto filmico lascia intuire il lungo esodo del protagonista: l’attraversamento del deserto, la navigazione su un barcone della speranza, la morte di un amico durante il viaggio, l’approdo, il lavoro nei campi in condizioni di schiavitù, la sparizione di un sans papier. È il racconto di un immigrato arrivato in Italia per cercare fortuna su un barcone di disperati e poi finito a raccogliere pomodori.
Quattro degli attori che compaiono nel video di Minoglio sono realmente dei rifugiati politici, che hanno vissuto sulla loro pelle alcune delle vicende rappresentate nel video.
Il luogo dove sono state girate le scene è ubicato a pochi metri da un campo dove, qualche anno fa, sono stati uccisi due immigrati dal precedente proprietario dei terreni.
Nei sistemi non totalitari
una frontiera non è una barriera: è un ostacolo
simbolico, un invito a passare nell’altro campo.
Marc Augé
1. Open.
La linea di frontiera tra un luogo e un altro è solo una convenzione. Forse è una proiezione immaginativa pure il confine tra l’identità e l’alterità. Nella duplice dicotomia “individuale/collettivo” e “medesimo/altro” potrebbe essere interessante innescare un ritorno a se stessi attraverso l’esperienza dell’altro. Anche per mezzo di domande che vengono rivolte a estranei, e di cui forse misuriamo meglio il senso e la portata di quando le rivolgiamo a noi stessi. Qui si tratta di mettere in atto un tentativo. Ovvero cercare, attraverso la compresenza dell’altro, di raggiungere tutti i livelli di identità, lottando contro l’impossibilità dell’incontro. L’apertura verso lo straniero, a dispetto di tutti i raccordi e gli snodi, rientra nel campo di un’etnologia della solitudine. Ma chi è veramente l’altro? Il tentativo della mostra “Open.Aperture” è legato alla comprensione di chi viene definito “non-persona” della globalizzazione: migranti, nomadi, profughi, ovvero coloro che minaccerebbero la convivenza del ricco Occidente, tollerati come ospiti lavoratori, prossimi all’espulsione. La questione è sottilmente complessa. Gli artisti qui indagano l’immagine di colui che per necessità fugge dalla sua terra per cercare una via salvifica in uno stato ricco. Chi fugge dalla propria terra desolata si affida all’illusione che viene mostrata dalle televisioni dei paesi occidentali, passa dalla previsione di trovare un futuro migliore, all’azzardo, per approdare alla consapevolezza che la realtà poi è molto diversa. Salto nell’imponderabile e nella precarietà, perché si crede sempre nella chance. Chi fugge da una situazione inumana tocca tutte le sfumature del fato e della libertà. Perché non si può non immaginare un futuro a misura d’uomo. Ora che in Occidente viviamo in una sorta di presente perpetuo, continuamente indotti a percepire i termini dello spazio, dei confini e delle proprietà, quale può essere la chiave dell’avvenire, sempre al confine tra identità e alterità, tra barriere e ostacoli simbolici? In un mondo sempre più ineguale, dove cresce sempre più la differenza tra poveri e ricchi, nell’espansione di ogni forma globalizzata, come si fa ad accettare quello che succede? “Open. Aperture” cerca di comprendere la complessa natura in divenire dei nuovi stati e delle nuove patrie, il modello di tutte le rappresentazioni identitarie dell’Occidente. Perché le dinamiche delle migrazioni costringono la società a ridefinirsi incessantemente. Si rifà a una tradizione antica di solidarietà che sia modello di appartenenza e ospitalità: alla tradizione ebraica, che proteggeva i perseguitati da una giustizia vendicativa; al cristianesimo di San Paolo; al modello delle città sovrane medievali o delle chiese che offrivano immunità; all’Illuminismo, che ha sperimentato l’idea di dare asilo e ospitalità a chi ne aveva bisogno, con la prospettiva di un diritto e di una democrazia da costruire. Riprendendo un pensiero di Derrida, i nostri artisti immaginano un altro diritto e un’altra politica della città: “l’ospitalità è la cultura stessa e non è un’etica fra le altre. Nella misura in cui tocca l’ethos, cioè la dimora, l’esser presso-di-sé, il luogo del soggiorno familiare quanto il modo di esserci, il modo di rapportarsi a sé e agli altri, agli altri come ai propri o agli estranei, l’etica è ospitalità, è da parte a parte coestensiva all’esperienza dell’ospitalità, in qualunque modo la si apra o la si limiti. Ma per questa stessa ragione, e perché l’esser-sé presso di sé (l’ipseità stessa) presuppone un’accoglienza o un’inclusione dell’altro nel tentativo di appropriarsene, di controllarlo, padroneggiarlo, secondo differenti modalità della violenza, c’è una storia dell’ospitalità, una perversione sempre possibile della Legge dell’ospitalità (che può sembrare incondizionata) e delle leggi che la limitano e la condizionano, iscrivendola in un diritto” (Jacques Derrida, Cosmopoliti di tutti i paesi, ancora uno sforzo, trad. it. di Bruno Moroncini, Napoli 1997, pp. 26-27). Una mostra quindi sull’apertura e sulla comprensione, per cercare di andare oltre il modello filosofico occidentale della complementarietà, che la storia ha rilevato come inadeguato per l’incontro tra le culture. Apertura come paradigma comunicativo con lo straniero, per uno scambio omeostatico tra l’altro e noi stessi. Uno sforzo per attuare un’ermeneutica xenologica, per un’effettiva comprensione dello straniero che potremmo diventare, in un’ottica del ribaltamento.
2. Aperture
L’absidiola sud-occidentale della Basilica di Santa Maria Maggiore fu murata nel 1586 per dare simmetria alle pareti del transetto, dopo che, nel 1470, furono demolite la sacrestia vecchia e l’absidiola nord-occidentale per edificare la Cappella Colleoni. Per raggiungere il matroneo, l’absidiola fu munita di due rampe di scale e di un pianerottolo, che rovinò la parte mediana degli affreschi trecenteschi. Il matroneo, non più fruibile dalla comunità, diventò un luogo di servizio, un magazzino. La Fondazione della Misericordia Maggiore di Bergamo ha deciso di ridare vita a questi suggestivi spazi. I matronei e il sottotetto del grande argano sono stati riaperti, così che migliaia di fruitori possano accedervi nei periodi in cui vengono organizzate mostre di arte contemporanea. Un luogo di arte antica che fa da contenitore di installazioni temporanee e viene fruito dalla comunità - ma soprattutto la suggestione di uno spazio utilizzato nel XII secolo, aperto e poi chiuso, e che adesso, nel XXI secolo, si apre di nuovo, con nuove prospettive - ha indotto Giovanni Bianchini a legare la sua installazione site specific, intitolata “Rotte”, al tema dell’apertura verso l’altro.
Il texture delle scatole aperte di grandi dimensioni - composto da innumerevoli frammenti di quotidiani stranieri incollati uno accanto all’altro, per creare raccordi di casualità e nuove relazioni di senso - è ottenuto con una modalità molto ripetitiva, come fosse lo sgranare di un rosario o di un mantra, un atto “rituale” per stare profondamente concentrato sul fare. Il lungo tempo e la pazienza che occorrono per realizzare ogni grande scatola aperta costituiscono l’anima non visibile dell’opera. L’artista non potrebbe lavorare senza questa prassi. Essere concentrato su un’operazione molto banale è un ingrediente fondamentale della sua ricerca. L’oggetto è sempre molto semplice. Preso dalla quotidianità e portato all’esagerazione in un contesto inusuale. Bianchini è convinto che basta poco per rendere qualcosa interessante. Il texture - costituito da frammenti di mappe, ideogrammi o da caratteri orientali (sono stati utilizzati caratteri cinesi, tailandesi, giapponesi, serbi, cirillici, arabi, per evocare culture diverse da quella occidentale) - dà un’aura particolare, trasformando l’oggetto comune in opera di segni combinatori. Bianchini chiede continuamente ai suoi amici viaggiatori di portargli quotidiani, cartine, mappe, che giungono da altre culture. Lavorare sui frammenti con linguaggi stranieri è una via per aprire di più il senso della scatola: è un assorbimento visuale e semantico di altri punti di vista e tradizioni. In un primo momento, queste opere sono state collocate sotto i portici del Palazzo della Ragione. Poi sono state smontate per farle viaggiare, rotte per altre rotte, entro un progetto di dinamismo, coinvolgendo più persone per portarle nello spazio del matroneo, passando dalle strette scale dell’absidiola sud-occidentale. Nel matroneo viene idealmente creato un rapporto tra la grande scatola aperta, qui intesa come una soglia da attraversare con la coscienza, e il grande affresco trecentesco raffigurante Sant’Alessandro, come fosse un labirinto in cui gli spettatori entrano in altre dimensioni della visione. I fruitori scorrono entro l’apertura dell’installazione, tra le infinite lettere e ideogrammi di tutti i linguaggi presenti sulle pareti della scatola, i quali rimangono indecifrabili segni di una relazione che potrebbe avvenire, tramite un avvicinamento culturale, oppure creare distanza e incomprensione.
In relazione alle “Rotte”, Gianpaolo Pedroni ha realizzato un’opera sonora che riprende l’idea della “musica instrumentalis”. I suoni – che hanno una provenienza naturale, dagli oggetti e dal lavoro umano, come nella migliore tradizione della musica concreta - si stagliano nello spazio per colmare il silenzio interiore, rapportandosi al concetto dell’apertura all’altro da sé.
Riprende il concetto platonico dell’Harmonia Mundi, mediazione tra spirito umano e materia, innescando un viaggio ideale tra musica di stampo umanistico e rumori della quotidianità contemporanea, in una sottile apertura a significati ermetici fortemente legati alla semplicità del reale.
Tra le scatole aperte di Bianchini e i video di Andrea Minoglio, nell’angusto passaggio che porta al sottotetto del grande argano, Pedroni ha ideato un evento sonoro diatonico, intendendolo come percorso che evochi l’ascensione dello spirito umano verso nuove aperture, forse di natura divina: è una scala ascendente, completamente costruita elettronicamente con una aggiunta vocale, che riprende la tipica funzione nel repertorio della musica sacra e barocca, oltre a sottolineare il passaggio a uno spazio e a una situazione densi di drammaticità (il sacrificio e la tragedia dell' immigrazione).
La video-installazione di Minoglio (“La vera storia di un povero cristo”) mostra un’azione da più punti di vista. Svolge il racconto e gli eventi in sequenza cinetica, tracciando una parentela iconografica con molte opere di Lorenzo Lotto, dove più scene in diversi momenti temporali coesistono in un unico spazio. La scelta formale della sincronicità è sia un omaggio allo stile di un grande artista del passato sia una maniera di “trasformare” una struttura diacronica come quella del video, che è basata sullo scorrere nel tempo e sulla sua manipolazione attraverso il montaggio.
Nel sottotetto di Santa Maria Maggiore sono stati collocati quattro monitor: uno con tre momenti della storia montati assieme, e tre laterali, con le singole scene mostrate da altri punti di vista, con diverse prospettive. Il senso di circolarità degli eventi è ulteriormente enfatizzato dal montaggio in loop e dalla presenza della grande ruota lignea (argano) accanto ai monitor. Le varie angolature della visione e della percezione dicono la stessa cosa in modi diversi. I fruitori che entrano nello spazio oscurato del sottotetto percepiscono un insieme complesso: un affresco visto da lontano, se ci si limita a entrare nella stanza e a percepire suoni e immagini mischiati insieme; un affresco visto da vicino, se ci si avvicina a guardare le singole scene riprodotte ciclicamente sui vari monitor; un affresco che racconta una storia, se si seguono i vari momenti, dall’inizio fino alla fine.
La storia è esemplare, ridotta all’essenziale. Ha una declinazione laica, ma trattata come fosse influenzata dalle rappresentazioni pittoriche religiose. Sembra una messa in visione del martirio di un santo, secondo uno svolgimento vicino alle sacre rappresentazioni del Medioevo o del Rinascimento, seguendo il canovaccio di una “Legenda aurea” dei nostri tempi. La fotografia ricorda l’atmosfera coloristica dei quadri di Piero della Francesca. Il ritmo è come un respiro che segna il dipanarsi degli eventi, tra calma rassegnazione, l’apice violento del dramma, e un ritorno al silenzio nell’epilogo. Il significato di queste strutture ritmiche mandate in loop evoca idealmente determinati repertori della musica sacra occidentale (l’uso della monodia e la ripetitività del canto gregoriano) e le danze rituali nella cultura africana, la taranta del Sud-Italia, e la danza dei dervisci. Questa scelta formale è veicolata all’intenzione di innescare un superamento della dimensione spazio-temporale, per modificare lo stato di coscienza e spostarlo in una dimensione emotiva superiore. L’espediente è legato alla condizione di vita di molti immigrati. L’opera sonora è stata ideata da Gianpaolo Pedroni, prevedendo un audio indipendente sia per la storia principale, dove l’audio di un battito cardiaco regolare si espande in tutto lo spazio del sottotetto, sia per ognuno dei tre monitor che mostrano le storie da un’altra prospettiva. Tutti i suoni dei monitor, essendo pensati per mantenere anche una propria autonomia all’interno dell’installazione, cercano di creare un corpo vivente con lo spazio e sono percepibili simultaneamente nella fruizione estemporanea del luogo.
Oltre al battito cardiaco, inteso come motore propulsivo e bordone armonico, prendono corpo altri suoni-rumori, trattati elettronicamente e riconducibili alla storia raccontata da Minoglio: il respiro profondo o ansimante, i passi, l’attraversamento nel mare, il battere dei bastoni sul corpo nei pomodori.
L’asciugamento formale del racconto filmico lascia intuire il lungo esodo del protagonista: l’attraversamento del deserto, la navigazione su un barcone della speranza, la morte di un amico durante il viaggio, l’approdo, il lavoro nei campi in condizioni di schiavitù, la sparizione di un sans papier. È il racconto di un immigrato arrivato in Italia per cercare fortuna su un barcone di disperati e poi finito a raccogliere pomodori.
Quattro degli attori che compaiono nel video di Minoglio sono realmente dei rifugiati politici, che hanno vissuto sulla loro pelle alcune delle vicende rappresentate nel video.
Il luogo dove sono state girate le scene è ubicato a pochi metri da un campo dove, qualche anno fa, sono stati uccisi due immigrati dal precedente proprietario dei terreni.
09
ottobre 2010
Bianchini | Minoglio | Pedroni – Open.Aperture
Dal 09 ottobre al 09 novembre 2010
arte contemporanea
Location
BASILICA SANTA MARIA MAGGIORE
Bergamo, Piazza Duomo, (Bergamo)
Bergamo, Piazza Duomo, (Bergamo)
Biglietti
ore 16
Orario di apertura
Tutti i giorni dalle 15 alle 18
Editore
LUBRINA
Autore
Curatore