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BOTANICA
Partendo dalla Ninfee e passando per le Carte da parati, a soggetto sempre vegetale, vengono presentati, qui e per la prima volta, gli Alberi sia isolati e monumentali in ieratico formato verticale, sia quelli intrecciati in inediti intrichi che tanto paiono rimandare alle relazioni umane.
Comunicato stampa
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Annamaria Targher
Botanica
museo Radici di Lavarone, fraz. Cappella (TN)
dal 21 dicembre al 06 gennaio
inaugurazione, sabato 21 dicembre, ore 18.00
tutti i giorni: dalle 16.30 alle 19.00
ingresso libero
a cura di Anna Rivoli
testi in catalogo di Anna Rivoli e Maria Teresa Lezzi
Si inaugura sabato 21 dicembre al primo piano del museo Radici di Lavarone l’attesa personale di Annamaria Targher concepita come un site specific in stretta relazione tematica col luogo che la ospita.
Partendo dalla serie delle Ninfee e passando per la produzione decorativa delle Carte da parati, sempre a soggetto vegetale, vengono presentati, qui e per la prima volta, gli Alberi sia isolati e monumentali in ieratico formato verticale, sia quelli intrecciati in inediti intrichi che tanto paiono rimandare, per assonanza, alle relazioni umane.
Con questa anelata esposizione si compie la naturale sovrapposizione delle due grandi passioni mai sopite e che hanno determinato le linee guida sia dell’esistenza che della realtà lavorativa dell’artista: l’arte figurativa e la natura, specie quella muta, ma autorevole delle piante tanto amate e imitate nella sua produzione.
A corredo, il testo attento e articolato della curatrice Anna Rivoli che traccia un percorso certo tra il crescere delle opere e l’avanzare del tragitto analitico e la puntuale ricognizione iconologica della storica dell’arte Maria Teresa Lezzi, una delle maggiori e autorevoli esperte dell’Albero della vita, simbolo vegetale e trasversale a tutte le civiltà.
Annamaria Targher è nata a Trento nel ’74. Si è diplomata con lode in Pittura all’Accademia di Belle Arti e si è laureata col massimo del punteggio in Scienze dei Beni Culturali con una tesi in Botanica Generale, relatore prof. Patrizio Giulini.
Vive tra San Sebastiano di Folgaria e Vicenza.
www.annamariatargher.it
BOTANICA.
INTRODUZIONE.
Sin dall’infanzia, sono due i temi cari all’artista e, sostanzialmente, irrinunciabili: la natura e l’arte visiva. Se seguire la seconda ha costretto, per il periodo di formazione, all’abdicazione della prima, vi è negli ultimi anni, specie col ritorno a casa, l’anelito alla loro congiunzione o buona convivenza.
La natura vegetale entra per la prima volta nella variegata produzione di Annamaria Targher, una quindicina di anni fa, con il ciclo monumentale ed insistito delle Ninfee. Tele enormi, sempre orizzontali e dal fondale abissale, ospitano degli elementi pentalobati, non invischiati quanto, piuttosto, sollevati e ariosi. Per opposizione, il fiore nato dal limo, si libra nell’aria, dando vita ad accostamenti coloristici gai, ma anche ardui stemperando, così, la decorativa struttura circonvoluta del fiore che, ripetendosi fino allo sfinimento, andrebbe, altrimenti ed esprimendosi solamente ripiegato su sé medesimo, ad appesantirsi.
Successivamente, il collage, di norma relegato ad avvalorare i puntuali disegni su carta, entra prepotentemente nelle tele, instaurando un vero e proprio testa a testa con il segno pittorico, in un agone, quasi paradossale, che aspira al mimetismo, alla stessa conformazione. Le Carte da parati, infatti, rinunciano ad ogni intento conoscitivo ed esplorativo per concentrarsi su un’amena messa in scena del bello, senza pretese che non siano quelle di un discernimento circa la eventuale supremazia di una tecnica sull’altra: il carattere della pittura versus la discrezione e l’innocenza di elementi di scarto desunti dalle riviste altrimenti buttate. Sono opere sofisticate, di netta abdicazione rispetto al credo della pittura come esito sismografico del temperamento dell’autrice. Un passo all’indietro, ma non una rinuncia: piuttosto una resa ad un dato di fatto incontrovertibile che insegna il post moderno. Un ritaglio di giornale, accortamente accostato, languidamente adagiato suscita più valore di una pennellata ben assestata. Di un colpo ben dato.
Forse, la produzione più raffinata e criptica dell’artista che non la lascia mai, però, se è vero che è ricomparsa recentemente sino a costituirsi, sembrerebbe, come un filone essenzialmente alternativo, riparativo, non pretenzioso. Nato da un forte e apparentemente irrisolvibile lutto, si è affidata alla progressione calma e autonoma di un’applicazione parca, naturale, non forzata e in cui il tempo di realizzazione, non è più frenetico, bensì contemplativo.
ALBERI
E’ passato più di un quarto di secolo da quando la grafologa Evi Crotti invitò l’artista a rappresentarsi in un albero senza che quest’ultima sapesse, se non a fatto compiuto, che avrebbe proceduto in una direzione autobiografica ed esistenziale.
Si ritrovarono, già allora, di fronte ad un tronco smilzo, ma regale e ad una chioma davvero portentosa per infiorescenza e ricchezza fruttuosa. Le radici, così supposte care e linearmente prossime alla metafora, rinsecchite se non, addirittura, inesistenti.
L’artista ha realizzato il suo primo grande albero ad olio al suo ingresso nell’Alpine Studio a San Sebastiano di Folgaria, nell’ormai 2017, ma come un fatto isolato, quasi accidentale, se si eccettua l’unica pretesa di omaggiare le betulle klimtiane. Nell’autunno del 2023, però, sorge una esigenza sincera ed inequivocabile, di altro sentore: quella di rappresentarsi per il tramite dello statuto arboreo e naturale, replicandone le sezioni, la struttura, anche se l’esito non potrà che appoggiarsi ad un linguaggio già coniato dalla storia dell’arte e codificato dall’uomo.
Ci sarà, allora, l’Albero della cuccagna festoso e grondante leccornie e delizie. Solitario, estatico e altero come una icona nella sua matrice cromatica aurea, ma anche tonale e sostanzialmente ridotta all’osso. E’ un obelisco a cui accorrere, passibile di essere integrato con ogni virtù, composto, addobbato, soggettivabile e straripante in una prospettiva che non può contemplare assolutamente soluzione di continuità: al proprio fianco, a livello di significazione, ci potrebbe stare anche l’albero della vita che dà accesso, sì, alla conoscenza, ma vincolata, però e sempre, ad una prospettiva di opportunità conseguente ad una scelta.
Dall’albero singolo, su superficie rigorosamente verticale, si passerà, in un secondo tempo, ad un intrico di rami provenienti da più fusti e sovrapposti, in cui il tentativo di dipanare la diversa appartenenza ed entità sembrerà operazione perniciosa, quando non vana. Lo scopo e la finalità investigativa, inoltre, sono totalmente mutati e si registra ora una natura briosa, anche se incontrollata, incontenibile, inselvatichita, difficile da dipanare, come lo sono, parimenti, le relazioni umane. Ingarbugliate, di difficile lettura, inagguantabili, anche se, talvolta, gravose.
C’è anche un cielo fragoroso, livido, scuro in cui spaziano, come serpenti tortuosi, rami della tonalità raffinata degli ftalati: ove il blu si unisce al verde in un esito spettacolare e indecifrabile come in un sublime paesaggio notturno che ha dell’estatico e nient’affatto dell’angoscioso.
Sono, al contempo, gli sballati cieli vangoghiani: quelli dettati dall’incomprensione. Luminescenti, contrastati fino all’accesso e le delizie che cadono dai rami, più che naturali, sembrano preziosi dell’uomo; e, poi, c’è la linea bizzarra, giapponese che già correva nel capolavoro Ramo di mandorlo in fiore a testimoniare la vitalità, ma anche la forte convulsione del suo autore e della sua emulatrice, in seconda istanza e battuta.
IL CASO SALICE PIANGENTE. Omaggio a Séraphine de Senlis.
Un albero disgregato con fronde pendenti verso i lati, a struttura triangolare o a capanna è costituito da un segno forte, convulso.
Si staglia su uno sfondo altamente simbolico, ridotto a campiture piatte, come se fosse una sublimazione di un paesaggio o semplicemente un paesaggio interiore, in cui il verde smeraldo sbiancato, sovrastante, freddo, la fa’ da padrone, quasi inducendo, per inerzia, la caduta, il ripiegamento su sé stessi dei rami addobbati.
Le intersezioni tra le frasche, così createsi, diventano, però, la vera sostanza elettiva dell’artista: della trasposizione di sé stessa nell’opera per il tramite dell’assonanza essere umano – albero. Compaiono dei grafemi, vagamente vegetali realizzati a pastello grasso e tanto collage che tempesta, alla pari di diademi, gli spazi vuoti, sostantivando o sostituendosi alle altrimenti sommarie, troppo potenti pennellate e consegnando il lavoro ad un contesto certamente estatico, quando non spiccatamente decorativo.
La furia del riempimento, l’affastellamento quasi coatto, riporta con forza all’esperienza detonante della pittrice francese de Senlis in bilico tra espressionismo, sguardo disincantato, sublime processo artigianale in cui la mescola degli ingredienti, mai nota e codificata definitivamente, si avvaleva di strani intrugli. Le foglie di Séraphine, sono anche e certamente occhi attenti, e rimandano ad un filone precedente e alle opere del simbolista Redon in cui piccoli elementi vegetali possono essere sorprendenti dettagli anatomici: le foglie, in special modo, sono occhi curiosi, indagatori, frenetici e anche un po’ inquietanti. Una finestra sul mondo, ma anche sul sé psichico. Séraphine costruisce a cascata le proprie creature vegetali, riempie il supporto, dissipa la forma canonica per tramutarla in eccedenti e pervasivi tappeti.
Il tronco scompare o non c’è mai stato. Il famoso tronco che per l’albero di Koch rappresenterebbe il carattere. Tutto è una proliferazione incontrollata, festosa, ma anche inquietante. Per Annamaria Targher si risolve in uno sparuto sentore, un abbozzo di memoria per il tramite del solo collage e di un colore cyan propulsivo e quasi accidentale: sicuramente, disarmonico e urticante, rispetto alla calda distesa di foglie e fronde, e sostenuto da un dripping ascensionale. La terra non conta più: si limita ad essere stata l’impulso generativo, mentre lo scenario risulta essere algido e potentemente stralunato.
Botanica
museo Radici di Lavarone, fraz. Cappella (TN)
dal 21 dicembre al 06 gennaio
inaugurazione, sabato 21 dicembre, ore 18.00
tutti i giorni: dalle 16.30 alle 19.00
ingresso libero
a cura di Anna Rivoli
testi in catalogo di Anna Rivoli e Maria Teresa Lezzi
Si inaugura sabato 21 dicembre al primo piano del museo Radici di Lavarone l’attesa personale di Annamaria Targher concepita come un site specific in stretta relazione tematica col luogo che la ospita.
Partendo dalla serie delle Ninfee e passando per la produzione decorativa delle Carte da parati, sempre a soggetto vegetale, vengono presentati, qui e per la prima volta, gli Alberi sia isolati e monumentali in ieratico formato verticale, sia quelli intrecciati in inediti intrichi che tanto paiono rimandare, per assonanza, alle relazioni umane.
Con questa anelata esposizione si compie la naturale sovrapposizione delle due grandi passioni mai sopite e che hanno determinato le linee guida sia dell’esistenza che della realtà lavorativa dell’artista: l’arte figurativa e la natura, specie quella muta, ma autorevole delle piante tanto amate e imitate nella sua produzione.
A corredo, il testo attento e articolato della curatrice Anna Rivoli che traccia un percorso certo tra il crescere delle opere e l’avanzare del tragitto analitico e la puntuale ricognizione iconologica della storica dell’arte Maria Teresa Lezzi, una delle maggiori e autorevoli esperte dell’Albero della vita, simbolo vegetale e trasversale a tutte le civiltà.
Annamaria Targher è nata a Trento nel ’74. Si è diplomata con lode in Pittura all’Accademia di Belle Arti e si è laureata col massimo del punteggio in Scienze dei Beni Culturali con una tesi in Botanica Generale, relatore prof. Patrizio Giulini.
Vive tra San Sebastiano di Folgaria e Vicenza.
www.annamariatargher.it
BOTANICA.
INTRODUZIONE.
Sin dall’infanzia, sono due i temi cari all’artista e, sostanzialmente, irrinunciabili: la natura e l’arte visiva. Se seguire la seconda ha costretto, per il periodo di formazione, all’abdicazione della prima, vi è negli ultimi anni, specie col ritorno a casa, l’anelito alla loro congiunzione o buona convivenza.
La natura vegetale entra per la prima volta nella variegata produzione di Annamaria Targher, una quindicina di anni fa, con il ciclo monumentale ed insistito delle Ninfee. Tele enormi, sempre orizzontali e dal fondale abissale, ospitano degli elementi pentalobati, non invischiati quanto, piuttosto, sollevati e ariosi. Per opposizione, il fiore nato dal limo, si libra nell’aria, dando vita ad accostamenti coloristici gai, ma anche ardui stemperando, così, la decorativa struttura circonvoluta del fiore che, ripetendosi fino allo sfinimento, andrebbe, altrimenti ed esprimendosi solamente ripiegato su sé medesimo, ad appesantirsi.
Successivamente, il collage, di norma relegato ad avvalorare i puntuali disegni su carta, entra prepotentemente nelle tele, instaurando un vero e proprio testa a testa con il segno pittorico, in un agone, quasi paradossale, che aspira al mimetismo, alla stessa conformazione. Le Carte da parati, infatti, rinunciano ad ogni intento conoscitivo ed esplorativo per concentrarsi su un’amena messa in scena del bello, senza pretese che non siano quelle di un discernimento circa la eventuale supremazia di una tecnica sull’altra: il carattere della pittura versus la discrezione e l’innocenza di elementi di scarto desunti dalle riviste altrimenti buttate. Sono opere sofisticate, di netta abdicazione rispetto al credo della pittura come esito sismografico del temperamento dell’autrice. Un passo all’indietro, ma non una rinuncia: piuttosto una resa ad un dato di fatto incontrovertibile che insegna il post moderno. Un ritaglio di giornale, accortamente accostato, languidamente adagiato suscita più valore di una pennellata ben assestata. Di un colpo ben dato.
Forse, la produzione più raffinata e criptica dell’artista che non la lascia mai, però, se è vero che è ricomparsa recentemente sino a costituirsi, sembrerebbe, come un filone essenzialmente alternativo, riparativo, non pretenzioso. Nato da un forte e apparentemente irrisolvibile lutto, si è affidata alla progressione calma e autonoma di un’applicazione parca, naturale, non forzata e in cui il tempo di realizzazione, non è più frenetico, bensì contemplativo.
ALBERI
E’ passato più di un quarto di secolo da quando la grafologa Evi Crotti invitò l’artista a rappresentarsi in un albero senza che quest’ultima sapesse, se non a fatto compiuto, che avrebbe proceduto in una direzione autobiografica ed esistenziale.
Si ritrovarono, già allora, di fronte ad un tronco smilzo, ma regale e ad una chioma davvero portentosa per infiorescenza e ricchezza fruttuosa. Le radici, così supposte care e linearmente prossime alla metafora, rinsecchite se non, addirittura, inesistenti.
L’artista ha realizzato il suo primo grande albero ad olio al suo ingresso nell’Alpine Studio a San Sebastiano di Folgaria, nell’ormai 2017, ma come un fatto isolato, quasi accidentale, se si eccettua l’unica pretesa di omaggiare le betulle klimtiane. Nell’autunno del 2023, però, sorge una esigenza sincera ed inequivocabile, di altro sentore: quella di rappresentarsi per il tramite dello statuto arboreo e naturale, replicandone le sezioni, la struttura, anche se l’esito non potrà che appoggiarsi ad un linguaggio già coniato dalla storia dell’arte e codificato dall’uomo.
Ci sarà, allora, l’Albero della cuccagna festoso e grondante leccornie e delizie. Solitario, estatico e altero come una icona nella sua matrice cromatica aurea, ma anche tonale e sostanzialmente ridotta all’osso. E’ un obelisco a cui accorrere, passibile di essere integrato con ogni virtù, composto, addobbato, soggettivabile e straripante in una prospettiva che non può contemplare assolutamente soluzione di continuità: al proprio fianco, a livello di significazione, ci potrebbe stare anche l’albero della vita che dà accesso, sì, alla conoscenza, ma vincolata, però e sempre, ad una prospettiva di opportunità conseguente ad una scelta.
Dall’albero singolo, su superficie rigorosamente verticale, si passerà, in un secondo tempo, ad un intrico di rami provenienti da più fusti e sovrapposti, in cui il tentativo di dipanare la diversa appartenenza ed entità sembrerà operazione perniciosa, quando non vana. Lo scopo e la finalità investigativa, inoltre, sono totalmente mutati e si registra ora una natura briosa, anche se incontrollata, incontenibile, inselvatichita, difficile da dipanare, come lo sono, parimenti, le relazioni umane. Ingarbugliate, di difficile lettura, inagguantabili, anche se, talvolta, gravose.
C’è anche un cielo fragoroso, livido, scuro in cui spaziano, come serpenti tortuosi, rami della tonalità raffinata degli ftalati: ove il blu si unisce al verde in un esito spettacolare e indecifrabile come in un sublime paesaggio notturno che ha dell’estatico e nient’affatto dell’angoscioso.
Sono, al contempo, gli sballati cieli vangoghiani: quelli dettati dall’incomprensione. Luminescenti, contrastati fino all’accesso e le delizie che cadono dai rami, più che naturali, sembrano preziosi dell’uomo; e, poi, c’è la linea bizzarra, giapponese che già correva nel capolavoro Ramo di mandorlo in fiore a testimoniare la vitalità, ma anche la forte convulsione del suo autore e della sua emulatrice, in seconda istanza e battuta.
IL CASO SALICE PIANGENTE. Omaggio a Séraphine de Senlis.
Un albero disgregato con fronde pendenti verso i lati, a struttura triangolare o a capanna è costituito da un segno forte, convulso.
Si staglia su uno sfondo altamente simbolico, ridotto a campiture piatte, come se fosse una sublimazione di un paesaggio o semplicemente un paesaggio interiore, in cui il verde smeraldo sbiancato, sovrastante, freddo, la fa’ da padrone, quasi inducendo, per inerzia, la caduta, il ripiegamento su sé stessi dei rami addobbati.
Le intersezioni tra le frasche, così createsi, diventano, però, la vera sostanza elettiva dell’artista: della trasposizione di sé stessa nell’opera per il tramite dell’assonanza essere umano – albero. Compaiono dei grafemi, vagamente vegetali realizzati a pastello grasso e tanto collage che tempesta, alla pari di diademi, gli spazi vuoti, sostantivando o sostituendosi alle altrimenti sommarie, troppo potenti pennellate e consegnando il lavoro ad un contesto certamente estatico, quando non spiccatamente decorativo.
La furia del riempimento, l’affastellamento quasi coatto, riporta con forza all’esperienza detonante della pittrice francese de Senlis in bilico tra espressionismo, sguardo disincantato, sublime processo artigianale in cui la mescola degli ingredienti, mai nota e codificata definitivamente, si avvaleva di strani intrugli. Le foglie di Séraphine, sono anche e certamente occhi attenti, e rimandano ad un filone precedente e alle opere del simbolista Redon in cui piccoli elementi vegetali possono essere sorprendenti dettagli anatomici: le foglie, in special modo, sono occhi curiosi, indagatori, frenetici e anche un po’ inquietanti. Una finestra sul mondo, ma anche sul sé psichico. Séraphine costruisce a cascata le proprie creature vegetali, riempie il supporto, dissipa la forma canonica per tramutarla in eccedenti e pervasivi tappeti.
Il tronco scompare o non c’è mai stato. Il famoso tronco che per l’albero di Koch rappresenterebbe il carattere. Tutto è una proliferazione incontrollata, festosa, ma anche inquietante. Per Annamaria Targher si risolve in uno sparuto sentore, un abbozzo di memoria per il tramite del solo collage e di un colore cyan propulsivo e quasi accidentale: sicuramente, disarmonico e urticante, rispetto alla calda distesa di foglie e fronde, e sostenuto da un dripping ascensionale. La terra non conta più: si limita ad essere stata l’impulso generativo, mentre lo scenario risulta essere algido e potentemente stralunato.
21
dicembre 2024
BOTANICA
Dal 21 dicembre 2024 al 06 gennaio 2025
arte contemporanea
Location
Museo Radici
Gionghi-cappella, Via Guglielmo Marconi, (TN)
Gionghi-cappella, Via Guglielmo Marconi, (TN)
Orario di apertura
Tutti i giorni: 16.30 - 19.00
Vernissage
21 Dicembre 2024, ore 18.00
Sito web
Autore
Curatore
Autore testo critico
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