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Bouke De Vries – Sometimes I look east, sometimes I look west
La pratica dell’artista olandese, di stanza a Londra, Bouke de Vries riflette perfettamente il nostro tempo, nutrendosi del paradosso contemporaneo della bellezza: una ricerca spasmodica di unicità e perfezione avviluppata alla banalizzazione estetica del consumismo.
Comunicato stampa
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La pratica dell’artista olandese, di stanza a Londra, Bouke de Vries riflette perfettamente il nostro tempo, nutrendosi del paradosso contemporaneo della bellezza: una ricerca spasmodica di unicità e perfezione avviluppata alla banalizzazione estetica del consumismo. Tale visione nasce dalla sua esperienza come restauratore di ceramiche. De Vries punta il suo sguardo artistico sul modello culturale occidentale secondo cui la rottura di un oggetto ne comporta automaticamente il suo scarto. Anche chi si occupa di preservare le opere d’arte sceglie spesso di cancellare il più possibile la memoria del trauma subito. Egli invece si sente più vicino alla sensibilità della tradizione cinese e giapponese di riparare importanti artefatti in modo che la rottura sia celebrata, piuttosto che nascosta. “Un oggetto danneggiato può ancora essere bello così come un oggetto perfetto” ragiona de Vries.
Un gioco di opposti che si rincorrono come nel titolo della personale milanese dell’artista “Sometimes I look east and sometimes I look west”. Silenziose, meditative ma al contempo ingegnose e sovversive, le sculture di de Vries offrono una seconda opportunità narrativa a manufatti dalla fattura squisita, come un vaso cinese a bozzolo in terracotta di epoca Han (206 a.C.–220 d.C.), che per un urto si è mutato in pochi istanti da feticcio a coccio. De Vries decostruisce nello spazio questi antichi frammenti, dando loro una nuova simbologia. Lo sciame di farfalle che circonda il vaso nell’opera “Resurrectio Jar”, da un lato allude alla forma a bozzolo del vaso, dall’altro al loro uso iconografico come simbolo di resurrezione nelle famose nature morte del Secolo d'Oro olandese.
In questa mostra Cina ed Olanda sono i poli estremi della sua narrazione. La prima è letta come forza trainante della manifattura della ceramica, la seconda, oltre che la sua patria, è la nazione che ha raggiunto la potenza mondiale nel XVII secolo, grazie proprio agli scambi commerciali con l’Oriente in preziose porcellane ma anche in maioliche di Delft, che, a loro volta, erano spesso ispirate da originali cinesi.
L’interesse di de Vries tuttavia non si esaurisce esclusivamente in una riflessione sulla genesi di manufatti in ceramica, sulle loro forme, i loro usi e simbologie. La sua curiosità intellettuale abbraccia approfondimenti storici e sociologici del contesto in cui - ieri come oggi - questi vengono realizzati o scambiati.
Seguendo tale prospettiva la rinascita della Cina a superpotenza globale diviene uno dei temi più affascinanti e urgenti. De Vries sembra voler ricordare il monito di Napoleone Bonaparte: “Lasciate dormire la Cina, perché al suo risveglio il mondo tremerà”. Nella produzione dell’artista ritorna costantemente la lezione dei maestri fiamminghi de Heem, Kalf, van Alst e van Huysum nei cui dipinti il vasellame di uso comune - come lattiere, teiere, o scolapiatti - è intriso di riferimenti alla vanitas e al memento mori. Frutti, fiori e i piccoli insetti che li accompagnano erano, infatti, funzionali a tracciare velati riferimenti etici e spirituali.
Così, tra parallelismi e asimmetrie, rebus estetici trovano in de Vries soluzioni inaspettate. Come accade in “Two Tang soldiers” opera composta da una coppia di soldati in terracotta della dinastia Tang (618-907). Uno presenta il tipico colore terroso e l’aspetto al momento del suo ritrovamento archeologico, mentre l’altro è dipinto dall’artista con accesi colori primari. Sebbene lo spettatore moderno sia abituato ad ammirare oggetti antichi, come i marmi greci per esempio, apprezzandone il candore e la semplice purezza, in realtà queste opere erano spesso originariamente dipinte con colori sgargianti. La stessa cosa accade quando si ammirano le sfumature fangose di questi manufatti in terracotta provenienti dalla Cina. Appaiando le due figure di soldati si riflette sulla percezione estetica odierna di queste opere in relazione al momento della loro creazione. De Vries sembra non prendere una posizione sottolineando invece come la storia del gusto proceda dialogando ininterrottamente con la storia dell’arte e che un’estetica apparentemente kitsch possa essere rivelatrice di una profonda verità nascosta.
Se i lavori de Vries si presentano sotto forma di esplosioni, bruciature, destrutturazioni o al contrario sono ricomposti utilizzando la tecnica kintsugi - la pratica giapponese di usare l’oro per saldare i frammenti di oggetti in ceramica - la qualità di esecuzione è ciò che contraddistingue ognuna di queste lavorazioni. “C’è stato un tempo - dice de Vries - in cui la qualità non era considerata parte integrante di un’opera d’arte contemporanea: era l’idea il parametro essenziale per il suo successo. Ma ora penso ci sia un ritorno a una visione dell'artista come di un produttore, come qualcuno che possieda una particolare abilità creativa che gli permette di dar vita ad opere sublimi”. Questo non vuole dire rigettare la lezione del contemporaneo che, al contrario, nella sua opera viene esaltata attraverso innumerevoli citazione dadaiste, surrealiste e pop. In un remix estetico in cui ispirazioni tratte dal mondo della cultura alta si scontrano con quelle della cultura bassa, si passa da un riferimento alla regina egizia Nefertiti (“Egypt”, 2013) fino ad arrivare a I Simpson (“Marge Simpson as Guan Yin Goddess of Compassion”, 2014).
Ogni scultura di de Vries pur entrando in relazione e dialogando con ogni altro suo lavoro rimane essenzialmente un pezzo unico. Proprio per questo l’artista non si avvale di uno studio ma crea da sé ogni singola opera lavorando sulla composizione, cercando di raggiungere un equilibrio formale ed estetico. In questo senso è rilevante il lavoro di maggior dimensione in mostra “The Wall 2”. Un'installazione di maioliche bianche di Delft ispirata alle composizioni di porcellane dell’architetto francese, ma naturalizzato olandese, Daniel Marot, che con i suoi elaborati progetti per interni ha contribuito a definire lo stile decorativo in Europa tra il tardo XVII e il primo XVIII secolo.
E’ particolarmente degno di nota che Marot abbia reso uno status symbol gli intricati display di collezioni di porcellane cinesi bianche e blu. Già nel 2012 de Vries era stato chiamato a realizzare un’opera monumentale inspirata a Marot dal museo inglese Pallant House Gallery a Chichester, che gli commissionò la creazione di un’installazione site specific per lo scalone d’onore del museo. L’installazione temporanea “Bow Selector” composta di quattro pannelli consecutivi esponeva in maniera assolutamente unica la preziosa collezione di quasi trecento pezzi di Porcellana di Bow (attiva a Londra tra il 1747 e il 1764) di proprietà di Pallant House. Di contrasto De Vries sceglie volutamente per “The Wall 2” solo frammenti di maioliche bianche di Delft, salvati da antichi cumuli e fondi di canali. Questi oggetti non erano celebrativi ma riservati all’uso quotidiano, è l’artista che ora conferisce loro un nuovo status culturale.
In questo e in altri lavori in mostra i resti archeologici sono il punto di partenza per una nuova narrativa. Forse un giorno anche loro spariranno nella terra e forse saranno ritrovati in un futuro inimmaginabile. Che storie allora rievocheranno?
BOUKE DE VRIES
Nato nel 1960 a Utrecht, Olanda.
Bouke de Vries ha studiato alla Design Academy di Eindhoven e in seguito alla Central St. Martin's di Londra. Dopo aver lavorato con John Galliano, Stephen Jones e Zandra Rhodes, ha deciso di cambiare carriera iniziando un percorso di studi in conservazione e restauro della ceramica presso il West Dean College.
Nella sua pratica quotidiana di restauratore si trova ad affrontare questioni e contraddizioni riguardo i concetti di perfezione e valore. Le opere più contemplative di De Vries ricalcano le nature morte olandesi del XVII e XVIII secolo; in particolare i soggetti floreali del Secolo d'oro - intrisi di decadenza - tipici della sua città natale, Utretch (de Heem, van Alst, van Huysum inter alia). Incorporando elementi contemporanei, un nuovo vocabolario simbolico si sviluppa.
Un gioco di opposti che si rincorrono come nel titolo della personale milanese dell’artista “Sometimes I look east and sometimes I look west”. Silenziose, meditative ma al contempo ingegnose e sovversive, le sculture di de Vries offrono una seconda opportunità narrativa a manufatti dalla fattura squisita, come un vaso cinese a bozzolo in terracotta di epoca Han (206 a.C.–220 d.C.), che per un urto si è mutato in pochi istanti da feticcio a coccio. De Vries decostruisce nello spazio questi antichi frammenti, dando loro una nuova simbologia. Lo sciame di farfalle che circonda il vaso nell’opera “Resurrectio Jar”, da un lato allude alla forma a bozzolo del vaso, dall’altro al loro uso iconografico come simbolo di resurrezione nelle famose nature morte del Secolo d'Oro olandese.
In questa mostra Cina ed Olanda sono i poli estremi della sua narrazione. La prima è letta come forza trainante della manifattura della ceramica, la seconda, oltre che la sua patria, è la nazione che ha raggiunto la potenza mondiale nel XVII secolo, grazie proprio agli scambi commerciali con l’Oriente in preziose porcellane ma anche in maioliche di Delft, che, a loro volta, erano spesso ispirate da originali cinesi.
L’interesse di de Vries tuttavia non si esaurisce esclusivamente in una riflessione sulla genesi di manufatti in ceramica, sulle loro forme, i loro usi e simbologie. La sua curiosità intellettuale abbraccia approfondimenti storici e sociologici del contesto in cui - ieri come oggi - questi vengono realizzati o scambiati.
Seguendo tale prospettiva la rinascita della Cina a superpotenza globale diviene uno dei temi più affascinanti e urgenti. De Vries sembra voler ricordare il monito di Napoleone Bonaparte: “Lasciate dormire la Cina, perché al suo risveglio il mondo tremerà”. Nella produzione dell’artista ritorna costantemente la lezione dei maestri fiamminghi de Heem, Kalf, van Alst e van Huysum nei cui dipinti il vasellame di uso comune - come lattiere, teiere, o scolapiatti - è intriso di riferimenti alla vanitas e al memento mori. Frutti, fiori e i piccoli insetti che li accompagnano erano, infatti, funzionali a tracciare velati riferimenti etici e spirituali.
Così, tra parallelismi e asimmetrie, rebus estetici trovano in de Vries soluzioni inaspettate. Come accade in “Two Tang soldiers” opera composta da una coppia di soldati in terracotta della dinastia Tang (618-907). Uno presenta il tipico colore terroso e l’aspetto al momento del suo ritrovamento archeologico, mentre l’altro è dipinto dall’artista con accesi colori primari. Sebbene lo spettatore moderno sia abituato ad ammirare oggetti antichi, come i marmi greci per esempio, apprezzandone il candore e la semplice purezza, in realtà queste opere erano spesso originariamente dipinte con colori sgargianti. La stessa cosa accade quando si ammirano le sfumature fangose di questi manufatti in terracotta provenienti dalla Cina. Appaiando le due figure di soldati si riflette sulla percezione estetica odierna di queste opere in relazione al momento della loro creazione. De Vries sembra non prendere una posizione sottolineando invece come la storia del gusto proceda dialogando ininterrottamente con la storia dell’arte e che un’estetica apparentemente kitsch possa essere rivelatrice di una profonda verità nascosta.
Se i lavori de Vries si presentano sotto forma di esplosioni, bruciature, destrutturazioni o al contrario sono ricomposti utilizzando la tecnica kintsugi - la pratica giapponese di usare l’oro per saldare i frammenti di oggetti in ceramica - la qualità di esecuzione è ciò che contraddistingue ognuna di queste lavorazioni. “C’è stato un tempo - dice de Vries - in cui la qualità non era considerata parte integrante di un’opera d’arte contemporanea: era l’idea il parametro essenziale per il suo successo. Ma ora penso ci sia un ritorno a una visione dell'artista come di un produttore, come qualcuno che possieda una particolare abilità creativa che gli permette di dar vita ad opere sublimi”. Questo non vuole dire rigettare la lezione del contemporaneo che, al contrario, nella sua opera viene esaltata attraverso innumerevoli citazione dadaiste, surrealiste e pop. In un remix estetico in cui ispirazioni tratte dal mondo della cultura alta si scontrano con quelle della cultura bassa, si passa da un riferimento alla regina egizia Nefertiti (“Egypt”, 2013) fino ad arrivare a I Simpson (“Marge Simpson as Guan Yin Goddess of Compassion”, 2014).
Ogni scultura di de Vries pur entrando in relazione e dialogando con ogni altro suo lavoro rimane essenzialmente un pezzo unico. Proprio per questo l’artista non si avvale di uno studio ma crea da sé ogni singola opera lavorando sulla composizione, cercando di raggiungere un equilibrio formale ed estetico. In questo senso è rilevante il lavoro di maggior dimensione in mostra “The Wall 2”. Un'installazione di maioliche bianche di Delft ispirata alle composizioni di porcellane dell’architetto francese, ma naturalizzato olandese, Daniel Marot, che con i suoi elaborati progetti per interni ha contribuito a definire lo stile decorativo in Europa tra il tardo XVII e il primo XVIII secolo.
E’ particolarmente degno di nota che Marot abbia reso uno status symbol gli intricati display di collezioni di porcellane cinesi bianche e blu. Già nel 2012 de Vries era stato chiamato a realizzare un’opera monumentale inspirata a Marot dal museo inglese Pallant House Gallery a Chichester, che gli commissionò la creazione di un’installazione site specific per lo scalone d’onore del museo. L’installazione temporanea “Bow Selector” composta di quattro pannelli consecutivi esponeva in maniera assolutamente unica la preziosa collezione di quasi trecento pezzi di Porcellana di Bow (attiva a Londra tra il 1747 e il 1764) di proprietà di Pallant House. Di contrasto De Vries sceglie volutamente per “The Wall 2” solo frammenti di maioliche bianche di Delft, salvati da antichi cumuli e fondi di canali. Questi oggetti non erano celebrativi ma riservati all’uso quotidiano, è l’artista che ora conferisce loro un nuovo status culturale.
In questo e in altri lavori in mostra i resti archeologici sono il punto di partenza per una nuova narrativa. Forse un giorno anche loro spariranno nella terra e forse saranno ritrovati in un futuro inimmaginabile. Che storie allora rievocheranno?
BOUKE DE VRIES
Nato nel 1960 a Utrecht, Olanda.
Bouke de Vries ha studiato alla Design Academy di Eindhoven e in seguito alla Central St. Martin's di Londra. Dopo aver lavorato con John Galliano, Stephen Jones e Zandra Rhodes, ha deciso di cambiare carriera iniziando un percorso di studi in conservazione e restauro della ceramica presso il West Dean College.
Nella sua pratica quotidiana di restauratore si trova ad affrontare questioni e contraddizioni riguardo i concetti di perfezione e valore. Le opere più contemplative di De Vries ricalcano le nature morte olandesi del XVII e XVIII secolo; in particolare i soggetti floreali del Secolo d'oro - intrisi di decadenza - tipici della sua città natale, Utretch (de Heem, van Alst, van Huysum inter alia). Incorporando elementi contemporanei, un nuovo vocabolario simbolico si sviluppa.
23
gennaio 2018
Bouke De Vries – Sometimes I look east, sometimes I look west
Dal 23 gennaio al 14 marzo 2018
arte contemporanea
Location
OFFICINE SAFFI
Milano, Via Aurelio Saffi, 7, (Milano)
Milano, Via Aurelio Saffi, 7, (Milano)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì ore 10-13 e 14-18.30, sabato 11-18
Vernissage
23 Gennaio 2018, ore 18.30-21
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