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Calabria Felix
L’estro e la poetica del vero nelle opere degli artisti calabresi tra la fine dell’ottocento e la prima metà del novecento
Comunicato stampa
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“CALABRIA FELIX”
“L’estro e la poetica del vero nelle opere degli artisti calabresi tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento”
Eppure la pittura calabrese non è stata estranea al grande flusso dell’impressionismo europeo gli artisti avvertirono in modo profondo il cambiamento, nel secolo della rivoluzione industriale ma anche della “crisi” di identità dello Stato, soprattutto di intellettuali, uomini e donne della nuova società borghese. L’uomo allora veniva analizzato positivisticamente, la scienza offriva le sue spiegazioni. Eppure si stavano perdendo i criteri e le certezze tradizionali: si relativizza la vita, la scienza, se stessi. E l’artista vive la crisi come un adolescente: osserva tutte le novità, le studia, le guarda e le rielabora, le trasforma in messaggio universale per l’umanità. L’Europa era una fucina degli ingegni, la Calabria seguiva l’afflato, lo spirito delle intelligenze del tempo. Così le opere rimaste a noi sono universali, nulla di storicistico, destinato ad essere superato dagli eventi ma sono palpitazione, sangue, vita presente in tutta la produzione artistica. E’ così ineliminabile - anzi continuamente rinnovato e rinnovabile - il rapporto tra lettore / spettatore e ciascuna, singola opera. Questi artisti nati e cresciuti in Calabria tra Ottocento e Novecento hanno percorso le lunghe strade dal meridione fino al cuore della cultura, a Parigi. Ma sono anche tornati in Calabria nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza. A Rebours sembrerebbe. Il sole, il mare, la terra calabrese hanno dato così un contributo, non risibile, alla pittura nel periodo del suo massimo cambiamento, anzi durante e prima della rivoluzione impressionista. Infatti la storia della pittura calabrese tra Ottocento e Novecento assume un carattere eccezionale in virtù della derivazione culturale nella quale si forma e si sviluppa, l’ambiente florido della gloriosa scuola napoletana dell’800. Questa rassegna raccoglie una selezione dei prodotti artistici di alcuni importanti creatori calabresi, ed è stata realizzata dopo anni di appassionata ricerca che ha portato alla scoperta di “pezzi”, per lo più provenienti da collezioni private, spesso inediti.
Il XIX° secolo a Napoli, come in tutto il meridione, segna per questi artisti la loro rivoluzione nella storia dell’arte moderna ma in un teatro vuoto: erano osteggiati e poco creduti dalla critica, poveri di successi. Ma essi sono decisi e caparbi, convinti assertori della poetica dei soggetti e delle tematiche espressi.
Visitare questa mostra, mi auguro, significhi per lo spettatore immergersi nei mondi di individui eccezionali, veri interpreti di un messaggio universale: essi riescono a sommuovere e commuovere con le loro opere l’uomo di ogni tempo, per le loro storie uniche e particolari che rendono il prodotto artistico davvero speciale.
Lo stile ed i linguaggi espressivi dei maestri del verismo napoletano sono ereditati e personalizzati da nomi quali Achille Martelli, Achille Talarico, Francesco La Monaca, Salvatore Petruolo, Garibaldi e Rubens Gariani, Salvatore Falbo e Francesco Cristini, per la cosiddetta scuola catanzarese; Ignazio Lavagna Fieschi, Giuseppe Benassai, Luigi Amato, Antonio Cannata, Francesco Jerace, Gaetano Jerace, Vincenzo Jerace, Francesco e Carlo Lindoro Santoro, fino ad arrivare alle correnti più recenti del primo Novecento. Così nel percorso della mostra si riscopriranno artisti come Antonio Marasco, il più illustre maestro futurista calabrese, dopo Umberto Boccioni. Marasco fu un profondo innovatore e virtuoso della tecnica pittorica, inserì nella superficie materiali diversi: reti metalliche, stoffe, spugne, legno. Si guarderà all’arte di Nicola Simbari che rappresenta la nuova generazione degli artisti calabresi, tra i più celebrati negli Stati Uniti d’America. Difatti le sue opere appaiono nelle più importanti collezioni e musei d’oltreoceano dove gli sono state allestite le più prestigiose mostre. La critica lo ha definito il grande virtuoso della spatola, il creatore di composizioni di grande formato, capace con le sue pennellate, cariche di materia filamentosa di dare plasticità alle forme, con grande libertà esecutiva antiaccademica. Questi uomini, se pur con sacrifici diversi, renderanno il contributo maggiore alla definitiva affermazione internazionale dell’arte e delle avanguardie calabresi tra la fine dell‘800 ed il primo sessantennio del ‘900.
Il più importante scultore dell’800 catanzarese fu senz’altro Francesco La Monaca che dopo aver studiato nella sua città, si arruolò in fanteria e poi tentò la fortuna emigrando a Parigi, dove divenne amico di Matisse e Picasso. I tempi? Duri, durissimi ma unici e irripetibili per tutti gli artisti se, perfino un genio come Pablo Picasso, appena giunto a Parigi nel 1899, dovette lavorare in condizioni a dir poco assurde: per sopravvivere fu costretto ad imitare le opere dei pittori più celebri del periodo quali Alexandre Theofile Steinlen e Jean Louis Forain, dei quali ne plagiò persino la firma.
In mezzo a mille difficoltà si trovò La Monaca a Parigi nel 1913, finché non ricevette un incarico per un ritratto e si recò a Londra dove riuscì ad aprire addirittura uno studio, realizzò una serie di opere in soli cinque mesi: furono esposte presso la galleria “Fine art Gallery”. L’ esposizione riscosse un così grande successo e fu perciò trasferita in una sede pubblica.
L’artista, considerato il più grande ritrattista del periodo, fu intervistato da diversi giornali del tempo che gli dedicarono, come nel caso di “Paris-soir”, addirittura un articolo in prima pagina.
Fu in questa occasione che conobbe Emilia Cardona, grande giornalista e vedova del pittore Giovanni Boldini.
Nel 1930 La Monaca sposò la giornalista. Fu, anche grazie al matrimonio, che l’artista catanzarese entrò definitivamente nell’élite del bel mondo parigino fin de siecle.
Nel 1937, ormai conosciutissimo in Europa, la sua fama attraversò l’oceano tanto da essere incaricato di eseguire il ritratto del presidente americano Franklin Delano Roosevelt a Washington, dove, però non riuscì a completarlo poiché si spense tra la notte del 5 e il 6 febbraio dello stesso anno. Una vita ricchissima di eventi e di vissuti, trasformati da stenti in meritati trionfi. Della sua arte non ci resta che il linguaggio universale di una personalità artistica complessa in via di definizione e giusta rivalutazione.
Le opere esposte parlano da sole: ritratti di artisti, paesaggi, luoghi del tempo e della memoria, dello spazio antropologico, interiorità e profondità di stile, emozioni pure spesso, indimenticabili per lo spettatore.
Se Francesco La Monaca rappresenta una delle voci più eclettiche dell’arte calabrese e allo stesso tempo internazionali anche gli altri artisti meridionali hanno una loro poetica significativa: per essi la tecnica artistica non è che un grande strumento ermeneutico , una forza che li spinge a mostrare se stessi, a rivelarsi nella loro specifica identità. Tante divengono le realtà secondo i punti di vista dell’artista, dei movimenti.
La mano necessariamente più lenta dell’occhio, pronto a percepire gli effetti istantanei della realtà, è utilizzata dagli artisti per tenere il passo con la propria percezione, seguendo una tecnica che consente di lavorare più velocemente dal vero, proprio sull’impressione soggettiva.
Achille Talarico, di cui viene esposta per la prima volta una rara e raffinata opera, che ho recentemente scoperto e catalogato, fu invece un pittore solitario e forse il più poetico dei maestri catanzaresi; per i suoi ritratti fu addirittura accostato alla ricercatezza di Degas. Ma, pur senza appartenere a nessun gruppo, fu anch’egli preso dallo screening della realtà, seguì con estrema perizia le vie del pre-verismo e godette, se pur solo per un certo periodo, di successo e celebrità, tanto da essere invitato nel 1873 all’esposizione universale di Vienna.
L’artista catanzarese, nella tela intitolata “Pensieri”, esprime tutto lo spiccato senso plastico e la gran perizia pittorica di cui è dotato.
Lo sguardo della donna effigiata è carico di trepidazione interlocutoria e si offre quasi pudicamente all’osservatore. Talarico smussa con perizia i contorni, accarezzando i lineamenti del viso della fanciulla, incorniciato dal candido e delicato velo.
Un ruolo di gran protagonista è riservato al maestro Achille Martelli , nato anch’egli a Catanzaro, si trasferì nel 1848 a Napoli dove fu allievo prediletto di Filippo Palizzi. Giovanissimo si arruolò, assieme ad Andrea Cefaly, nelle truppe garibaldine e partecipò alla marcia liberatrice di Soveria Mannelli. La bellissima teletta, intitolata “L’Angelus”, esposta in quest’occasione, è un raro inedito dell’artista. Improntata ad una sobria eleganza induce lo spettatore alla semplice condivisione di un attimo di riflessione e preghiera. Il volto della giovane è investito da una tenue luce crepuscolare che si riverbera sulle umili vesti. Il colore materico e vaporoso risolve il paesaggio in una mossa stesura di toni bruni, velatamente intimista.
Della scuola di Cortale proveniva un altro giovane artista: Eduardo Fiore. Egli, in realtà, si era unito al carismatico fondatore Andrea Cefaly, tra il 1862 e il 1875 allorché, il maestro cortalese, tentò di “dar respiro artistico e culturale” ad una regione abbandonata, a loro dire, al suo destino, non solo nel periodo post-unitario. Due colti esempi di ritrattistica matura, dell’artista sambiasino, vengono in questa occasione presentati al competente pubblico catanzarese. Si tratta di due inediti intitolati: “ Gruppo di famiglia in posa” e”Giovane donna con la chitarra”. Nella prima opera il soggetto è di chiara committenza nobiliare, come si può comprendere dagli abiti e dagli atteggiamenti dei personaggi ritratti che posano in scala gerarchica. L’opera risulta di notevole intensità lirica, nonostante il soggetto alquanto normale, il quadro trasmette momenti d’intensa poesia e di verismo vivo e palpitante. Di diversa natura è la tela, che ritrae una giovane donna assorta, impegnata ad intonare le note d’una intensa melodia; la gamma cromatica risulta orchestrata su una successione di toni bruni che esaltano le calde ed ambrate pennellate d’ocra.
Della stessa corrente, ma di tecnica diversa, era dotato Salvatore Petruolo, anche lui catanzarese, si trasferì giovanissimo a Napoli alla scuola dello Smargiassi, diventando presto un esponente di spicco della scuola di Posillipo assieme a Edoardo Dalbono. Il suo cromatismo colto gli valse il successo presso prestigiose committenze in Italia e all’estero.
Garibaldi Gariani e il figlio Rubens, rappresentano gli ultimi maestri realisti che trasmetteranno a Francesco Cristini e a Salvatore Falbo le ascendeze formali e la disinvoltura virtuosistica del loro talento. Infatti nel linguaggio di questi artisti, tutti legati dal filo indissolubile dal loro maestro, Garibaldi Gariani, si possono invece individuare i luoghi in cui l’elemento agreste risultava meno contaminato dalla modernità: le loro opere sprigionano, ancora oggi, spiragli primitivi di una sacralità remota. I cromatismi sono caratterizzati da consolidate e fresche tonalità rivelano spesso il vento che spira da sempre impetuoso su questi luoghi dell’entroterra calabro ed è intriso di verdi e di blu primaverili, di ocra ambrati. I colori primari risaltano spesso, contrastando la neutralità dello sfondo. Sono essi gli artisti che ritroviamo spesso, come ci è testimoniato da qualche vecchio signore ancora superstite, ad animare con i loro treppiedi le campagne, le fiumare alla ricerca di luci, usi e costumi tipici. Questi artisti calabresi, operanti lontano dalla loro terra d’origine, avvertono con forza la morsa nostalgica. Ecco perché sviluppano nei loro dipinti una pittura di genere bucolico, quasi una ricerca delle proprie origini, dei colori, degli odori, delle ombre, della bellezza della terra e del mare visti per la prima volta con occhi di bambino.
Un ruolo di grande rilievo fu assunto tra il 1848 e il 1937, dal “gruppo di Polistena” formato da artisti di prim’ordine come Antonio Cannata, i fratelli Jerace: Francesco, Gaetano e Vincenzo.
Elegante ritrattista apprezzato dall’aristocrazia del tempo, Francesco Jerace è forse il più celebre degli scultori calabresi tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Le sue opere furono accolte con favore nei salotti culturali e mondani di Napoli, di Francia e d’Inghilterra, partecipò a molte esposizioni.
L’opera presente in mostra è un eccezionale inedito: una bellissima scultura in marmo bianco alabastrino rappresentante una giovane nobildonna bergamasca. Fu eseguita durante il soggiorno nella città orobica, in occasione della realizzazione del gruppo marmoreo dedicato a Gaetano Donizetti, attualmente ubicato accanto al teatro dell’opera.
L’eterea figura, caratterizzata da un vibrante modellato, rivela un’accentuata fissità pensosa; la plastica del volto e la dinamica posa richiamano alla memoria il busto di Costanza Bonarelli del Bernini.
Di Vincenzo Jerace, si ricorda lo spirito versatile ed estroverso, raggiunge la fama dopo numerosi viaggi e nobili committenze. Prodigioso disegnatore e maestro della sanguigna per la sua purezza formale e lineare può essere definito un virtuoso del pastello.
Artista poliedrico Vincenzo si divise tra scultura, pittura e grafica. L’opera in mostra “ Grillo sul limone” è un chiaro esempio della poliedrica e feconda produzione che tocca anche l’ambito religioso ( calici, altari, suppellettili vari ).
Secondogenito dei tre fratelli, Gaetano fu essenzialmente pittore; dotato di particolare sensibilità cromatica, rappresentò con pennellata mossa e spigliata, gli angoli ed i paesaggi pre -aspromontani di Polistena e di Napoli, sua città di adozione.
Due le opere esposte; una “testa d’asinello”, con chiare ascendenze palizziane, ed una “Leda e il cigno” dove risulta invece replicata, con un’interpretazione personale, il capolavoro del maestro della scapigliatura milanese Luigi Rossi.
Di un geniale e poliedrico artista come Giuseppe Benassai, sono ben quattro le opere esposte tra cui il raffinato ed importante pastello ”Quiete alpestre” in cui il contrasto chiaroscurale lascia filtrare una tenue luce dal cielo, solcato da dense nubi. Si possono cogliere chiaramente in questa composizione citazioni ereditate dalla lezione dei suoi contemporanei d’oltralpe: A. Calame e G. Dorè. Quest’opera, pur assumendo il retrogusto di un bozzetto, ricrea fedelmente la realtà circostante e l’atmosfera dimessa con colori quasi plumbei. Il volo di un rapace domina l’ampia veduta, enfatizzata dalla solidità degli alberi e delle rocce erose dalle limpide acque. In tutte le quattro composizioni dell’artista reggino, manca la presenza fisica dell’uomo - è però nella “Natura morta con brocca e maiolica” che l’artista dimostra il suo virtuosismo pittorico; ascrivibile tra gli anni 1870-78, quando egli assunse, su incarico del marchese Lorenzo II, la direzione della fabbrica delle ceramiche artistiche Giulio Richard ( da cui il celebre marchio Richard Ginori ).
Un’importanza notevole, del tutto ignorata, assunse in campo internazionale Luigi Amato, originario di Spezzano Albanese che lasciò a soli quattordici anni dopo aver vinto una borsa di studio che gli consenti di frequentare l’Accademia di Belle arti di Roma. Nel 1939 presentò le sue opere con grande successo alla prestigiosa “Arligton Gallery” di Londra, dove fu addirittura nominato, per la sua particolare abilità, socio della “Pastel Society”. L’opera che verrà esposta, rappresenta un capolavoro dell’artista casentino, un perlaceo crepuscolo che mette in risalto la enorme capacità pittorica attraverso le sfumature atmosferiche, insieme allo splendido primo piano della fanciulla e dell’armento, perfettamente integrati nell’equilibrato rapporto tra luci ed ombre.
Con Antonio Cannata, si scopre il formidabile pastellista che può essere considerato l’erede dei grandi interpreti della Scuola di Posillipo. I pastelli, eseguiti spesso su tavola preparata con fondo d’intonazione grigio-ocra, come il supporto delle opere in mostra, sono per freschezza di tocco, da preferire di gran lunga alle composizioni ad olio.
Gli scorci paesaggistici rappresentano sempre angoli della sua terra o dell’entroterra partenopeo.
Ma chi visiterà la mostra apprezzerà gli sguardi angosciati d’uomini o donne, figli, padri, madri, sedie, finestre piene di luce, paesaggi assolati, rughe e angoli di vita quotidiana, sculture di angeli - bambini e le tecniche pittoriche, studiate o rielaborate istintivamente, dai singoli artisti tra Parigi e il Sud Italia. La Calabria e il Mediterraneo sono evocati con i loro colori, odori, sapori.
Il percorso espositivo dunque sarà strutturato ad esprimere individualmente la Weltanschauung degli uomini non quella del tempo: sarebbe troppo limitante per gli artisti un’operazione di questo tipo. Non potremmo provare tutto il piacere possibile nel guardare le loro opere, perché l’interpretazione sarebbe aprioristicamente già data dalla storia.
Questa mostra intende creare un itinerario sinottico e appercettivo che privilegi la fruizione dello spettatore, in primis attraverso una visione emozionale delle opere e, in secundis, un orientamento storico-estetico. Un quadro, una scultura acquisteranno così a pieno il messaggio in esso insito, del percorso narrativo voluto dall’artista. Si vuol rammentare a questo proposito, che la percezione di massa dell’opera assume caratteristiche contemplative e offre la lettura facilitata attraverso la realtà, il racconto e il commento. Si intende far individuare, con chiarezza, allo spettatore la forte connotazione ermeneutica; per questo è stata strutturata in modo da consentire una diretta lettura delle opere. Mi auguro, infine, che la fruizione di queste opere diventi un momento stimolante di riflessione e valorizzazione della storia della Calabria.
Romano di L. 16-X-2007 Antonio Falbo
“L’estro e la poetica del vero nelle opere degli artisti calabresi tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento”
Eppure la pittura calabrese non è stata estranea al grande flusso dell’impressionismo europeo gli artisti avvertirono in modo profondo il cambiamento, nel secolo della rivoluzione industriale ma anche della “crisi” di identità dello Stato, soprattutto di intellettuali, uomini e donne della nuova società borghese. L’uomo allora veniva analizzato positivisticamente, la scienza offriva le sue spiegazioni. Eppure si stavano perdendo i criteri e le certezze tradizionali: si relativizza la vita, la scienza, se stessi. E l’artista vive la crisi come un adolescente: osserva tutte le novità, le studia, le guarda e le rielabora, le trasforma in messaggio universale per l’umanità. L’Europa era una fucina degli ingegni, la Calabria seguiva l’afflato, lo spirito delle intelligenze del tempo. Così le opere rimaste a noi sono universali, nulla di storicistico, destinato ad essere superato dagli eventi ma sono palpitazione, sangue, vita presente in tutta la produzione artistica. E’ così ineliminabile - anzi continuamente rinnovato e rinnovabile - il rapporto tra lettore / spettatore e ciascuna, singola opera. Questi artisti nati e cresciuti in Calabria tra Ottocento e Novecento hanno percorso le lunghe strade dal meridione fino al cuore della cultura, a Parigi. Ma sono anche tornati in Calabria nei luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza. A Rebours sembrerebbe. Il sole, il mare, la terra calabrese hanno dato così un contributo, non risibile, alla pittura nel periodo del suo massimo cambiamento, anzi durante e prima della rivoluzione impressionista. Infatti la storia della pittura calabrese tra Ottocento e Novecento assume un carattere eccezionale in virtù della derivazione culturale nella quale si forma e si sviluppa, l’ambiente florido della gloriosa scuola napoletana dell’800. Questa rassegna raccoglie una selezione dei prodotti artistici di alcuni importanti creatori calabresi, ed è stata realizzata dopo anni di appassionata ricerca che ha portato alla scoperta di “pezzi”, per lo più provenienti da collezioni private, spesso inediti.
Il XIX° secolo a Napoli, come in tutto il meridione, segna per questi artisti la loro rivoluzione nella storia dell’arte moderna ma in un teatro vuoto: erano osteggiati e poco creduti dalla critica, poveri di successi. Ma essi sono decisi e caparbi, convinti assertori della poetica dei soggetti e delle tematiche espressi.
Visitare questa mostra, mi auguro, significhi per lo spettatore immergersi nei mondi di individui eccezionali, veri interpreti di un messaggio universale: essi riescono a sommuovere e commuovere con le loro opere l’uomo di ogni tempo, per le loro storie uniche e particolari che rendono il prodotto artistico davvero speciale.
Lo stile ed i linguaggi espressivi dei maestri del verismo napoletano sono ereditati e personalizzati da nomi quali Achille Martelli, Achille Talarico, Francesco La Monaca, Salvatore Petruolo, Garibaldi e Rubens Gariani, Salvatore Falbo e Francesco Cristini, per la cosiddetta scuola catanzarese; Ignazio Lavagna Fieschi, Giuseppe Benassai, Luigi Amato, Antonio Cannata, Francesco Jerace, Gaetano Jerace, Vincenzo Jerace, Francesco e Carlo Lindoro Santoro, fino ad arrivare alle correnti più recenti del primo Novecento. Così nel percorso della mostra si riscopriranno artisti come Antonio Marasco, il più illustre maestro futurista calabrese, dopo Umberto Boccioni. Marasco fu un profondo innovatore e virtuoso della tecnica pittorica, inserì nella superficie materiali diversi: reti metalliche, stoffe, spugne, legno. Si guarderà all’arte di Nicola Simbari che rappresenta la nuova generazione degli artisti calabresi, tra i più celebrati negli Stati Uniti d’America. Difatti le sue opere appaiono nelle più importanti collezioni e musei d’oltreoceano dove gli sono state allestite le più prestigiose mostre. La critica lo ha definito il grande virtuoso della spatola, il creatore di composizioni di grande formato, capace con le sue pennellate, cariche di materia filamentosa di dare plasticità alle forme, con grande libertà esecutiva antiaccademica. Questi uomini, se pur con sacrifici diversi, renderanno il contributo maggiore alla definitiva affermazione internazionale dell’arte e delle avanguardie calabresi tra la fine dell‘800 ed il primo sessantennio del ‘900.
Il più importante scultore dell’800 catanzarese fu senz’altro Francesco La Monaca che dopo aver studiato nella sua città, si arruolò in fanteria e poi tentò la fortuna emigrando a Parigi, dove divenne amico di Matisse e Picasso. I tempi? Duri, durissimi ma unici e irripetibili per tutti gli artisti se, perfino un genio come Pablo Picasso, appena giunto a Parigi nel 1899, dovette lavorare in condizioni a dir poco assurde: per sopravvivere fu costretto ad imitare le opere dei pittori più celebri del periodo quali Alexandre Theofile Steinlen e Jean Louis Forain, dei quali ne plagiò persino la firma.
In mezzo a mille difficoltà si trovò La Monaca a Parigi nel 1913, finché non ricevette un incarico per un ritratto e si recò a Londra dove riuscì ad aprire addirittura uno studio, realizzò una serie di opere in soli cinque mesi: furono esposte presso la galleria “Fine art Gallery”. L’ esposizione riscosse un così grande successo e fu perciò trasferita in una sede pubblica.
L’artista, considerato il più grande ritrattista del periodo, fu intervistato da diversi giornali del tempo che gli dedicarono, come nel caso di “Paris-soir”, addirittura un articolo in prima pagina.
Fu in questa occasione che conobbe Emilia Cardona, grande giornalista e vedova del pittore Giovanni Boldini.
Nel 1930 La Monaca sposò la giornalista. Fu, anche grazie al matrimonio, che l’artista catanzarese entrò definitivamente nell’élite del bel mondo parigino fin de siecle.
Nel 1937, ormai conosciutissimo in Europa, la sua fama attraversò l’oceano tanto da essere incaricato di eseguire il ritratto del presidente americano Franklin Delano Roosevelt a Washington, dove, però non riuscì a completarlo poiché si spense tra la notte del 5 e il 6 febbraio dello stesso anno. Una vita ricchissima di eventi e di vissuti, trasformati da stenti in meritati trionfi. Della sua arte non ci resta che il linguaggio universale di una personalità artistica complessa in via di definizione e giusta rivalutazione.
Le opere esposte parlano da sole: ritratti di artisti, paesaggi, luoghi del tempo e della memoria, dello spazio antropologico, interiorità e profondità di stile, emozioni pure spesso, indimenticabili per lo spettatore.
Se Francesco La Monaca rappresenta una delle voci più eclettiche dell’arte calabrese e allo stesso tempo internazionali anche gli altri artisti meridionali hanno una loro poetica significativa: per essi la tecnica artistica non è che un grande strumento ermeneutico , una forza che li spinge a mostrare se stessi, a rivelarsi nella loro specifica identità. Tante divengono le realtà secondo i punti di vista dell’artista, dei movimenti.
La mano necessariamente più lenta dell’occhio, pronto a percepire gli effetti istantanei della realtà, è utilizzata dagli artisti per tenere il passo con la propria percezione, seguendo una tecnica che consente di lavorare più velocemente dal vero, proprio sull’impressione soggettiva.
Achille Talarico, di cui viene esposta per la prima volta una rara e raffinata opera, che ho recentemente scoperto e catalogato, fu invece un pittore solitario e forse il più poetico dei maestri catanzaresi; per i suoi ritratti fu addirittura accostato alla ricercatezza di Degas. Ma, pur senza appartenere a nessun gruppo, fu anch’egli preso dallo screening della realtà, seguì con estrema perizia le vie del pre-verismo e godette, se pur solo per un certo periodo, di successo e celebrità, tanto da essere invitato nel 1873 all’esposizione universale di Vienna.
L’artista catanzarese, nella tela intitolata “Pensieri”, esprime tutto lo spiccato senso plastico e la gran perizia pittorica di cui è dotato.
Lo sguardo della donna effigiata è carico di trepidazione interlocutoria e si offre quasi pudicamente all’osservatore. Talarico smussa con perizia i contorni, accarezzando i lineamenti del viso della fanciulla, incorniciato dal candido e delicato velo.
Un ruolo di gran protagonista è riservato al maestro Achille Martelli , nato anch’egli a Catanzaro, si trasferì nel 1848 a Napoli dove fu allievo prediletto di Filippo Palizzi. Giovanissimo si arruolò, assieme ad Andrea Cefaly, nelle truppe garibaldine e partecipò alla marcia liberatrice di Soveria Mannelli. La bellissima teletta, intitolata “L’Angelus”, esposta in quest’occasione, è un raro inedito dell’artista. Improntata ad una sobria eleganza induce lo spettatore alla semplice condivisione di un attimo di riflessione e preghiera. Il volto della giovane è investito da una tenue luce crepuscolare che si riverbera sulle umili vesti. Il colore materico e vaporoso risolve il paesaggio in una mossa stesura di toni bruni, velatamente intimista.
Della scuola di Cortale proveniva un altro giovane artista: Eduardo Fiore. Egli, in realtà, si era unito al carismatico fondatore Andrea Cefaly, tra il 1862 e il 1875 allorché, il maestro cortalese, tentò di “dar respiro artistico e culturale” ad una regione abbandonata, a loro dire, al suo destino, non solo nel periodo post-unitario. Due colti esempi di ritrattistica matura, dell’artista sambiasino, vengono in questa occasione presentati al competente pubblico catanzarese. Si tratta di due inediti intitolati: “ Gruppo di famiglia in posa” e”Giovane donna con la chitarra”. Nella prima opera il soggetto è di chiara committenza nobiliare, come si può comprendere dagli abiti e dagli atteggiamenti dei personaggi ritratti che posano in scala gerarchica. L’opera risulta di notevole intensità lirica, nonostante il soggetto alquanto normale, il quadro trasmette momenti d’intensa poesia e di verismo vivo e palpitante. Di diversa natura è la tela, che ritrae una giovane donna assorta, impegnata ad intonare le note d’una intensa melodia; la gamma cromatica risulta orchestrata su una successione di toni bruni che esaltano le calde ed ambrate pennellate d’ocra.
Della stessa corrente, ma di tecnica diversa, era dotato Salvatore Petruolo, anche lui catanzarese, si trasferì giovanissimo a Napoli alla scuola dello Smargiassi, diventando presto un esponente di spicco della scuola di Posillipo assieme a Edoardo Dalbono. Il suo cromatismo colto gli valse il successo presso prestigiose committenze in Italia e all’estero.
Garibaldi Gariani e il figlio Rubens, rappresentano gli ultimi maestri realisti che trasmetteranno a Francesco Cristini e a Salvatore Falbo le ascendeze formali e la disinvoltura virtuosistica del loro talento. Infatti nel linguaggio di questi artisti, tutti legati dal filo indissolubile dal loro maestro, Garibaldi Gariani, si possono invece individuare i luoghi in cui l’elemento agreste risultava meno contaminato dalla modernità: le loro opere sprigionano, ancora oggi, spiragli primitivi di una sacralità remota. I cromatismi sono caratterizzati da consolidate e fresche tonalità rivelano spesso il vento che spira da sempre impetuoso su questi luoghi dell’entroterra calabro ed è intriso di verdi e di blu primaverili, di ocra ambrati. I colori primari risaltano spesso, contrastando la neutralità dello sfondo. Sono essi gli artisti che ritroviamo spesso, come ci è testimoniato da qualche vecchio signore ancora superstite, ad animare con i loro treppiedi le campagne, le fiumare alla ricerca di luci, usi e costumi tipici. Questi artisti calabresi, operanti lontano dalla loro terra d’origine, avvertono con forza la morsa nostalgica. Ecco perché sviluppano nei loro dipinti una pittura di genere bucolico, quasi una ricerca delle proprie origini, dei colori, degli odori, delle ombre, della bellezza della terra e del mare visti per la prima volta con occhi di bambino.
Un ruolo di grande rilievo fu assunto tra il 1848 e il 1937, dal “gruppo di Polistena” formato da artisti di prim’ordine come Antonio Cannata, i fratelli Jerace: Francesco, Gaetano e Vincenzo.
Elegante ritrattista apprezzato dall’aristocrazia del tempo, Francesco Jerace è forse il più celebre degli scultori calabresi tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Le sue opere furono accolte con favore nei salotti culturali e mondani di Napoli, di Francia e d’Inghilterra, partecipò a molte esposizioni.
L’opera presente in mostra è un eccezionale inedito: una bellissima scultura in marmo bianco alabastrino rappresentante una giovane nobildonna bergamasca. Fu eseguita durante il soggiorno nella città orobica, in occasione della realizzazione del gruppo marmoreo dedicato a Gaetano Donizetti, attualmente ubicato accanto al teatro dell’opera.
L’eterea figura, caratterizzata da un vibrante modellato, rivela un’accentuata fissità pensosa; la plastica del volto e la dinamica posa richiamano alla memoria il busto di Costanza Bonarelli del Bernini.
Di Vincenzo Jerace, si ricorda lo spirito versatile ed estroverso, raggiunge la fama dopo numerosi viaggi e nobili committenze. Prodigioso disegnatore e maestro della sanguigna per la sua purezza formale e lineare può essere definito un virtuoso del pastello.
Artista poliedrico Vincenzo si divise tra scultura, pittura e grafica. L’opera in mostra “ Grillo sul limone” è un chiaro esempio della poliedrica e feconda produzione che tocca anche l’ambito religioso ( calici, altari, suppellettili vari ).
Secondogenito dei tre fratelli, Gaetano fu essenzialmente pittore; dotato di particolare sensibilità cromatica, rappresentò con pennellata mossa e spigliata, gli angoli ed i paesaggi pre -aspromontani di Polistena e di Napoli, sua città di adozione.
Due le opere esposte; una “testa d’asinello”, con chiare ascendenze palizziane, ed una “Leda e il cigno” dove risulta invece replicata, con un’interpretazione personale, il capolavoro del maestro della scapigliatura milanese Luigi Rossi.
Di un geniale e poliedrico artista come Giuseppe Benassai, sono ben quattro le opere esposte tra cui il raffinato ed importante pastello ”Quiete alpestre” in cui il contrasto chiaroscurale lascia filtrare una tenue luce dal cielo, solcato da dense nubi. Si possono cogliere chiaramente in questa composizione citazioni ereditate dalla lezione dei suoi contemporanei d’oltralpe: A. Calame e G. Dorè. Quest’opera, pur assumendo il retrogusto di un bozzetto, ricrea fedelmente la realtà circostante e l’atmosfera dimessa con colori quasi plumbei. Il volo di un rapace domina l’ampia veduta, enfatizzata dalla solidità degli alberi e delle rocce erose dalle limpide acque. In tutte le quattro composizioni dell’artista reggino, manca la presenza fisica dell’uomo - è però nella “Natura morta con brocca e maiolica” che l’artista dimostra il suo virtuosismo pittorico; ascrivibile tra gli anni 1870-78, quando egli assunse, su incarico del marchese Lorenzo II, la direzione della fabbrica delle ceramiche artistiche Giulio Richard ( da cui il celebre marchio Richard Ginori ).
Un’importanza notevole, del tutto ignorata, assunse in campo internazionale Luigi Amato, originario di Spezzano Albanese che lasciò a soli quattordici anni dopo aver vinto una borsa di studio che gli consenti di frequentare l’Accademia di Belle arti di Roma. Nel 1939 presentò le sue opere con grande successo alla prestigiosa “Arligton Gallery” di Londra, dove fu addirittura nominato, per la sua particolare abilità, socio della “Pastel Society”. L’opera che verrà esposta, rappresenta un capolavoro dell’artista casentino, un perlaceo crepuscolo che mette in risalto la enorme capacità pittorica attraverso le sfumature atmosferiche, insieme allo splendido primo piano della fanciulla e dell’armento, perfettamente integrati nell’equilibrato rapporto tra luci ed ombre.
Con Antonio Cannata, si scopre il formidabile pastellista che può essere considerato l’erede dei grandi interpreti della Scuola di Posillipo. I pastelli, eseguiti spesso su tavola preparata con fondo d’intonazione grigio-ocra, come il supporto delle opere in mostra, sono per freschezza di tocco, da preferire di gran lunga alle composizioni ad olio.
Gli scorci paesaggistici rappresentano sempre angoli della sua terra o dell’entroterra partenopeo.
Ma chi visiterà la mostra apprezzerà gli sguardi angosciati d’uomini o donne, figli, padri, madri, sedie, finestre piene di luce, paesaggi assolati, rughe e angoli di vita quotidiana, sculture di angeli - bambini e le tecniche pittoriche, studiate o rielaborate istintivamente, dai singoli artisti tra Parigi e il Sud Italia. La Calabria e il Mediterraneo sono evocati con i loro colori, odori, sapori.
Il percorso espositivo dunque sarà strutturato ad esprimere individualmente la Weltanschauung degli uomini non quella del tempo: sarebbe troppo limitante per gli artisti un’operazione di questo tipo. Non potremmo provare tutto il piacere possibile nel guardare le loro opere, perché l’interpretazione sarebbe aprioristicamente già data dalla storia.
Questa mostra intende creare un itinerario sinottico e appercettivo che privilegi la fruizione dello spettatore, in primis attraverso una visione emozionale delle opere e, in secundis, un orientamento storico-estetico. Un quadro, una scultura acquisteranno così a pieno il messaggio in esso insito, del percorso narrativo voluto dall’artista. Si vuol rammentare a questo proposito, che la percezione di massa dell’opera assume caratteristiche contemplative e offre la lettura facilitata attraverso la realtà, il racconto e il commento. Si intende far individuare, con chiarezza, allo spettatore la forte connotazione ermeneutica; per questo è stata strutturata in modo da consentire una diretta lettura delle opere. Mi auguro, infine, che la fruizione di queste opere diventi un momento stimolante di riflessione e valorizzazione della storia della Calabria.
Romano di L. 16-X-2007 Antonio Falbo
08
novembre 2007
Calabria Felix
Dall'otto novembre all'otto dicembre 2007
arte moderna e contemporanea
Location
VERDUCI ARTE
Catanzaro, Via Dell'Arcivescovado, 18, (Catanzaro)
Catanzaro, Via Dell'Arcivescovado, 18, (Catanzaro)
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