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Bruno Ceccobelli – Attici unici
È un’installazione felice, questa sua a L’Attico, con i sacchi, così li chiama, che pendono dal soffitto e nei quali, appena ci si entra con tutta la testa, vieni preso da un oh! di meraviglia
Comunicato stampa
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Un oh! di meraviglia
Ammetto che l’annuncio di una mostra di Bruno Ceccobelli a L’Attico possa essere accolto dal mondo artistico romano con un moto di sorpresa. Una cosa simile si registrò anni fa alla notizia che Stefano Di Stasio avrebbe esposto a via del Paradiso. Era o non era la mia galleria una roccaforte riconosciuta dell’avanguardia? Cosa c’entrava con il gusto retrò dell’anacronismo di cui Di Stasio era l’alfiere? Eppure, se si pensa al modo in cui io conduco la galleria, quella scelta ci stava, come oggi Ceccobelli. Il mio è un giudizio di qualità, che esula dall’appartenenza a un movimento, a un clan. Un artista è bravo o no, questo soltanto conta.
L’appuntamento di Ceccobelli e il sottoscritto, che oggi s’avvera con questa mostra, ha avuto una lunga gestazione. Vale la pena di raccontarla questa marcia di avvicinamento. Negli anni ottanta la Transavanguardia era padrona del campo: Chia, Clemente, Cucchi, De Maria e Paladino erano esaltati dai mass media e premiati dal mercato. Io che mi ero tuffato nella pratica teatrale seguivo a distanza il corso degli eventi, ma mi sembrava ingiustificato il preteso dislivello tra i transavanguardisti e gli altri artisti non entrati nel gruppo di Bonito Oliva. E quando decisi di riaprire L’Attico puntai l’attenzione, reso edotto da Lambarelli, sul Pastificio Cerere che a San Lorenzo cominciava a ospitare un piccolo concentrato di studi d’artista. Fra questi giovani di belle speranze alcuni, quali appunto Ceccobelli, Gallo, Dessì e Bianchi già avevano un rapporto professionale con Ugo Ferranti. Per i miei gusti non erano abbastanza vergini. Più attraenti per un pigmalione come me erano invece Nunzio, Pizzi Cannella e Tirelli non ancora accasati. Non ho mai sottratto artisti ad un altro gallerista, rispettavo Ferranti e il suo lavoro con i giovani. Però Ceccobelli m’intrigava, di quel gruppo ai miei occhi appariva il più folle. Il mio rivale storico dell’Arte povera, Gian Enzo Sperone, che si era trasferito da Torino a Roma, solleticato dalla mia mossa di aprire un nuovo ciclo, volle costituirsi anche lui un gruppo di artisti giovani romani e sottrasse Cecco e gli altri a Ferranti con la prospettiva allettante di esporli nella sua galleria di New York. Gian Enzo è un pragmatico, il gruppo formato da Ferranti era un’occasione ghiotta, bell’e pronto per opporlo al mio che nasceva. Fu eccitante, allora, rinverdire i tempi battaglieri dell’Arte Povera e colmare il gap con i transavanguardisti. San Lorenzo ebbe successo immediato anche per questo rinnovato duello tra me e Sperone, e la mostra Ateliers voluta da Bonito Oliva (sempre lui!) fu il segno che l’operazione decollava. Ceccobelli era l’unico che avrei voluto con me. Anche Gallo e Dessì erano interessanti, ma forse in quel momento più acerbi di lui. Di Cecco mi colpiva, lo ripeto, la visionarietà. Ricordo ancora un suo grande quadro, diviso in caselle bianche e nere, da ciascuna delle quali affiorano piccole teste alternate a teschietti, come un gioco di vita e morte sulla scacchiera del mondo.
Così si andò avanti per anni, duellando lealmente. Io nel frattempo avevo pareggiato i conti aprendo un varco internazionale per Nunzio, Pizzi, Tirelli, e in seguito Palmieri, rappresentato dalla galleria newyorkese di Annina Nosei. Finché, un giorno, corse voce che Cecco aveva rotto i ponti con Sperone. Cominciai a coltivare l’idea di proporgli una mostra a L’Attico. Quando lo feci, lui ne fu lusingato, ma cortesemente rifiutò adducendo il pretesto che doveva battere il ferro finché è caldo. Non so quante mostre avesse programmato una dietro l’altra in tutta la penisola! Un impegno con me gli avrebbe richiesto una dedizione assoluta per almeno sei mesi e il mercato, secondo lui, non poteva attendere.
Una ventina di anni, pressappoco, sono passati da allora. In questo lungo lasso di tempo, lo confesso, Ceccobelli l’ho perso di vista. Non la persona fisica, beninteso, incontrata spesso nei luoghi deputati dell’arte, sempre cordiale col suo faccione aperto e la sua stazza imponente. Lui, umbro verace, ogni volta mi ricorda quel fratacchione di Tino Buazzelli nel film Fantasmi a Roma o anche quello altrettanto corpacciuto di un film di Robin Hood con Errol Flynn. Ce lo vedete voi Cecco col saio, nei panni di un frate grande e grosso, bonario ma pugnace, come ce lo vedo io? Non è, dunque, la persona, ma il lavoro di Bruno che in questi anni non mi ha più parlato. M’imbattevo nei suoi dipinti, ma tra me e loro non scoccava più l’antica scintilla.
Recentemente è stato lui a riprendere il discorso interrotto e io gli ho teso la mano volentieri, tanto più che Bruno ha mostrato negli ultimi tempi segni tangibili di riscossa. È un’installazione felice, questa sua a L’Attico, con i sacchi, così li chiama, che pendono dal soffitto e nei quali, appena ci si entra con tutta la testa, vieni preso da un oh! di meraviglia.
Cecco, stavolta ci hai messo tutti nel sacco!
Fabio Sargentini
Ammetto che l’annuncio di una mostra di Bruno Ceccobelli a L’Attico possa essere accolto dal mondo artistico romano con un moto di sorpresa. Una cosa simile si registrò anni fa alla notizia che Stefano Di Stasio avrebbe esposto a via del Paradiso. Era o non era la mia galleria una roccaforte riconosciuta dell’avanguardia? Cosa c’entrava con il gusto retrò dell’anacronismo di cui Di Stasio era l’alfiere? Eppure, se si pensa al modo in cui io conduco la galleria, quella scelta ci stava, come oggi Ceccobelli. Il mio è un giudizio di qualità, che esula dall’appartenenza a un movimento, a un clan. Un artista è bravo o no, questo soltanto conta.
L’appuntamento di Ceccobelli e il sottoscritto, che oggi s’avvera con questa mostra, ha avuto una lunga gestazione. Vale la pena di raccontarla questa marcia di avvicinamento. Negli anni ottanta la Transavanguardia era padrona del campo: Chia, Clemente, Cucchi, De Maria e Paladino erano esaltati dai mass media e premiati dal mercato. Io che mi ero tuffato nella pratica teatrale seguivo a distanza il corso degli eventi, ma mi sembrava ingiustificato il preteso dislivello tra i transavanguardisti e gli altri artisti non entrati nel gruppo di Bonito Oliva. E quando decisi di riaprire L’Attico puntai l’attenzione, reso edotto da Lambarelli, sul Pastificio Cerere che a San Lorenzo cominciava a ospitare un piccolo concentrato di studi d’artista. Fra questi giovani di belle speranze alcuni, quali appunto Ceccobelli, Gallo, Dessì e Bianchi già avevano un rapporto professionale con Ugo Ferranti. Per i miei gusti non erano abbastanza vergini. Più attraenti per un pigmalione come me erano invece Nunzio, Pizzi Cannella e Tirelli non ancora accasati. Non ho mai sottratto artisti ad un altro gallerista, rispettavo Ferranti e il suo lavoro con i giovani. Però Ceccobelli m’intrigava, di quel gruppo ai miei occhi appariva il più folle. Il mio rivale storico dell’Arte povera, Gian Enzo Sperone, che si era trasferito da Torino a Roma, solleticato dalla mia mossa di aprire un nuovo ciclo, volle costituirsi anche lui un gruppo di artisti giovani romani e sottrasse Cecco e gli altri a Ferranti con la prospettiva allettante di esporli nella sua galleria di New York. Gian Enzo è un pragmatico, il gruppo formato da Ferranti era un’occasione ghiotta, bell’e pronto per opporlo al mio che nasceva. Fu eccitante, allora, rinverdire i tempi battaglieri dell’Arte Povera e colmare il gap con i transavanguardisti. San Lorenzo ebbe successo immediato anche per questo rinnovato duello tra me e Sperone, e la mostra Ateliers voluta da Bonito Oliva (sempre lui!) fu il segno che l’operazione decollava. Ceccobelli era l’unico che avrei voluto con me. Anche Gallo e Dessì erano interessanti, ma forse in quel momento più acerbi di lui. Di Cecco mi colpiva, lo ripeto, la visionarietà. Ricordo ancora un suo grande quadro, diviso in caselle bianche e nere, da ciascuna delle quali affiorano piccole teste alternate a teschietti, come un gioco di vita e morte sulla scacchiera del mondo.
Così si andò avanti per anni, duellando lealmente. Io nel frattempo avevo pareggiato i conti aprendo un varco internazionale per Nunzio, Pizzi, Tirelli, e in seguito Palmieri, rappresentato dalla galleria newyorkese di Annina Nosei. Finché, un giorno, corse voce che Cecco aveva rotto i ponti con Sperone. Cominciai a coltivare l’idea di proporgli una mostra a L’Attico. Quando lo feci, lui ne fu lusingato, ma cortesemente rifiutò adducendo il pretesto che doveva battere il ferro finché è caldo. Non so quante mostre avesse programmato una dietro l’altra in tutta la penisola! Un impegno con me gli avrebbe richiesto una dedizione assoluta per almeno sei mesi e il mercato, secondo lui, non poteva attendere.
Una ventina di anni, pressappoco, sono passati da allora. In questo lungo lasso di tempo, lo confesso, Ceccobelli l’ho perso di vista. Non la persona fisica, beninteso, incontrata spesso nei luoghi deputati dell’arte, sempre cordiale col suo faccione aperto e la sua stazza imponente. Lui, umbro verace, ogni volta mi ricorda quel fratacchione di Tino Buazzelli nel film Fantasmi a Roma o anche quello altrettanto corpacciuto di un film di Robin Hood con Errol Flynn. Ce lo vedete voi Cecco col saio, nei panni di un frate grande e grosso, bonario ma pugnace, come ce lo vedo io? Non è, dunque, la persona, ma il lavoro di Bruno che in questi anni non mi ha più parlato. M’imbattevo nei suoi dipinti, ma tra me e loro non scoccava più l’antica scintilla.
Recentemente è stato lui a riprendere il discorso interrotto e io gli ho teso la mano volentieri, tanto più che Bruno ha mostrato negli ultimi tempi segni tangibili di riscossa. È un’installazione felice, questa sua a L’Attico, con i sacchi, così li chiama, che pendono dal soffitto e nei quali, appena ci si entra con tutta la testa, vieni preso da un oh! di meraviglia.
Cecco, stavolta ci hai messo tutti nel sacco!
Fabio Sargentini
08
maggio 2009
Bruno Ceccobelli – Attici unici
Dall'otto maggio al 30 giugno 2009
arte contemporanea
Location
GALLERIA L’ATTICO – FABIO SARGENTINI
Roma, Via Del Paradiso, 41, (Roma)
Roma, Via Del Paradiso, 41, (Roma)
Orario di apertura
dal lunedì al sabato dalle ore 17 alle ore 20
Vernissage
8 Maggio 2009, h 19
Autore
Curatore