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Carlo Ciussi & Italo Furlan (1952-1964)
La mostra, incentrata su un gruppo di opere di Carlo Ciussi (1930-2012) realizzate tra gli inizi degli anni Cinquanta e il 1964, dà avvio ad un percorso di riflessione sull’artista e di approfondimento sui rapporti con la famiglia Furlan e in particolare con l’amico Italo (1933-2014).
Comunicato stampa
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Con questa prima mostra, incentrata su un gruppo di opere di Carlo Ciussi (1930-2012) realizzate tra gli inizi degli anni Cinquanta e il 1964, la Fondazione Ado Furlan intende avviare un progetto pluriennale volto non solo a promuovere un’ulteriore riflessione sull’artista, ma anche ad approfondire i rapporti intercorsi con la famiglia Furlan e in particolare con l’amico Italo (1933-2014), dalle cui raccolte – oggi di proprietà della Fondazione – provengono i dipinti che saranno via via esposti.
Se a partire dalla partecipazione alla XXXII Biennale di Venezia del 1964 la figura di Ciussi si è venuta imponendo come una tra le più originali nel panorama artistico della seconda metà del Novecento, meno approfonditi dal punto di vista critico restano tuttora gli esordi e la prima fase di attività che, attraverso un processo di destrutturazione della forma, lo avrebbe condotto alle esperienze informali dei primi anni Sessanta.
PRESENTAZIONI
Caterina Furlan
Con questa prima mostra, incentrata su un gruppo di opere di Carlo Ciussi realizzate tra gli inizi degli anni Cinquanta e il 1964, la Fondazione Ado Furlan intende avviare un progetto pluriennale volto non solo a promuovere un’ulteriore riflessione sull’artista, ma anche ad approfondire i rapporti intercorsi con la famiglia Furlan e in particolare con l’amico Italo, dalle cui raccolte – oggi di proprietà della Fondazione – provengono i dipinti che saranno via via esposti. A tale proposito è opportuno ricordare che la loro conoscenza risale al 1952, anno in cui fu istituita la prima edizione del premio di pittura «Città di Pordenone». Tra i vari articoli pubblicati nell’occasione si distingueva per consapevolezza critica quello di un giovanissimo Italo Furlan che, oltre a difendere le scelte della giuria – era infatti segretario del premio –, si soffermava su alcuni artisti segnalati e in particolare su Ciussi, le cui opere, contraddistinte in quel momento da «deformazioni veementi» ed «arbitri coloristici», gli sembravano preludere a ulteriori, significativi sviluppi.
Da allora le vite dei due giovani, distanziati anagraficamente di appena tre anni (Carlo era nato nel 1930, Italo nel 1933), si svolsero secondo un percorso quasi parallelo e la loro amicizia, vivificata per un lungo tratto da condivisione di idee, coincidenza di interessi e frequenti incontri, si concluse di fatto con la scomparsa di entrambi, avvenuta rispettivamente nel 2012 (Ciussi) e nel 2014 (Furlan).
Per essere sincera, ancora prima di Italo un convinto estimatore di Ciussi era stato mio padre Ado, che fu anche uno dei suoi primi acquirenti e che, d’intesa con il figlio, nel 1959 ospitò una sua mostra nella galleria d’arte «Il Camino», ricavata in alcuni ambienti della casa di via Mazzini. In quella circostanza Carlo espose una serie di nature morte (tavoli con oggetti vari) e paesaggi (covoni, filari di viti ecc.) che fanno parte della sua «protostoria» pittorica, documentata nella presente rassegna attraverso alcune opere riunite a mo’ di preludio al civico 51 della succitata via.
La galleria pordenonese era allora frequentata da Ermanno Mori, un estroverso capitano della Guardia di Finanza amante dell’arte, che aveva intravisto in mio fratello il collaboratore ideale nella realizzazione di alcune iniziative. Di conseguenza, essendo egli operativo a Milano, lo convinse a trasferirsi nel capoluogo lombardo. Qui, nel 1962, i due aprirono una galleria d’arte intitolata a Stendhal, che di fatto fu gestita in prima persona da Italo fino agli inizi degli anni Settanta.
La prima mostra di Carlo alla «Stendhal» ebbe luogo nel 1965. Tuttavia essa fu preceduta nel 1961 da una seconda mostra a «Il Camino», comprensiva di opere a proposito delle quali così ebbe a esprimersi Italo Furlan nel relativo catalogo: «Dopo nove anni [dalla prima mostra della Pro Pordenone] la pittura di Ciussi è quanto di più moderno (realizzato, non intravisto o balbettato) ci offre il Friuli: moderna perché tesa in una dialettica che risolve e prospetta, ad un tempo, nuovi aspetti della propria visione, rigenerando continuamente i mezzi atti ad esprimerla». Si trattava ancora e per lo più di nature morte in senso lato, ma «decostruite» e foriere del successivo passaggio all’informale, avvenuto nel 1963, come attesta la serie di opere ispirate al cosiddetto «paese perduto». Esposte dapprima nello studio udinese dell’artista, al civico 33 di via Aquileia (dal 23 marzo al 9 aprile), e quindi in una terza mostra alla galleria «Il Camino» (dal 12 al 23 giugno), esse si configurano come l’immediato antecedente dell’approdo di Ciussi alla XXXII Biennale di Venezia del 1964.
Nel frattempo egli era diventato un artista della «Stendhal». In verità non conosco nei dettagli quale tipo di rapporto si fosse venuto instaurando tra lui e la galleria, che continuò a ospitare sue mostre fino al 1976. Quello che ricordo molto bene invece è l’inaugurazione della famosa mostra allestita nello studio di Carlo nel 1963. Era una delle prime kermesse cui prendevo parte e la presenza di tanti artisti, critici e professionisti ingenerò in me la sensazione di essere quasi al centro del mondo. L’anno dopo, in occasione del mio diciottesimo compleanno, Ciussi mi dedicò un disegno che conservo ancora accanto al letto: «A Katia. Auguri. Carlo Ciussi 1964». Quella data segnò non solo il mio ingresso nella maggiore età, ma anche e soprattutto l’affermazione di Ciussi dapprima a livello nazionale, quindi europeo e infine internazionale.
Fino a quel momento, il 1964 intendo, uno dei suoi critici più avveduti era stato mio fratello Italo, che nel maggio del 1962 aveva presentato una mostra di dipinti e di disegni di Ciussi ospitata nella Sala comunale d’arte a Trieste. In quello stesso mese aveva licenziato una breve monografia (edita dalla «Stendhal» nel febbraio dell’anno successivo) nella quale, dopo aver ripercorso le tappe salienti del percorso dell’amico, osservava: «Le tele di Ciussi, a partire dal 1960, possono dirsi emozioni sul tema del valore degli oggetti come “presenza”, sulla loro ontologia, se vogliamo. È un seguito di variazioni psicologiche in chiave pseudofigurale: nel senso cioè che il pittore si interessa di penetrare la loro essenza più che l’aspetto meramente descrittivo».
In pagine successive, con riferimento alla produzione più recente, sottolineava: «La struttura grafica s’integra all’“ambiente cromatico” e viceversa. Nella struttura grafica è l’elemento “tempo” che vive nella rapidità delle colate o nell’impennata d’una macchia; nell’ambiente cromatico, l’elemento spazio s’integra ai dati temporali in tensione dialettica. Questa tensione, questo respiro forte costituiscono la vitalità della pittura di Ciussi e il termometro del suo temperamento d’artista».
Infine, nella parte conclusiva del testo, che evidenzia la forte compenetrazione di Italo con l’universo mentale e operativo di Carlo, non mancano di sorprendere alcune considerazioni sul valore etico della sua produzione artistica: «Il valore dell’opera di Ciussi, così ricca di dinamismo da scoraggiare qualsiasi tentativo di inquadramento critico, può ancora cogliersi nell’“esemplarità” del comportamento morale dell’artista. Oggi, il rapporto tra uomo e mondo, in qualsiasi situazione, si giustifica sulla base di un’etica individuale. La pittura di Ciussi è immagine del suo dialogo affettivo con le cose, suggello del vincolo morale che volta a volta stringe con esse».
Certo – si potrebbe obiettare – era lo spirito dei tempi a sollecitare riflessioni di quel genere, ma forse non sarebbe un male se quello stesso spirito incominciasse ad aleggiare di nuovo intorno a noi.
Alessandro Del Puppo
Quello che colpisce del primo momento della pittura di Carlo Ciussi non sono tanto i dipinti, così diversi da quelli che tutti conoscono oggi. Quello che sorprende davvero è la relazione tra quei quadri e i commenti dell’epoca.
Si tratta di pagine in cui ricorre frequentemente un frasario astratto, dove si fa un gran parlare di «tensione emotiva», «ordine morale», «etica individuale», oppure di «costruzioni formali», «struttura grafica», «sistema compositivo». Troviamo ancora un po’ di «lirismo», molto «sentimento» e molta «dialettica». Niente paura: è cosi che più o meno tutti scrivevano all’epoca, soprattutto in provincia, e soprattutto quando gli echi di testi memorabili del dopoguerra – come L’esistenzialismo è un umanesimo di Sartre – continuavano a risuonare, nonostante l’ostilità di quegli impervi costrutti lessicali. A rileggerle oggi, molte di quelle pagine appaiono tanto pretenziose quanto inconcludenti. Verrebbe da chiedersi: sì, ma i quadri? Personalmente sospetto che molte di esse girassero intorno ai temi della pittura (non parlavano, cioè, della pittura, ma commentavano semmai discorsi sulla pittura) senza affrontarli veramente, perché la maggior parte dei critici era, semplicemente, spaventata dagli esiti. All’epoca delle prime personali di Ciussi quegli stessi critici speravano che l’evoluzione del pittore coincidesse con la sua redenzione.
Si insisteva tanto sul «giovane» Ciussi con il paternalismo insomma di chi aspettava che i giovani si sfogassero (tutte quelle opere americane, con le assurde accelerazioni e i colori che schizzano) e poi riprendessero a fare il quadro come si doveva: «ordine», «moralità», «controllo» significavano quasi sempre quello. Cioè la natura morta «formalista», l’impianto più o meno neocubista – il che significa, all’ingrosso, un ispessimento dei contorni, qualche piano sghembo, colori ancora densi e bituminosi – o il paesaggio «moderno», cioè vagamente tonalista, nella maniera con cui negli anni cinquanta si teneva in piedi la vecchia scuola dei paesisti veneziani. Come si vede nei dipinti precedenti al 1960 esposti in mostra in una sezione separata, Ciussi era legato a quella prima ipotesi – quella di una modernità artistica stile 1948, da Fronte Nuovo delle Arti.
A un certo punto però si rese conto che era necessario stare al passo con i tempi. La Biennale del 1960 aveva spiegato a tutti che la stagione dell’informale era ormai al tramonto, e lui stava ancora lì con le nature morte con le caraffe e le trecce d’aglio, mentre altrove era tutto un inseguire estetiche industriali, misurarsi con gli spazi delle architetture moderne, vetro e acciaio, neon e plastiche; c’era Fontana, c’erano gli spazialisti di Cardazzo, c’erano molte altre cose interessanti.
Intendiamoci, non c’è nessuna colpa a essere in ritardo, specie in provincia, non c’è nessuna colpa, specie in una regione dove ancora oggi non si riesce a trovare un solo quadro astratto risalente agli anni Cinquanta. Il problema per Ciussi (e, ne sono certo, anche per Italo Furlan) invece era come fare a colmarlo, quel ritardo.
Ciussi decise di alzare la posta, e con lui il suo mentore. In fin dei conti entrambi avevano frequentato gli stessi luoghi e gli stessi giri: la Venezia internazionale delle Biennali del dopoguerra, ma anche i vari premi di pittura locale, dove non esisteva un confronto ma al più la coesistenza forzata con quadri non sempre degni di questo nome. Trovare una sintesi era impensabile. Uscirne, era tutt’altro che facile. E per andare dove? L’avvio del nuovo percorso è documentato in mostra da alcune nature morte del 1960, nelle quali l’artista si sforzava di andare oltre il mero dato figurale; ulteriori cambiamenti sarebbero intervenuti cammin facendo, anzi addirittura di mese in mese, come attestano le indicazioni cronologiche apposte sul verso di molte tele.
In una bella pagina, di appena un anno successiva a quanto scritto in occasione della seconda mostra ospitata al «Camino» nel 1961, Furlan mise a verbale «zone tendenzialmente materiche, colature e strappi di segno». Il lessico era ancora quello dell’informale, i quadri pure; ma quei grandi tavoli su cui Ciussi aveva imbandito per tanti anni i suoi oggetti, iniziarono a bruciare ogni residuo di illusionismo spaziale. La finzione di profondità dello spazio reale, che aveva sempre condizionato la messinscena realistica, e quindi determinato la sua stessa tenuta, si fece quasi improvvisamente parete, superficie opaca. Le sagome degli oggetti erano trascritti in una trama di segni, graffi e grafismi; la referenzialità era sempre più messa in discussione; emergeva un arabesco di non facile decifrazione.
Per un pittore come Ciussi era davvero qualcosa di nuovo. E ancora più nuove e diverse sarebbero state le opere del 1963. Dipinti come Senza titolo e Il paese perduto, presentati in quello stesso anno dapprima a Udine nella personale presso lo studio dell’autore e subito dopo a Pordenone, raccontavano ancora un tema locale. Alludevano infatti al paese, e credo anche alle falesie, di Anduins, nella Val d’Arzino. Ma la risoluzione era ben più coraggiosamente sperimentale. Metteva insieme qualcosa del Tàpies che tanto successo aveva ottenuto alla Biennale del 1958 e non poco naturalmente degli ultimi lavori di Afro. «Scritture» corsive e tasselli di colore incastonati rendevano ancora più elementare la relazione tra figura e fondo.
Il lavoro si protrasse per circa un anno, e preluse all’invito alla Biennale del 1964, alla quale Ciussi partecipò con cinque opere selezionate da un critico coetaneo, curioso e d’impeccabile formazione, primo allievo di Argan, Maurizio Calvesi.
Quelle opere sconcertano, a guardare oggi indietro: sono ormai superfici di estrema economia formale. Il problema aveva una soluzione. Il divario poteva essere colmato. I tempi furono quelli, straordinariamente brevi, possibili a quel tempo. Credo che da queste parti ne rimasero sorpresi un po’ tutti, e forse anche lo stesso Furlan.
CENNI BIOGRAFICI
Carlo Ciussi (1930-2012)
Nato a Udine nel 1930, tra il 1945 e il 1949 frequenta a Venezia il liceo artistico, entrando in contatto con artisti quali Vedova, Giuseppe Santomaso e Armando Pizzinato, che nel 1946 avevano aderito al Fronte Nuovo delle Arti insieme con il critico Giuseppe Marchiori.
Negli anni successivi il lavoro presso la tipografia paterna non gli impedisce di continuare a dedicarsi alla pittura e di partecipare a vari concorsi, ricevendo i primi riconoscimenti. In concomitanza con i premi di pittura organizzati dalla Pro Pordenone nella città del Noncello, a partire dal 1952 nacque e si consolidò l’amicizia con Ado e Italo Furlan, che ospitarono spesso sue mostre presso la galleria «Il Camino», aperta nel luglio del 1957.
Tra il 1960 e il 1963, i rinnovati rapporti con Santomaso e Afro Basaldella, imprimono alla sua pittura una rapida accelerazione, che comportò il passaggio dal neocubismo dei primi dipinti alle esperienze di carattere informale che preludono al suo invito alla XXXII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. In quello stesso 1964, grazie a un contratto con la galleria Stendhal fondata nel frattempo a Milano dall’amico Furlan in collaborazione con il marchigiano Ermanno Mori, apre uno studio nella città ambrosiana, dove conosce l’avvocato e collezionista Carlo Invernizzi, con il quale instaurerà un importante e duraturo legame.
Lungi dal configurarsi come un approdo definitivo, le opere materiche con cui si era presentato alla Biennale di Venezia costituiscono a loro volta la premessa della successiva svolta dapprima in direzione segnica e quindi geometrica che, con ulteriori passaggi dal motivo del cerchio alle campiture orizzontali, contraddistingue la sua produzione tra lo scorcio degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo.
In questo periodo, oltre a Giuseppe Marchiori, scrivono di lui i principali critici italiani e stranieri del Novecento, da Gillo Dorfles a Carlo Giulio Argan, da Michel Seuphor a Charles Spencer e Lara Vinca Masini.
Tra le numerose mostre personali e collettive cui partecipa, particolarmente significative sono quelle presso le gallerie di Paul Facchetti a Parigi e Zurigo (1967, 1971), la presenza alla IX Biennale di San Paolo del Brasile (1967) e la prima mostra antologica ospitata in palazzo Torriani a Gradisca d’Isonzo (1974). Nel frattempo il rapporto con alcuni architetti attivi tra Udine, Pordenone e Milano, sfocia in impegnative imprese decorative di carattere pubblico e privato.
La principale novità degli anni Ottanta è costituita dall’approdo di Ciussi alla scultura sia di piccolo formato sia di scala monumentale. Sul versante pittorico la sua produzione si caratterizza invece per un’ulteriore riflessione sul segno e sulla traccia, che proseguirà anche negli anni Novanta, mentre dal Duemila in avanti si registrerà il ritorno a una ricerca focalizzata sulla geometria e sulla forma intesa come «luogo» del colore.
Nell’impossibilità di seguire in dettaglio l’intensa attività e le relazioni intrattenute dall’artista nella parte centrale e nell’ultimo decennio della sua vita, conclusasi a Udine nell’aprile del 2012, meritano di essere ricordate l’amicizia con l’architetto Gino Valle e il collezionista milanese Carlo Jucker, la sua partecipazione a varie mostre in Italia (Udine, Vignate, Trieste, Milano, Mantova, Orvieto ecc.) e all’estero (Esslingen, Lubiana, Aschaffenburg, Klagenfurt), nonché il suo rapporto privilegiato con la galleria A arte Studio Invernizzi, erede e testimone di un’avventura durata tutta la vita, durante la quale Ciussi ha avuto come insostituibile punto di riferimento e compagna la moglie Lina.
Italo Furlan (1933-2014)
Nato a Pordenone, compì gli studi liceali al collegio don Bosco e quelli musicali sotto la guida della pianista Pia Tallon Baschiera. Tra il 1952 e il 1956 ricoprì il ruolo di segretario dei premi di pittura istituiti dalla «Pro Pordenone» e in tale circostanza conobbe il pittore Carlo Ciussi, di solo qualche anno più vecchio di lui.
Nel 1957, poco dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne presso l’Università di Padova, dette vita con il padre, lo scultore Ado, alla prima galleria d’arte privata attiva nel Pordenonese. A «Il Camino» – tale era il nome della galleria suggerito da un caminetto effettivamente esistente in uno degli ambienti che la componevano, ma allusivo anche al «sacro fuoco dell’arte» – furono spesso ospitate, accanto a mostre di affermati maestri italiani e stranieri del Novecento, anche quelle di giovani artisti, come per l’appunto Ciussi.
Tuttavia, insofferente alla vita di provincia e desideroso di compiere nuove esperienze, nei primi anni Sessanta decise di trasferirsi a Milano dove, insieme con l’amico Ermanno Mori, nel 1962 fondò una galleria d’arte intitolata a Stendhal, che nel giro di breve tempo riuscì a conquistare un proprio spazio nel non facile ambiente milanese. Tra l’altro fu grazie a un contratto offertogli dalla Stendhal se Ciussi nel 1964 poté a sua volta aprire uno studio in piazza Sant’Alessandro.
La permanenza nel capoluogo lombardo, protrattasi per oltre un decennio, non gli impedì di continuare a dedicarsi alla carriera universitaria presso l’ateneo patavino dapprima come assistente alla cattedra di Archeologia cristiana, quindi come libero docente in Storia dell’arte medievale e moderna e infine quale professore associato di Storia dell’arte bizantina, materia di cui continuò a occuparsi fino alla morte.
A partire dalla fine degli anni Settanta, prese parte a diverse missioni nei monasteri del Monte Athos e in Siria. Tra le sue numerose pubblicazioni, le più significative riguardano i codici greci della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e in particolare i Cynegetica di Oppiano, resi disponibili nella traduzione dell’insigne filologo Filippo Maria Pontani.
L’immersione nell’arte del passato non fu mai in conflitto con il suo interesse per l’arte contemporanea, cui di dedicò sia in veste di collezionista sia in quella di promotore di iniziative artistiche. Infatti, nel 1992 aveva dato vita a un’associazione culturale che nel 2003 si sarebbe trasformata nella Fondazione Ado Furlan, della quale egli fu il principale promotore e primo presidente.
I rapporti con Ciussi, mai interrotti sebbene nel corso degli anni avessero finito per assumere un andamento «carsico», ripresero con rinnovato impulso verso la fine del Novecento, come confermano le due mostre di dipinti storici ospitate negli spazi espositivi di via Mazzini tra il 1999 e il 2001 e quella di opere recenti, organizzata dalla Fondazione Furlan in palazzo Tadea a Spilimbergo nel 2006.
Nel 2013, a dispetto delle precarie condizioni di salute, aveva compiuto un avventuroso viaggio in Cina, invitato da un gruppo di artisti cinesi che aveva presentato alla Biennale di Venezia di quello stesso anno. Al momento della morte, avvenuta a Padova nel gennaio del 2014, aveva accanto al letto un volume su Antonello di Messina, mentre a chi gli aveva fatto visita nei giorni precedenti aveva parlato dei suoi studi in corso e dei progetti che aveva in animo per il futuro.
Se a partire dalla partecipazione alla XXXII Biennale di Venezia del 1964 la figura di Ciussi si è venuta imponendo come una tra le più originali nel panorama artistico della seconda metà del Novecento, meno approfonditi dal punto di vista critico restano tuttora gli esordi e la prima fase di attività che, attraverso un processo di destrutturazione della forma, lo avrebbe condotto alle esperienze informali dei primi anni Sessanta.
PRESENTAZIONI
Caterina Furlan
Con questa prima mostra, incentrata su un gruppo di opere di Carlo Ciussi realizzate tra gli inizi degli anni Cinquanta e il 1964, la Fondazione Ado Furlan intende avviare un progetto pluriennale volto non solo a promuovere un’ulteriore riflessione sull’artista, ma anche ad approfondire i rapporti intercorsi con la famiglia Furlan e in particolare con l’amico Italo, dalle cui raccolte – oggi di proprietà della Fondazione – provengono i dipinti che saranno via via esposti. A tale proposito è opportuno ricordare che la loro conoscenza risale al 1952, anno in cui fu istituita la prima edizione del premio di pittura «Città di Pordenone». Tra i vari articoli pubblicati nell’occasione si distingueva per consapevolezza critica quello di un giovanissimo Italo Furlan che, oltre a difendere le scelte della giuria – era infatti segretario del premio –, si soffermava su alcuni artisti segnalati e in particolare su Ciussi, le cui opere, contraddistinte in quel momento da «deformazioni veementi» ed «arbitri coloristici», gli sembravano preludere a ulteriori, significativi sviluppi.
Da allora le vite dei due giovani, distanziati anagraficamente di appena tre anni (Carlo era nato nel 1930, Italo nel 1933), si svolsero secondo un percorso quasi parallelo e la loro amicizia, vivificata per un lungo tratto da condivisione di idee, coincidenza di interessi e frequenti incontri, si concluse di fatto con la scomparsa di entrambi, avvenuta rispettivamente nel 2012 (Ciussi) e nel 2014 (Furlan).
Per essere sincera, ancora prima di Italo un convinto estimatore di Ciussi era stato mio padre Ado, che fu anche uno dei suoi primi acquirenti e che, d’intesa con il figlio, nel 1959 ospitò una sua mostra nella galleria d’arte «Il Camino», ricavata in alcuni ambienti della casa di via Mazzini. In quella circostanza Carlo espose una serie di nature morte (tavoli con oggetti vari) e paesaggi (covoni, filari di viti ecc.) che fanno parte della sua «protostoria» pittorica, documentata nella presente rassegna attraverso alcune opere riunite a mo’ di preludio al civico 51 della succitata via.
La galleria pordenonese era allora frequentata da Ermanno Mori, un estroverso capitano della Guardia di Finanza amante dell’arte, che aveva intravisto in mio fratello il collaboratore ideale nella realizzazione di alcune iniziative. Di conseguenza, essendo egli operativo a Milano, lo convinse a trasferirsi nel capoluogo lombardo. Qui, nel 1962, i due aprirono una galleria d’arte intitolata a Stendhal, che di fatto fu gestita in prima persona da Italo fino agli inizi degli anni Settanta.
La prima mostra di Carlo alla «Stendhal» ebbe luogo nel 1965. Tuttavia essa fu preceduta nel 1961 da una seconda mostra a «Il Camino», comprensiva di opere a proposito delle quali così ebbe a esprimersi Italo Furlan nel relativo catalogo: «Dopo nove anni [dalla prima mostra della Pro Pordenone] la pittura di Ciussi è quanto di più moderno (realizzato, non intravisto o balbettato) ci offre il Friuli: moderna perché tesa in una dialettica che risolve e prospetta, ad un tempo, nuovi aspetti della propria visione, rigenerando continuamente i mezzi atti ad esprimerla». Si trattava ancora e per lo più di nature morte in senso lato, ma «decostruite» e foriere del successivo passaggio all’informale, avvenuto nel 1963, come attesta la serie di opere ispirate al cosiddetto «paese perduto». Esposte dapprima nello studio udinese dell’artista, al civico 33 di via Aquileia (dal 23 marzo al 9 aprile), e quindi in una terza mostra alla galleria «Il Camino» (dal 12 al 23 giugno), esse si configurano come l’immediato antecedente dell’approdo di Ciussi alla XXXII Biennale di Venezia del 1964.
Nel frattempo egli era diventato un artista della «Stendhal». In verità non conosco nei dettagli quale tipo di rapporto si fosse venuto instaurando tra lui e la galleria, che continuò a ospitare sue mostre fino al 1976. Quello che ricordo molto bene invece è l’inaugurazione della famosa mostra allestita nello studio di Carlo nel 1963. Era una delle prime kermesse cui prendevo parte e la presenza di tanti artisti, critici e professionisti ingenerò in me la sensazione di essere quasi al centro del mondo. L’anno dopo, in occasione del mio diciottesimo compleanno, Ciussi mi dedicò un disegno che conservo ancora accanto al letto: «A Katia. Auguri. Carlo Ciussi 1964». Quella data segnò non solo il mio ingresso nella maggiore età, ma anche e soprattutto l’affermazione di Ciussi dapprima a livello nazionale, quindi europeo e infine internazionale.
Fino a quel momento, il 1964 intendo, uno dei suoi critici più avveduti era stato mio fratello Italo, che nel maggio del 1962 aveva presentato una mostra di dipinti e di disegni di Ciussi ospitata nella Sala comunale d’arte a Trieste. In quello stesso mese aveva licenziato una breve monografia (edita dalla «Stendhal» nel febbraio dell’anno successivo) nella quale, dopo aver ripercorso le tappe salienti del percorso dell’amico, osservava: «Le tele di Ciussi, a partire dal 1960, possono dirsi emozioni sul tema del valore degli oggetti come “presenza”, sulla loro ontologia, se vogliamo. È un seguito di variazioni psicologiche in chiave pseudofigurale: nel senso cioè che il pittore si interessa di penetrare la loro essenza più che l’aspetto meramente descrittivo».
In pagine successive, con riferimento alla produzione più recente, sottolineava: «La struttura grafica s’integra all’“ambiente cromatico” e viceversa. Nella struttura grafica è l’elemento “tempo” che vive nella rapidità delle colate o nell’impennata d’una macchia; nell’ambiente cromatico, l’elemento spazio s’integra ai dati temporali in tensione dialettica. Questa tensione, questo respiro forte costituiscono la vitalità della pittura di Ciussi e il termometro del suo temperamento d’artista».
Infine, nella parte conclusiva del testo, che evidenzia la forte compenetrazione di Italo con l’universo mentale e operativo di Carlo, non mancano di sorprendere alcune considerazioni sul valore etico della sua produzione artistica: «Il valore dell’opera di Ciussi, così ricca di dinamismo da scoraggiare qualsiasi tentativo di inquadramento critico, può ancora cogliersi nell’“esemplarità” del comportamento morale dell’artista. Oggi, il rapporto tra uomo e mondo, in qualsiasi situazione, si giustifica sulla base di un’etica individuale. La pittura di Ciussi è immagine del suo dialogo affettivo con le cose, suggello del vincolo morale che volta a volta stringe con esse».
Certo – si potrebbe obiettare – era lo spirito dei tempi a sollecitare riflessioni di quel genere, ma forse non sarebbe un male se quello stesso spirito incominciasse ad aleggiare di nuovo intorno a noi.
Alessandro Del Puppo
Quello che colpisce del primo momento della pittura di Carlo Ciussi non sono tanto i dipinti, così diversi da quelli che tutti conoscono oggi. Quello che sorprende davvero è la relazione tra quei quadri e i commenti dell’epoca.
Si tratta di pagine in cui ricorre frequentemente un frasario astratto, dove si fa un gran parlare di «tensione emotiva», «ordine morale», «etica individuale», oppure di «costruzioni formali», «struttura grafica», «sistema compositivo». Troviamo ancora un po’ di «lirismo», molto «sentimento» e molta «dialettica». Niente paura: è cosi che più o meno tutti scrivevano all’epoca, soprattutto in provincia, e soprattutto quando gli echi di testi memorabili del dopoguerra – come L’esistenzialismo è un umanesimo di Sartre – continuavano a risuonare, nonostante l’ostilità di quegli impervi costrutti lessicali. A rileggerle oggi, molte di quelle pagine appaiono tanto pretenziose quanto inconcludenti. Verrebbe da chiedersi: sì, ma i quadri? Personalmente sospetto che molte di esse girassero intorno ai temi della pittura (non parlavano, cioè, della pittura, ma commentavano semmai discorsi sulla pittura) senza affrontarli veramente, perché la maggior parte dei critici era, semplicemente, spaventata dagli esiti. All’epoca delle prime personali di Ciussi quegli stessi critici speravano che l’evoluzione del pittore coincidesse con la sua redenzione.
Si insisteva tanto sul «giovane» Ciussi con il paternalismo insomma di chi aspettava che i giovani si sfogassero (tutte quelle opere americane, con le assurde accelerazioni e i colori che schizzano) e poi riprendessero a fare il quadro come si doveva: «ordine», «moralità», «controllo» significavano quasi sempre quello. Cioè la natura morta «formalista», l’impianto più o meno neocubista – il che significa, all’ingrosso, un ispessimento dei contorni, qualche piano sghembo, colori ancora densi e bituminosi – o il paesaggio «moderno», cioè vagamente tonalista, nella maniera con cui negli anni cinquanta si teneva in piedi la vecchia scuola dei paesisti veneziani. Come si vede nei dipinti precedenti al 1960 esposti in mostra in una sezione separata, Ciussi era legato a quella prima ipotesi – quella di una modernità artistica stile 1948, da Fronte Nuovo delle Arti.
A un certo punto però si rese conto che era necessario stare al passo con i tempi. La Biennale del 1960 aveva spiegato a tutti che la stagione dell’informale era ormai al tramonto, e lui stava ancora lì con le nature morte con le caraffe e le trecce d’aglio, mentre altrove era tutto un inseguire estetiche industriali, misurarsi con gli spazi delle architetture moderne, vetro e acciaio, neon e plastiche; c’era Fontana, c’erano gli spazialisti di Cardazzo, c’erano molte altre cose interessanti.
Intendiamoci, non c’è nessuna colpa a essere in ritardo, specie in provincia, non c’è nessuna colpa, specie in una regione dove ancora oggi non si riesce a trovare un solo quadro astratto risalente agli anni Cinquanta. Il problema per Ciussi (e, ne sono certo, anche per Italo Furlan) invece era come fare a colmarlo, quel ritardo.
Ciussi decise di alzare la posta, e con lui il suo mentore. In fin dei conti entrambi avevano frequentato gli stessi luoghi e gli stessi giri: la Venezia internazionale delle Biennali del dopoguerra, ma anche i vari premi di pittura locale, dove non esisteva un confronto ma al più la coesistenza forzata con quadri non sempre degni di questo nome. Trovare una sintesi era impensabile. Uscirne, era tutt’altro che facile. E per andare dove? L’avvio del nuovo percorso è documentato in mostra da alcune nature morte del 1960, nelle quali l’artista si sforzava di andare oltre il mero dato figurale; ulteriori cambiamenti sarebbero intervenuti cammin facendo, anzi addirittura di mese in mese, come attestano le indicazioni cronologiche apposte sul verso di molte tele.
In una bella pagina, di appena un anno successiva a quanto scritto in occasione della seconda mostra ospitata al «Camino» nel 1961, Furlan mise a verbale «zone tendenzialmente materiche, colature e strappi di segno». Il lessico era ancora quello dell’informale, i quadri pure; ma quei grandi tavoli su cui Ciussi aveva imbandito per tanti anni i suoi oggetti, iniziarono a bruciare ogni residuo di illusionismo spaziale. La finzione di profondità dello spazio reale, che aveva sempre condizionato la messinscena realistica, e quindi determinato la sua stessa tenuta, si fece quasi improvvisamente parete, superficie opaca. Le sagome degli oggetti erano trascritti in una trama di segni, graffi e grafismi; la referenzialità era sempre più messa in discussione; emergeva un arabesco di non facile decifrazione.
Per un pittore come Ciussi era davvero qualcosa di nuovo. E ancora più nuove e diverse sarebbero state le opere del 1963. Dipinti come Senza titolo e Il paese perduto, presentati in quello stesso anno dapprima a Udine nella personale presso lo studio dell’autore e subito dopo a Pordenone, raccontavano ancora un tema locale. Alludevano infatti al paese, e credo anche alle falesie, di Anduins, nella Val d’Arzino. Ma la risoluzione era ben più coraggiosamente sperimentale. Metteva insieme qualcosa del Tàpies che tanto successo aveva ottenuto alla Biennale del 1958 e non poco naturalmente degli ultimi lavori di Afro. «Scritture» corsive e tasselli di colore incastonati rendevano ancora più elementare la relazione tra figura e fondo.
Il lavoro si protrasse per circa un anno, e preluse all’invito alla Biennale del 1964, alla quale Ciussi partecipò con cinque opere selezionate da un critico coetaneo, curioso e d’impeccabile formazione, primo allievo di Argan, Maurizio Calvesi.
Quelle opere sconcertano, a guardare oggi indietro: sono ormai superfici di estrema economia formale. Il problema aveva una soluzione. Il divario poteva essere colmato. I tempi furono quelli, straordinariamente brevi, possibili a quel tempo. Credo che da queste parti ne rimasero sorpresi un po’ tutti, e forse anche lo stesso Furlan.
CENNI BIOGRAFICI
Carlo Ciussi (1930-2012)
Nato a Udine nel 1930, tra il 1945 e il 1949 frequenta a Venezia il liceo artistico, entrando in contatto con artisti quali Vedova, Giuseppe Santomaso e Armando Pizzinato, che nel 1946 avevano aderito al Fronte Nuovo delle Arti insieme con il critico Giuseppe Marchiori.
Negli anni successivi il lavoro presso la tipografia paterna non gli impedisce di continuare a dedicarsi alla pittura e di partecipare a vari concorsi, ricevendo i primi riconoscimenti. In concomitanza con i premi di pittura organizzati dalla Pro Pordenone nella città del Noncello, a partire dal 1952 nacque e si consolidò l’amicizia con Ado e Italo Furlan, che ospitarono spesso sue mostre presso la galleria «Il Camino», aperta nel luglio del 1957.
Tra il 1960 e il 1963, i rinnovati rapporti con Santomaso e Afro Basaldella, imprimono alla sua pittura una rapida accelerazione, che comportò il passaggio dal neocubismo dei primi dipinti alle esperienze di carattere informale che preludono al suo invito alla XXXII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia. In quello stesso 1964, grazie a un contratto con la galleria Stendhal fondata nel frattempo a Milano dall’amico Furlan in collaborazione con il marchigiano Ermanno Mori, apre uno studio nella città ambrosiana, dove conosce l’avvocato e collezionista Carlo Invernizzi, con il quale instaurerà un importante e duraturo legame.
Lungi dal configurarsi come un approdo definitivo, le opere materiche con cui si era presentato alla Biennale di Venezia costituiscono a loro volta la premessa della successiva svolta dapprima in direzione segnica e quindi geometrica che, con ulteriori passaggi dal motivo del cerchio alle campiture orizzontali, contraddistingue la sua produzione tra lo scorcio degli anni Sessanta e la fine del decennio successivo.
In questo periodo, oltre a Giuseppe Marchiori, scrivono di lui i principali critici italiani e stranieri del Novecento, da Gillo Dorfles a Carlo Giulio Argan, da Michel Seuphor a Charles Spencer e Lara Vinca Masini.
Tra le numerose mostre personali e collettive cui partecipa, particolarmente significative sono quelle presso le gallerie di Paul Facchetti a Parigi e Zurigo (1967, 1971), la presenza alla IX Biennale di San Paolo del Brasile (1967) e la prima mostra antologica ospitata in palazzo Torriani a Gradisca d’Isonzo (1974). Nel frattempo il rapporto con alcuni architetti attivi tra Udine, Pordenone e Milano, sfocia in impegnative imprese decorative di carattere pubblico e privato.
La principale novità degli anni Ottanta è costituita dall’approdo di Ciussi alla scultura sia di piccolo formato sia di scala monumentale. Sul versante pittorico la sua produzione si caratterizza invece per un’ulteriore riflessione sul segno e sulla traccia, che proseguirà anche negli anni Novanta, mentre dal Duemila in avanti si registrerà il ritorno a una ricerca focalizzata sulla geometria e sulla forma intesa come «luogo» del colore.
Nell’impossibilità di seguire in dettaglio l’intensa attività e le relazioni intrattenute dall’artista nella parte centrale e nell’ultimo decennio della sua vita, conclusasi a Udine nell’aprile del 2012, meritano di essere ricordate l’amicizia con l’architetto Gino Valle e il collezionista milanese Carlo Jucker, la sua partecipazione a varie mostre in Italia (Udine, Vignate, Trieste, Milano, Mantova, Orvieto ecc.) e all’estero (Esslingen, Lubiana, Aschaffenburg, Klagenfurt), nonché il suo rapporto privilegiato con la galleria A arte Studio Invernizzi, erede e testimone di un’avventura durata tutta la vita, durante la quale Ciussi ha avuto come insostituibile punto di riferimento e compagna la moglie Lina.
Italo Furlan (1933-2014)
Nato a Pordenone, compì gli studi liceali al collegio don Bosco e quelli musicali sotto la guida della pianista Pia Tallon Baschiera. Tra il 1952 e il 1956 ricoprì il ruolo di segretario dei premi di pittura istituiti dalla «Pro Pordenone» e in tale circostanza conobbe il pittore Carlo Ciussi, di solo qualche anno più vecchio di lui.
Nel 1957, poco dopo aver conseguito la laurea in Lettere moderne presso l’Università di Padova, dette vita con il padre, lo scultore Ado, alla prima galleria d’arte privata attiva nel Pordenonese. A «Il Camino» – tale era il nome della galleria suggerito da un caminetto effettivamente esistente in uno degli ambienti che la componevano, ma allusivo anche al «sacro fuoco dell’arte» – furono spesso ospitate, accanto a mostre di affermati maestri italiani e stranieri del Novecento, anche quelle di giovani artisti, come per l’appunto Ciussi.
Tuttavia, insofferente alla vita di provincia e desideroso di compiere nuove esperienze, nei primi anni Sessanta decise di trasferirsi a Milano dove, insieme con l’amico Ermanno Mori, nel 1962 fondò una galleria d’arte intitolata a Stendhal, che nel giro di breve tempo riuscì a conquistare un proprio spazio nel non facile ambiente milanese. Tra l’altro fu grazie a un contratto offertogli dalla Stendhal se Ciussi nel 1964 poté a sua volta aprire uno studio in piazza Sant’Alessandro.
La permanenza nel capoluogo lombardo, protrattasi per oltre un decennio, non gli impedì di continuare a dedicarsi alla carriera universitaria presso l’ateneo patavino dapprima come assistente alla cattedra di Archeologia cristiana, quindi come libero docente in Storia dell’arte medievale e moderna e infine quale professore associato di Storia dell’arte bizantina, materia di cui continuò a occuparsi fino alla morte.
A partire dalla fine degli anni Settanta, prese parte a diverse missioni nei monasteri del Monte Athos e in Siria. Tra le sue numerose pubblicazioni, le più significative riguardano i codici greci della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e in particolare i Cynegetica di Oppiano, resi disponibili nella traduzione dell’insigne filologo Filippo Maria Pontani.
L’immersione nell’arte del passato non fu mai in conflitto con il suo interesse per l’arte contemporanea, cui di dedicò sia in veste di collezionista sia in quella di promotore di iniziative artistiche. Infatti, nel 1992 aveva dato vita a un’associazione culturale che nel 2003 si sarebbe trasformata nella Fondazione Ado Furlan, della quale egli fu il principale promotore e primo presidente.
I rapporti con Ciussi, mai interrotti sebbene nel corso degli anni avessero finito per assumere un andamento «carsico», ripresero con rinnovato impulso verso la fine del Novecento, come confermano le due mostre di dipinti storici ospitate negli spazi espositivi di via Mazzini tra il 1999 e il 2001 e quella di opere recenti, organizzata dalla Fondazione Furlan in palazzo Tadea a Spilimbergo nel 2006.
Nel 2013, a dispetto delle precarie condizioni di salute, aveva compiuto un avventuroso viaggio in Cina, invitato da un gruppo di artisti cinesi che aveva presentato alla Biennale di Venezia di quello stesso anno. Al momento della morte, avvenuta a Padova nel gennaio del 2014, aveva accanto al letto un volume su Antonello di Messina, mentre a chi gli aveva fatto visita nei giorni precedenti aveva parlato dei suoi studi in corso e dei progetti che aveva in animo per il futuro.
05
maggio 2018
Carlo Ciussi & Italo Furlan (1952-1964)
Dal 05 maggio al 16 giugno 2018
arte contemporanea
Location
FONDAZIONE ADO FURLAN
Pordenone, Via Giuseppe Mazzini, 49, (Pordenone)
Pordenone, Via Giuseppe Mazzini, 49, (Pordenone)
Orario di apertura
Martedì-sabato 17.00-19.30
Vernissage
5 Maggio 2018, ore 11.30
Autore
Curatore