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Capaccio | Pizzi | Tabacco – Mise en abyme
«Mi piace molto che in un’opera d’arte si ritrovi trasposto, a livello di personaggio, il soggetto stesso dell’opera, a confronto con quel procedimento del “ritratto” che consiste, nel primo, a mettere il secondo ‘en abyme’». (André Gide)
Comunicato stampa
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L’espressione mise en abyme, di origine francese, significa "collocato nell'abisso” e risale ad Andrè Gide che la usa per la prima volta nel suo “Diari” nel 1893.
«Mi piace molto che in un’opera d’arte si ritrovi trasposto, a livello di personaggio, il soggetto stesso dell’opera, a confronto con quel procedimento del “ritratto” che consiste, nel primo, a mettere il secondo ‘en abyme’». (André Gide)
Tale figura esiste dagli albori dell'arte e in tutte le arti, ed il termine che la contraddistingue è un termine tecnico che, in araldica, definisce il cuore di uno scudo il centro di uno stemma.
La metafora araldica del blasone nel blasone, usata da Gide, egli stesso attento studioso di araldica, diventa, dal punto di vista narrativo, una metafora speculare: è «l'abisso dell'autorispecchiamento» in cui il testo riproduce in miniatura la propria costituzione, raddoppia se stesso, «aprendo prospettive di fuga vertiginose e non arrestabili» (Dallenbach).
Adrè Gide stesso cita come esempi di questo procedimento alcuni quadri di Memling o di Quentin Metzys, in cui un piccolo specchio cupo e convesso, riflette a sua volta, l’interno, in cui si svolge la scena dipinta, così come nel quadro Las Meninas di Velàsquez.
La costruzione in abisso è uno dei procedimenti letterari più fecondi e si oppone all'andamento ordinario e tradizionale del racconto rivelando le modalità del suo funzionamento, definendo ogni specchio interno che rifletta l'insieme del racconto per duplicazione, ripetizione o specularità. È il linguaggio riflessivo di cui parla Foucault, il racconto speculare, non solo riferito allo specchio come strumento di riflessione dell'immagine ma anche al significato medievale di speculum (enciclopedia). L'operazione dell'inabissamento, che può assecondare il sogno vertiginoso accarezzato da ogni autore almeno una volta nella vita, di duplicare la propria potenza narrativa è stata ampiamente assimilata nel linguaggio cinematografico a partire dal cinema di Méliès, che è tutto un gioco di myse en abyme, e sottintende che il cinema può servire a riprodurre sogni, fino al recente Inception di Christopher Nolan, un caleidoscopio di livelli narrativi e di piani di realtà differenti che generano miriadi di possibili interpretazioni. Derrida, padre del decostruzionismo, facendo riferimento alla metafora della myse en abyme, riformalizza la cultura come una rete disgiunta di segni e scritti che proliferano, in assenza dell'autore e dove il linguaggio non si basa su fondamenti di realtà, perché fa sempre riferimento ad un altro linguaggio, che a sua volta si riferisce ad un altro ancora, e così all'infinito.
Al di là delle seduzioni decostruzioniste e post-moderniste, l'arte procede da sempre tra un gioco di specchi e uno di rimandi mentali. È’ cresciuta su se stessa e sulla propria storia, con una circolarità che riannoda le trame di un eterno ritorno dell'opera e lo riflette in sé, essendo ad un tempo contenitore e contenuto di uno spazio artistico totale.
L‘Angelus Novus di Paul Klee guarda alle rovine del passato, già in moto verso l’avvenire.
Nelle opere dei tre artisti in mostra è presente un sursis, (dal francese dilazione, respiro) che evita l’immobilità contemplativa e in tutti e tre è preminente l’esigenza di ridefinire il linguaggio attraverso l’apertura del campo semantico, che mediante la manipolazione di molteplici ambiti consente di legare in modo interattivo pittura, scultura, installazione, video e fotografia.
«Mi trovavo sulla piattaforma di un autobus violetto. V’era un giovane ridicolo, collo indaco, che protestava contro un tizio blu. Gli rimproverava con voce verde di spingerlo, poi si lanciava su di un posto giallo. Due ore dopo, davanti a una stazione arancio. Un amico gli dice di fare aggiungere un bottone al suo soprabito rosso» (Da Esercizi di stile di R. Queuneau nella traduzione di Umberto Eco).
I lavori di Antonio Capaccio indicano che non sussiste un equilibrio statico ma un equilibrio fatto di flussi coordinati, che si richiamano in spazi transitori, attuato per differenti strade, tutte fondate sulla sottrazione, nel mantenere fermi i riferimenti alla pratica pittorica, anche se minimi, laterali e anzi periferici, “poveri” e maggiormente intrigati con la linea del pensiero. Nel movimento dei segni si inscrive l’oscillazione del soggetto, che da un lato risulta esecutore e manipolatore di atti percettivi, mentre dall’altro vive come coscienza riflessiva, luogo di un interrogativo senza risposta. L’attività immaginaria e le sue mediazioni simboliche si consegnano alla libertà della ricerca di stile affrancandosi dalle tautologie di una “condizione post-moderna”. Lo stile, proprio perché si intromette, disturba, perverte, è propriamente lo spazio critico dell’arte, cioè la condizione della sua intrinseca e disincantata eticità senza modelli.
«Il mistero delle cose? Che cosa è mai il mistero! L'unico mistero è che ci sia qualcuno che pensa al mistero». (Alberto Caeiro, eteronimo di Fernando Pessoa)
Giuseppe Tabacco, affida la sua arte ad uno scarto percettivo, ad una lentezza del fare che richiede lentezza dell'occhio e in questa prospettiva anche la memoria, il tempo sono elementi strutturanti la cotruzione poetica. Il piano simbolico dell’immagine risulta come bloccato dall’intreccio che il simbolo realizza con la materia, in certi casi sembra semplicemente, un’asperità, un pronunciamento accidentale di questa. L’attitudine progettuale e la passione per le molteplici soluzioni di rappresentazione spaziale vi si instaurano elaborando un’occupazione della superficie, che prevede la coabitazione di molteplici punti focali interattivi. I suoi lavori, nelle loro scansioni e partiture, sono superfici iper-sensibili che si definiscono grazie a una geometria fluida, fatta di affioramenti e sprofondamenti, di insorgenti prospettive e punti di fuga, che si costituisce, come una quinta, un fondale di riferimento per questi fluttuanti punti focali ed emotivi.
Non esisto: dunque sono. Altrove. Qui.
Dove? M’apparve il sogno ad occhi aperti
Di Lei che non fu mai.
Colei ch’è mai vissuta e mai morì
(Carmelo Bene, da La voce di Narciso)
Nei suoi video Maria Pizzi coltiva una personale epopea, fatta di spezzoni e ritagli, di canzoni, di testi, di urla di strada e di mille altri ascolti, sguardi, sfioramenti, che però sono cocci di una granata esplosa chissà quando nella storia dell'uomo. Nel complesso fraseggio del bianco e nero, la ricerca trova nella videoinstallazione un autentico centro di situazioni che si accrescono progressivamente. La fotografia si trasforma in modus investigandi che indaga l’identità nascosta dietro storie costruite con una processualità circolare. L’artista recupera l’dentità, peraltro sofferta, mediante la progressiva decantazione degli elementi e mostra che l’individualità è risucchiata in un magma impenetrabile. Vi sono diaframmi che attenuano e diaframmi che esaltano: così come uno schermo televisivo attenua il senso dell’orrore per la strage trasmessa in diretta, quello di un teatro della crudeltà può esaltarne la valenza tragica.
Al di là del terribile e del fantastico, vissuti direttamente o indirettamente, l’opera dell’artista ci indica come una condizione esistenziale rituale portata al parossismo possa ancora evocare, nella contemporaneità, il grido della nascita o quello strozzato della morte, con la stessa forza con la quale la morte, laddove ci coinvolge personalmente, ci rende protagonisti e allo stesso tempo spettatori dello squarcio della morte degli altri.
Raffaella Rinaldi
«Mi piace molto che in un’opera d’arte si ritrovi trasposto, a livello di personaggio, il soggetto stesso dell’opera, a confronto con quel procedimento del “ritratto” che consiste, nel primo, a mettere il secondo ‘en abyme’». (André Gide)
Tale figura esiste dagli albori dell'arte e in tutte le arti, ed il termine che la contraddistingue è un termine tecnico che, in araldica, definisce il cuore di uno scudo il centro di uno stemma.
La metafora araldica del blasone nel blasone, usata da Gide, egli stesso attento studioso di araldica, diventa, dal punto di vista narrativo, una metafora speculare: è «l'abisso dell'autorispecchiamento» in cui il testo riproduce in miniatura la propria costituzione, raddoppia se stesso, «aprendo prospettive di fuga vertiginose e non arrestabili» (Dallenbach).
Adrè Gide stesso cita come esempi di questo procedimento alcuni quadri di Memling o di Quentin Metzys, in cui un piccolo specchio cupo e convesso, riflette a sua volta, l’interno, in cui si svolge la scena dipinta, così come nel quadro Las Meninas di Velàsquez.
La costruzione in abisso è uno dei procedimenti letterari più fecondi e si oppone all'andamento ordinario e tradizionale del racconto rivelando le modalità del suo funzionamento, definendo ogni specchio interno che rifletta l'insieme del racconto per duplicazione, ripetizione o specularità. È il linguaggio riflessivo di cui parla Foucault, il racconto speculare, non solo riferito allo specchio come strumento di riflessione dell'immagine ma anche al significato medievale di speculum (enciclopedia). L'operazione dell'inabissamento, che può assecondare il sogno vertiginoso accarezzato da ogni autore almeno una volta nella vita, di duplicare la propria potenza narrativa è stata ampiamente assimilata nel linguaggio cinematografico a partire dal cinema di Méliès, che è tutto un gioco di myse en abyme, e sottintende che il cinema può servire a riprodurre sogni, fino al recente Inception di Christopher Nolan, un caleidoscopio di livelli narrativi e di piani di realtà differenti che generano miriadi di possibili interpretazioni. Derrida, padre del decostruzionismo, facendo riferimento alla metafora della myse en abyme, riformalizza la cultura come una rete disgiunta di segni e scritti che proliferano, in assenza dell'autore e dove il linguaggio non si basa su fondamenti di realtà, perché fa sempre riferimento ad un altro linguaggio, che a sua volta si riferisce ad un altro ancora, e così all'infinito.
Al di là delle seduzioni decostruzioniste e post-moderniste, l'arte procede da sempre tra un gioco di specchi e uno di rimandi mentali. È’ cresciuta su se stessa e sulla propria storia, con una circolarità che riannoda le trame di un eterno ritorno dell'opera e lo riflette in sé, essendo ad un tempo contenitore e contenuto di uno spazio artistico totale.
L‘Angelus Novus di Paul Klee guarda alle rovine del passato, già in moto verso l’avvenire.
Nelle opere dei tre artisti in mostra è presente un sursis, (dal francese dilazione, respiro) che evita l’immobilità contemplativa e in tutti e tre è preminente l’esigenza di ridefinire il linguaggio attraverso l’apertura del campo semantico, che mediante la manipolazione di molteplici ambiti consente di legare in modo interattivo pittura, scultura, installazione, video e fotografia.
«Mi trovavo sulla piattaforma di un autobus violetto. V’era un giovane ridicolo, collo indaco, che protestava contro un tizio blu. Gli rimproverava con voce verde di spingerlo, poi si lanciava su di un posto giallo. Due ore dopo, davanti a una stazione arancio. Un amico gli dice di fare aggiungere un bottone al suo soprabito rosso» (Da Esercizi di stile di R. Queuneau nella traduzione di Umberto Eco).
I lavori di Antonio Capaccio indicano che non sussiste un equilibrio statico ma un equilibrio fatto di flussi coordinati, che si richiamano in spazi transitori, attuato per differenti strade, tutte fondate sulla sottrazione, nel mantenere fermi i riferimenti alla pratica pittorica, anche se minimi, laterali e anzi periferici, “poveri” e maggiormente intrigati con la linea del pensiero. Nel movimento dei segni si inscrive l’oscillazione del soggetto, che da un lato risulta esecutore e manipolatore di atti percettivi, mentre dall’altro vive come coscienza riflessiva, luogo di un interrogativo senza risposta. L’attività immaginaria e le sue mediazioni simboliche si consegnano alla libertà della ricerca di stile affrancandosi dalle tautologie di una “condizione post-moderna”. Lo stile, proprio perché si intromette, disturba, perverte, è propriamente lo spazio critico dell’arte, cioè la condizione della sua intrinseca e disincantata eticità senza modelli.
«Il mistero delle cose? Che cosa è mai il mistero! L'unico mistero è che ci sia qualcuno che pensa al mistero». (Alberto Caeiro, eteronimo di Fernando Pessoa)
Giuseppe Tabacco, affida la sua arte ad uno scarto percettivo, ad una lentezza del fare che richiede lentezza dell'occhio e in questa prospettiva anche la memoria, il tempo sono elementi strutturanti la cotruzione poetica. Il piano simbolico dell’immagine risulta come bloccato dall’intreccio che il simbolo realizza con la materia, in certi casi sembra semplicemente, un’asperità, un pronunciamento accidentale di questa. L’attitudine progettuale e la passione per le molteplici soluzioni di rappresentazione spaziale vi si instaurano elaborando un’occupazione della superficie, che prevede la coabitazione di molteplici punti focali interattivi. I suoi lavori, nelle loro scansioni e partiture, sono superfici iper-sensibili che si definiscono grazie a una geometria fluida, fatta di affioramenti e sprofondamenti, di insorgenti prospettive e punti di fuga, che si costituisce, come una quinta, un fondale di riferimento per questi fluttuanti punti focali ed emotivi.
Non esisto: dunque sono. Altrove. Qui.
Dove? M’apparve il sogno ad occhi aperti
Di Lei che non fu mai.
Colei ch’è mai vissuta e mai morì
(Carmelo Bene, da La voce di Narciso)
Nei suoi video Maria Pizzi coltiva una personale epopea, fatta di spezzoni e ritagli, di canzoni, di testi, di urla di strada e di mille altri ascolti, sguardi, sfioramenti, che però sono cocci di una granata esplosa chissà quando nella storia dell'uomo. Nel complesso fraseggio del bianco e nero, la ricerca trova nella videoinstallazione un autentico centro di situazioni che si accrescono progressivamente. La fotografia si trasforma in modus investigandi che indaga l’identità nascosta dietro storie costruite con una processualità circolare. L’artista recupera l’dentità, peraltro sofferta, mediante la progressiva decantazione degli elementi e mostra che l’individualità è risucchiata in un magma impenetrabile. Vi sono diaframmi che attenuano e diaframmi che esaltano: così come uno schermo televisivo attenua il senso dell’orrore per la strage trasmessa in diretta, quello di un teatro della crudeltà può esaltarne la valenza tragica.
Al di là del terribile e del fantastico, vissuti direttamente o indirettamente, l’opera dell’artista ci indica come una condizione esistenziale rituale portata al parossismo possa ancora evocare, nella contemporaneità, il grido della nascita o quello strozzato della morte, con la stessa forza con la quale la morte, laddove ci coinvolge personalmente, ci rende protagonisti e allo stesso tempo spettatori dello squarcio della morte degli altri.
Raffaella Rinaldi
26
novembre 2010
Capaccio | Pizzi | Tabacco – Mise en abyme
Dal 26 novembre al 18 dicembre 2010
arte contemporanea
serata - evento
serata - evento
Location
TRALEVOLTE
Roma, Piazza Di Porta San Giovanni, 10, (ROMA)
Roma, Piazza Di Porta San Giovanni, 10, (ROMA)
Orario di apertura
da lunedì a sabato ore 17-20
Vernissage
26 Novembre 2010, ore 18.30
Autore
Curatore