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Bruno Di Maio – La donna e il sogno
Mostra personale di Bruno Di Maio : La donna e il sogno
Comunicato stampa
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Lo spettacolo dipinto
Bruno Di Maio è un pittore vir¬tuoso, cioè ricco di sapienza rap¬presentativa, e gioca volentieri con il pennello padroneggiando il mestiere al punto che lo potre¬sti immaginare mentre realizza il suo spettacolo dipinto ad occhi chiusi, come un rabdomante.
I suoi quadri sono fantasie a volte spericolate, a volte perdutamen¬te misurate sulla attendibilità dei dati percettivi, che il pennello riconduce alle stesure e alle rifi¬niture più dettagliate, con effetti di consapevole adesione senti¬mentale alla immagine.
Non so se sia una indicazione autobiografica, o la necessità di rappresentare, come lo specchio di Narciso, una esauriente visio¬ne di personali esperienze vissu¬te: fatto sta che la pittura di Bru¬no si qualifica in questa perma¬nente tensione tra la facilità del¬l’operare tecnico e il piacere di percorrere i sentieri della infa¬tuazione, della mobilità sentimen¬tale, della avventura esistenziale e fantastica. Così, per lui, la pit¬tura non ha la pretesa del pro-gramma poetico. Non sarà mai, per partito preso, verista simbo¬lista surrealista metafisico reali¬sta iperrealista citazionista che dir si voglia.
Di Maio vuol essere prima di tutto sé stesso, quale lo cono¬sciamo nella sua veste di profes¬sionista dell’immagine dipinta, e al tempo stesso uomo di senti¬menti e di sincera commozione: un galantuomo d’altri tempi in¬somma, che vive la sua esperien¬za di artista con integra sempli¬cità di gesti e di comportamento. All’inganno dell’occhio si con¬forma la sua favola di linee e di colori, secondo una tradizione antica: e antico è in un certo senso il suo procedere incurante di tutte le oscillazioni del gusto, come se la pittura avesse una ricetta infallibile per guarire i malanni del tempo e per oltre¬passare le inevitabili mode.
E’ bello per questo motivo sof¬fermarsi ad apprezzare la evolu¬zione narrativa di certe sue tele, popolate di persone viventi e di allegri fantasmi evocati senza la complicità di un dizionario mito¬logico. Vediamo ad esempio tre caravelle in cielo bigio, sopra una incerta plaga dove si avvicendano personaggi e tempi di una azione simultanea, un suonatore di fi¬sarmonica, uno scultore e la sua modella, un angioletto in bici¬cletta, due goyesche damigelle dai seni pronunciati come i loro variopinti copricapo, e una ragaz¬za in primo piano, un poco discinta, seduta su di un panneggio che sembra quasi il telo dismesso di un piccolo sipario. La descrizione somma¬ria di un dipinto ci consente di riflettere un poco sul divagante immaginario che il pittore ci pre¬senta: sommatoria di piccole vi¬sioni, abbecedario onirico che non aspira alla consapevolezza, ma tuttavia ha il potere straordi-nario del racconto, dell’intrattenimento glorioso in un palcoscenico di continuo belve¬dere.
In questo senso Di Maio scrive in pittura una permanente autobio¬grafia, sia che ritragga persone, o nature morte, o funamboliche e visionarie teratologie. Come il monsieur Dudron di Giorgio De Chirico, il nostro pittore trascri¬ve sulla tela ogni esperienza di vita, attraverso sottilissimi richia¬mi e trame misteriose che posso¬no pure sfuggire al senno del pubblico, purché restino bene stampate nel risultato finale del quadro come evocazione.
A Di Maio, come al Dudron-De Chirico, la biografia serve per spiegare le ragioni che hanno suscitato l’espressione artistica. Egli è un pittore che polemizza, che ragiona, che osserva la vita, che vuole descrivere la sua arte. Per questo tutto diventa per lui occasione: perfino una notte “brava” in balìa di una signora “dalle chiome fiammeggianti” può far risplendere meditazioni e osservazioni attraverso le quali costruire un colore o disporre oggetti sulla tela.
E lo immaginiamo come monsieur Dudron, al termine del¬le peripezie attraversate un po’ controvoglia, un po’ per curiosi¬tà incontenibile, che alla fine “si sedette dietro al cavalletto, si armò della tavolozza e dei pen¬nelli e, riprendendo un quadro abbozzato il giorno prima, si mise tranquillamente a dipingere.” Dopo le avventure condite di so¬gni e di fantasia, Di Maio ripren¬de il suo colloquio col mestiere di pittore e costruisce la sua avven¬tura di artista.
Per questo, nulla è stato inutile, nemmeno il più insignificante dettaglio di esperienza. C’è un fondo di superbia in questa auspicata solitudine del pittore, che è tutta da ascrivere a suo merito se con essa l’erario del¬l’arte può acquisire gemme ulte¬riori. Sentiamo, ancora, il nostro Dudron: “Nella nostra epoca, la storia dell’arte rimarrà famosa per l’ignoranza di quelli che si occupano di pittura. Non capiscono che l’immagine non significa nulla, che l’unica cosa che sottrae una pittura al¬l’oblio è la sua qualità.”
E’ que¬sta definizione della “qualità” come essenza della pittura a far¬mi apparentare Bruno Di Maio al piglio “eroico” di Giorgio De Chirico nella sua battaglia contro le pulsioni antiartistiche del modernismo ideologico.
E’ una avventura fantastica, d’ac¬cordo. Vissuta nell’isolamento, e in forma di anacronistica remini¬scenza di generi, tecniche, ap¬procci espressivi dimenticati.
E pure, tutto questo modo di ve¬dere, e di fare, in nome della “qualità”, è una provocazione for¬temente contestativa del “cultu¬rale organizzato” dei giorni no¬stri, quello che predica l’effime¬ro, la caducità dei mestieri, la stessa dissoluzione entropica dell’arte nel comportamento e nel territorio sociale. Come De Chirico, che si risolve-va a scrutare con ironia il “demo¬ne” presente in ogni cosa, Bruno Di Maio si affida al suo fare di mestiere, e all’estro di una narra¬zione personale e fantasiosa, in polemica diretta col mondo dei critici-intellettuali, quelli che pre¬dicano la “nullità” della pittura, tanto quanto la “nullità” dell’es¬sere. Niente di più lontano po¬trebbe esserci, nello spirito e nel¬la inclinazione di Bruno Di Maio, che vuole trasformare ogni acido corrosivo della esperienza esi¬stenziale in contemplazione, vuoi magica, vuoi serenamente sen¬suale, vuoi narrativamente ma-linconica.
Così i suoi personaggi stravagan¬ti, le sue allegorie senza apparen¬te significato, le teporose figure femminili accarezzate da una pasta colorata sapiente, tra il vi¬vido e l’evanescente, diventano una testimonianza costante di un interesse attivo che il pittore ha per il mondo che lo circonda, e che egli attraversa come un “muto ospite”, avido di visione, inter¬prete medianico.
Bruno Di Maio, nella sua sincera offerta di spettacolo dipinto, non mi pare abbia altra vocazione: egli è, puramente e semplicemen¬te, un impeccabile parodista sin¬ceramente e onestamente appas¬sionato della “qualità” che riesce a conseguire nei risultati della sua espressione.
E al di là delle ‘furberie” dei mestieranti, cosa altro mai deve essere, cosa altro mai è, se non questo, un autentico pittore?
Duccio Trombadori
Bruno Di Maio è un pittore vir¬tuoso, cioè ricco di sapienza rap¬presentativa, e gioca volentieri con il pennello padroneggiando il mestiere al punto che lo potre¬sti immaginare mentre realizza il suo spettacolo dipinto ad occhi chiusi, come un rabdomante.
I suoi quadri sono fantasie a volte spericolate, a volte perdutamen¬te misurate sulla attendibilità dei dati percettivi, che il pennello riconduce alle stesure e alle rifi¬niture più dettagliate, con effetti di consapevole adesione senti¬mentale alla immagine.
Non so se sia una indicazione autobiografica, o la necessità di rappresentare, come lo specchio di Narciso, una esauriente visio¬ne di personali esperienze vissu¬te: fatto sta che la pittura di Bru¬no si qualifica in questa perma¬nente tensione tra la facilità del¬l’operare tecnico e il piacere di percorrere i sentieri della infa¬tuazione, della mobilità sentimen¬tale, della avventura esistenziale e fantastica. Così, per lui, la pit¬tura non ha la pretesa del pro-gramma poetico. Non sarà mai, per partito preso, verista simbo¬lista surrealista metafisico reali¬sta iperrealista citazionista che dir si voglia.
Di Maio vuol essere prima di tutto sé stesso, quale lo cono¬sciamo nella sua veste di profes¬sionista dell’immagine dipinta, e al tempo stesso uomo di senti¬menti e di sincera commozione: un galantuomo d’altri tempi in¬somma, che vive la sua esperien¬za di artista con integra sempli¬cità di gesti e di comportamento. All’inganno dell’occhio si con¬forma la sua favola di linee e di colori, secondo una tradizione antica: e antico è in un certo senso il suo procedere incurante di tutte le oscillazioni del gusto, come se la pittura avesse una ricetta infallibile per guarire i malanni del tempo e per oltre¬passare le inevitabili mode.
E’ bello per questo motivo sof¬fermarsi ad apprezzare la evolu¬zione narrativa di certe sue tele, popolate di persone viventi e di allegri fantasmi evocati senza la complicità di un dizionario mito¬logico. Vediamo ad esempio tre caravelle in cielo bigio, sopra una incerta plaga dove si avvicendano personaggi e tempi di una azione simultanea, un suonatore di fi¬sarmonica, uno scultore e la sua modella, un angioletto in bici¬cletta, due goyesche damigelle dai seni pronunciati come i loro variopinti copricapo, e una ragaz¬za in primo piano, un poco discinta, seduta su di un panneggio che sembra quasi il telo dismesso di un piccolo sipario. La descrizione somma¬ria di un dipinto ci consente di riflettere un poco sul divagante immaginario che il pittore ci pre¬senta: sommatoria di piccole vi¬sioni, abbecedario onirico che non aspira alla consapevolezza, ma tuttavia ha il potere straordi-nario del racconto, dell’intrattenimento glorioso in un palcoscenico di continuo belve¬dere.
In questo senso Di Maio scrive in pittura una permanente autobio¬grafia, sia che ritragga persone, o nature morte, o funamboliche e visionarie teratologie. Come il monsieur Dudron di Giorgio De Chirico, il nostro pittore trascri¬ve sulla tela ogni esperienza di vita, attraverso sottilissimi richia¬mi e trame misteriose che posso¬no pure sfuggire al senno del pubblico, purché restino bene stampate nel risultato finale del quadro come evocazione.
A Di Maio, come al Dudron-De Chirico, la biografia serve per spiegare le ragioni che hanno suscitato l’espressione artistica. Egli è un pittore che polemizza, che ragiona, che osserva la vita, che vuole descrivere la sua arte. Per questo tutto diventa per lui occasione: perfino una notte “brava” in balìa di una signora “dalle chiome fiammeggianti” può far risplendere meditazioni e osservazioni attraverso le quali costruire un colore o disporre oggetti sulla tela.
E lo immaginiamo come monsieur Dudron, al termine del¬le peripezie attraversate un po’ controvoglia, un po’ per curiosi¬tà incontenibile, che alla fine “si sedette dietro al cavalletto, si armò della tavolozza e dei pen¬nelli e, riprendendo un quadro abbozzato il giorno prima, si mise tranquillamente a dipingere.” Dopo le avventure condite di so¬gni e di fantasia, Di Maio ripren¬de il suo colloquio col mestiere di pittore e costruisce la sua avven¬tura di artista.
Per questo, nulla è stato inutile, nemmeno il più insignificante dettaglio di esperienza. C’è un fondo di superbia in questa auspicata solitudine del pittore, che è tutta da ascrivere a suo merito se con essa l’erario del¬l’arte può acquisire gemme ulte¬riori. Sentiamo, ancora, il nostro Dudron: “Nella nostra epoca, la storia dell’arte rimarrà famosa per l’ignoranza di quelli che si occupano di pittura. Non capiscono che l’immagine non significa nulla, che l’unica cosa che sottrae una pittura al¬l’oblio è la sua qualità.”
E’ que¬sta definizione della “qualità” come essenza della pittura a far¬mi apparentare Bruno Di Maio al piglio “eroico” di Giorgio De Chirico nella sua battaglia contro le pulsioni antiartistiche del modernismo ideologico.
E’ una avventura fantastica, d’ac¬cordo. Vissuta nell’isolamento, e in forma di anacronistica remini¬scenza di generi, tecniche, ap¬procci espressivi dimenticati.
E pure, tutto questo modo di ve¬dere, e di fare, in nome della “qualità”, è una provocazione for¬temente contestativa del “cultu¬rale organizzato” dei giorni no¬stri, quello che predica l’effime¬ro, la caducità dei mestieri, la stessa dissoluzione entropica dell’arte nel comportamento e nel territorio sociale. Come De Chirico, che si risolve-va a scrutare con ironia il “demo¬ne” presente in ogni cosa, Bruno Di Maio si affida al suo fare di mestiere, e all’estro di una narra¬zione personale e fantasiosa, in polemica diretta col mondo dei critici-intellettuali, quelli che pre¬dicano la “nullità” della pittura, tanto quanto la “nullità” dell’es¬sere. Niente di più lontano po¬trebbe esserci, nello spirito e nel¬la inclinazione di Bruno Di Maio, che vuole trasformare ogni acido corrosivo della esperienza esi¬stenziale in contemplazione, vuoi magica, vuoi serenamente sen¬suale, vuoi narrativamente ma-linconica.
Così i suoi personaggi stravagan¬ti, le sue allegorie senza apparen¬te significato, le teporose figure femminili accarezzate da una pasta colorata sapiente, tra il vi¬vido e l’evanescente, diventano una testimonianza costante di un interesse attivo che il pittore ha per il mondo che lo circonda, e che egli attraversa come un “muto ospite”, avido di visione, inter¬prete medianico.
Bruno Di Maio, nella sua sincera offerta di spettacolo dipinto, non mi pare abbia altra vocazione: egli è, puramente e semplicemen¬te, un impeccabile parodista sin¬ceramente e onestamente appas¬sionato della “qualità” che riesce a conseguire nei risultati della sua espressione.
E al di là delle ‘furberie” dei mestieranti, cosa altro mai deve essere, cosa altro mai è, se non questo, un autentico pittore?
Duccio Trombadori
09
ottobre 2010
Bruno Di Maio – La donna e il sogno
Dal 09 al 30 ottobre 2010
arte contemporanea
Location
ANTICHE STANZE DI SANTA CATERINA
Prato, Via Dolce De' Mazzamuti, 1, (Prato)
Prato, Via Dolce De' Mazzamuti, 1, (Prato)
Orario di apertura
lun/merc/gio/ven/sab dalle 15.00 alle 18.00
Vernissage
9 Ottobre 2010, ore 17
Autore