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Carlo Dell’Amico – L’universo dell’opera
Il tema dominante dell’esposizione nelle istallazioni di gabbie d’acciaio con al centro radici tenute in sospensione da fili o tiranti metallici, sembra vivere un particolare rapporto osmotico con queste allegorie dell’esistenza e più che in chiave divinatoria vengono rilette come un mondo eroico, che ha fondamenta nella vita inconscia dell’uomo, ricercatore instancabile delle “parole dei misteri” e con l’aspetto germinale di questa ricerca
Comunicato stampa
Segnala l'evento
L'Universo dell'opera
Carlo Dell'Amico
Palazzo Schifanoia
Ferrara
23 marzo - 20 maggio 2012
Inaugurazione 23 marzo ore 18.30
Palazzo Schifanoia nelle sale delle collezioni civiche e all’interno del Salone dei Mesi ospita la
mostra personale di Carlo Dell’Amico.
Il tema dominante dell’esposizione nelle istallazioni di gabbie d’acciaio con al centro radici tenute
in sospensione da fili o tiranti metallici, sembra vivere un particolare rapporto osmotico con queste
allegorie dell’esistenza e più che in chiave divinatoria vengono rilette come un mondo eroico, che
ha fondamenta nella vita inconscia dell’uomo, ricercatore instancabile delle “parole dei misteri” e
con l’aspetto germinale di questa ricerca.
Le opere dell’artista sono disposte, come detto, all’interno delle collezioni civiche d’arte e
archeologia, dove il creato ricreato e tutto l’ “arcobaleno” di “colori vibranti” che è in noi procede nel
flusso luminoso.
Dell’Amico, le cui installazioni sostenute da invisibili geometrie, talvolta inscritte nella griglia
nascente dal palindromo del SATOR, segmenti riconducibili alla divina proporzione, sfera
anch’essa di un modo per comprendere le corrispondenze celesti, usa i complessi segni naturali,
radici capovolte o contrapposte e taglia queste all’altezza del pleroma, termine dal duplice
significato, apice delle stesse e pienezza dell’essere, limite o soglia della coscienza tra superiore
e inferiore. Le opere dell’artista contrapposte alle rappresentazioni dell’ “officina” ferrarese del ‘400
indipendentemente dalle finalità storiche, propagandistiche in esse contenute, creano un vuoto
nello spazio che le separa dove non esistono forme, spazio di quell’osmosi dove solo procede un
flusso indescrivibile luminoso.
Per la mostra
Carlo Dell’Amico ha realizzato un Libro d’artista stampato in serie limitata, in bicromia blu/nero
come luce lunare, oltre ad interventi successivi. “Plenilunio” parola iniziale del libro, ci introduce in
questo “percorso” notturno della vita, in cui ogni immagine è frammento del tutto e intercambiabile,
dove tutto è proiettato nell’infinità. Contiene lavori in itinere e di anni precedenti, le fasi progettuali
come consuetudine dell’artista, anche in questo caso assumono una propria autonomia.
Il libro d’artista è accompagnato da un testo di Angelo Andreotti, in alcune pagine Dell’Amico ha
scelto di inserire frammenti di scritti: Henry Corbin, L’immagine del tempio, Annie Besant, Il potere
del pensiero, Eliphas Levi, Il rituale dell’alta magia.
L’artista crea delle pagine prendendo ogni singola rappresentazione dei Mesi trasformandola
e distorcendola in un semicerchio, essendo diviso ogni affresco in tre parti (quello delle attività
umane in basso, i segni zodiacali al centro, e il trionfo della parte divina in alto) ne consegue che
si costituirà una “visione” centrifuga. Dalla vita umana o di corte che in questo caso è posta al
centro e le successive fasi all’esterno del cerchio verso quell’ineffabile infinità. Dell’Amico usa
le raffigurazioni dei sette Mesi ancora intatti, ma anche per uno specifico di questo numero, per
elaborare il suo intervento e applica nel libro d’artista la crescita di quell’albero sradicato fino
a raggiungere nel suo capovolgimento lo spazio di quella luce indescrivibile. Con le due radici
contrapposte, mostra due punti di vista diversi e complementari, se si guarda dal basso o dall’alto,
significa porsi dal punto di vista della manifestazione oppure da quello del principio.
Un piano di “riflessione” cioè un immagine rovesciata per analogia quindi se supponiamo
quest’albero elevato al di sopra di quelle acque celesti, quello che vediamo è la sua immagine
rovesciata con radici in alto e rami in basso.
Call center: Ferrara Mostrae Musei 0532.244949
Ufficio stampa: Samanta Retini tel. 333-9399810
solubile.opera@live.com
Biografia:
Carlo Dell’Amico nasce a Perugia nel 1954.
La sua prima opera riprodotta che si conosca del 1970 è una composizione separata al centro da
un orizzonte, al di sotto della quale c’è un ingresso, una porta nera che introduce nel “sottosuolo”
ed emerge da uno stato gassoso. Nella parte superiore scandita da “spazi vuoti”, ci sono tre “alberi
o fantasmi” su piani differenti e due emisferi: uno più luminoso, mentre il secondo di colore intenso
è incastonato sulla linea di confine tra superiore ed inferiore. Tre i colori usati: rosso, bianco e
nero. Questi vari elementi sono parte di un “simbolo inconscio” al quale l’artista farà riferimento
ciclicamente, in quanto la moltitudine di segni, le stratificazioni e quei sistemi narrativi multiformi
caratterizzano le sue opere, veicolando la mente all’interno di un processo conoscitivo e nelle
diverse aree dell’attività umana in cui lo spazio e il tempo non sono percepiti come categorie
statiche.
Il suo lavoro oscilla tra situazioni reali e una fuga a ritroso sempre in bilico sulle intersezioni di
una griglia tra il reale e il possibile, l’artista nelle prime opere isola gli “strumenti” di pietra (1973-
74) attraverso gli utensili, i simulacri, i frammenti archeologici e le madri di pietra, questi narrano
la storia umana, capaci di evocare ogni altra opera possibile, ricomponendoli nell’insieme di un
quadro definito dai suoi stessi elementi, in pagine dall’aspetto aggettante nella finzione trompe
l’oeil. Questi monoliti disposti, come nomadi spore o dispersione di membra nello spazio per una
nuova lettura, ruotano dentro un mondo magico e rituale dimenticato, problematica implicitamente
presente sull’interrelazione esistenziale fra l’individuo e la totalità.
Le caratteristiche peculiari in alcune opere di questo periodo sono la riproposizione di soggetti,
che nella diversificazione della rappresentazione culturale trasudano eternità, e la citazione ante
litteram che non ha carattere esclusivamente stilistico, ma è propedeutica all’ampiezza del campo
visivo, nonché strumento di indagine interiore. Ne sono esempio i Cavalli alati di Tarquinia esposti
nella “giovane” personale del 1974 di Palazzo dei Priori a Perugia, l’Apollo di Veio, i coniugi del
banchetto eterno di Cerveteri e la Mater matuta di Chianciano.
Dell’Amico rappresenta uno dei possibili aspetti, mediante questo “scavo” di autoanalisi del
ricercatore di memoria e di sintesi, verso la percezione delle “radici”. Quest’idea di misura trova
nella narrazione e nell’opera attuale dell’artista il dispiegarsi di un tema: tornare ciclicamente a
scrutare l’imponderabile destino dell’umanità.
La complessità di fronte alla quale ci si viene a trovare, pone il suo lavoro sulla via disseminata
del frammento, in una continua, vigile, immutabile attitudine a riformulare ogni volta la possibile
proposta, sulla base di un’analisi dell’esistente. Di conseguenza la sua opera è un instabile
equilibrio in continuo mutamento, passando da una realtà ad un’altra, e al contempo esercitando
un rigore nel rendere manifeste le condizioni e i valori antropologici dell’estetico.
Dalla seconda metà degli anni Settanta lo sconfinamento nella tradizione, non in quanto
formalismo, bensì nel significato di accettare la condizione storica umana, si condensa in
un corpus di stratificazioni come “codice” da decostruire: creando cortocircuiti linguistici tra
strutture archetipe sepolte dentro di noi e le cose racchiuse nel perimetro del quotidiano. L’artista
manifesta così – dal 1978 al 1981 – la possibilità di una cultura arcaica, ovvero l’espressione di
un rituale quasi mistico nel contesto dell’immaginario mitologico delle sue opere, come necessità
contemporanee immutate, e ipotizza l’opportunità di una coincidenza sull’orma dell’uomo presente.
Le cause geometriche, sostrato della “realtà” percepibile-rappresentabile, sono presenti nelle
opere di Dell’Amico dalla prima metà degli anni ‘80, velate da soluzioni formali diverse.
La scomposizione delle parti architettoniche ipogee etrusche, ricostruite con tele estroflesse e
dipinte con materie terrose, avanzando nell’analisi del “sotterraneo” in relazione allo “spazio”,
costituiscono l’installazione alla Galleria Asselijn di Amsterdam nel 1987.
Le quattro stanze ipogee racchiuse in una forma esagonale (eseguite nel 1988, che l’artista
chiamerà “corpo”, l’esade espressione del ruolo del Verbo nella natura) danno luogo ad uno spazio
solcato da “strade” aperte, ramificate e intercambiabili, scaturisce così una relazione dialettica tra
la minimale unità binaria e lo spazio siderale, entro una ricerca che intende cogliere ancora una
volta, l’enigmatico e comunque esistente “corto circuito” delle coordinate spazio-temporali. Con
questi lavori l’artista allestisce due personali all’Istituto Cini di Ferrara e ai Laboratori Materiali
Immagini a Perugia nel 1988.
Dell’Amico conferma il suo interrogarsi sui temi connessi al fluire del Tempo, quali l’addensarsi e
il dissolversi dei fenomeni, in un ritmo esistenziale che si vorrebbe poter contemplare dall’esterno
nella sua interezza, ma che può viceversa trasmettere una sensazione di sostanziale enigmaticità
e inafferrabilità. Il mondo simbolico attraverso cui l’artista ricompone il viatico è fatto di essenze
luminose staccate dalle cose che divengono, ed è anche una visione circa il caos come principio
originario.
In Traccia Corporea (1988, Palazzo Ducale, Gubbio) un fascio di luce proiettato apre il percorso
della mostra, questa luce staglia la sagoma di una porta sulla parete il cui perimetro è delineato
da polvere di carbone, è un riposo nel grembo generatore di luce, è l’opera che si modifica in
complessità stratificata di esperienze.
Dell’Amico trasforma le sue opere in un complesso universo, nel quale la presenza ricorrente di
frammenti concorrono alla ricerca di quel senso vitale, originario, nascosto nei reperti di cui ci
parla. Sulle tracce primordiali e fino alla condizione attuale, tenendo conto che tutto ciò che è del
presente non può ritenersi esclusivamente contemporaneo, l’artista ha sempre elaborato lo spazio
di una linea di confine con il dicibile ricorrendo alle forme espressive più diverse, in una grande
libertà tecnica e creativa, e attraverso la manipolazione dei segni ricompone l’immagine nella
disintegrazione temporale.
In Mimarea ad Artissima di Torino, nel 1997, l’artista organizza la scena con l’uso di un mimo, i cui
gesti silenziosi visualizzano segni alla memoria, con l’obiettivo di cogliere gli stretti legami che si
creano tra la forma e l’espressione culturale, una realtà pre-iconica che muta il senso dello spazio
in modo assolutamente statico. L’attore di strada è seduto davanti alle opere dell’artista con una
griglia di barre orizzontali che tiene davanti al volto, la scena viene percepita come uno schermo
che separa l’esteriore dall’interiore: sarà l’osservatore a trasformare questa simulazione nel luogo
della visione totale.
Dal 2000 i mezzi espressivi tradizionali, traslati in altri linguaggi mediali, contaminano e fondono
opera e ambiente. L’artista elabora la frammentazione e la decostruzione di segni minimali
desunti dalla quotidianità e dalle loro riproduzioni, contraddistinti da un’intrinseca dinamicità, in
cui il magma segnico che ne deriva sembra animarsi in uno spazio indistinto nel caos totale, non
riuscendo più a ricomporsi in cose specifiche, potremmo dire ciò che non ha forma, un altro modo
di essere.
Nella mostra personale Zerovirgolatreperiodico di Palazzo Massari (Ferrara 2003), i lavori così
costituiti saranno capaci di alludere alle più stranianti lontananze, al punto di poter giustificare
pienamente la loro assimilazione al pulviscolo cosmico (come nelle opere Polvere, 2003); in questi
collage di “segni” fluttuanti si ravvisa la metamorfosi di quella frammentazione che è all’origine del
suo lavoro, mentre l’impossibilità di una visione organica ci parla delle nostre “origini” divenute
marginali.
Nel 2005 l’artista realizza un’opera composta da due radici contrapposte, un contrasto tra “alto-
basso”, una radice di una rosa e l’altra di un bonsai di olmo, per rendere percettibili le proporzioni
sullo stesso piano di grandezza. E’ allusivo l’uso di questi due elementi naturali che l’artista
utilizzerà in varie soluzioni formali.
All’interno di uno sviluppo senza fine sono le mappe di città “zenitali” frammentate e ricomposte in
modo non identificabile, del 2005, ma in fondo lo erano anche gli scavi archeologici visti dall’alto
del 1985: venti anni separano queste analoghe visioni. Le città realizzate con carta sbalzata, sulle
quali l’artista ha impresso la sagoma nera di radici capovolte, possiedono un timbro segnico con
forte connotazione tecnologica, ma allo stesso tempo non riusciamo ad identificarla come tale:
rimane sempre confinata al ruolo percettivo della memoria.
Sui plexiglas che rivestono alcune parti di questi lavori, Dell’Amico proietta scritte luminose,
quali “L’esperienza di un’architettura assente”, che alludono al superamento di una dimensione
corporale, e frammenti di frasi tratte da manuali di architettura, (Straniati Reperti 2006 Scuderie
Aldobrandini, Frascati).
Nel 2006, al Museo Laboratorio dell’Università La Sapienza di Roma, riveste la parete curva dello
spazio espositivo con carte estroflesse che riproducono la pianta della città, sulla quale sono state
impresse delle grandi stelle nere di geometrie diverse. Su questo sfondo un mimo coinvolgeva
il pubblico femminile offrendo una torta al cioccolato, che raggiunge nel silenzio dei suoi gesti il
riposo del tempo innescando il meccanismo processuale dell’happening.
Il magmatismo segnico tra simulacri e immagine reale da sempre caratterizza il lavoro dell’artista,
mentre l’ambivalenza tra superficie e sommerso rivela l’enigmatica staticità dei simboli, che
trascendono la parola subordinata a una specie di soggiacente necessità “architettonica”.
Nell’arco del suo operato l’artista ha manifestato il desiderio di adattare le sue opere, ricreare lo
spazio del suo lavoro in luoghi o circostanze atte a garantire un maggior isolamento, inteso come
dilatazione della condizione temporale.
Quel “silenzio” (o vibrazioni impercettibili all’udito) e quella “luce” (che non è accecante),
costituiscono la base per le riflessioni nei suoi recenti lavori.
Il 20 maggio del 2008 alle ore 22.00 proietta la sagoma di un albero con le radici rivolte in alto
sulla facciata della Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi: si tratta di quel piccolo bonsai
che restituisce la sagoma di un albero reale. L’utilizzo di questa miniaturizzazione del vegetale
permette all’artista di evocare la metafora microcosmo-macrocosmo. I colori della videoproiezione,
mutando in dissolvenza, trasformano la scena in una performance teatrale, mentre la radice
impressa “nella pietra”, attraverso la proiezione luminosa, indica la localizzazione energetica
nell’essere umano nell’unione di “tempo e materia”.
La mostra personale del 2009 (Riportati alla luce lentamente a Palazzo Taverna di Roma) è
costituita dalla ricostruzione di una “Stonehenge”, in cui l’artista sostituisce ai monoliti prismi di
plexiglas con all’interno radici capovolte di colore azzurro, sovrastate da una cerchia di neon
fluorescenti blu, la cui luce trasforma la visione degli interni in una notte di luna piena.
All’interno di questa istallazione sono rivisitati precedenti lavori con funzioni differenti, riproposti in
modo inedito: una parte delle architetture del 1988, in questo caso rivestita di specchi e acciaio, è
usata come modulo con cui compone una grande stella di David.
Le radici senza voce liberate dal tempo e dalla materia, capovolte e racchiuse in queste porzioni
di vuoto all’interno delle teche, unitamente al titolo della mostra rinviano a quei processi attraverso
i quali ci eleviamo fino alla cima della pura spiritualità; quelle che l’artista usa, sono divelte
dall’uomo, disseccate dal tempo che vengono recise all’altezza del pleroma.
Tra il 2009 e il 2010 realizza l’installazione nel complesso museale di Montone, Eadem mutata
resurgo, dove l’artista dispone su una griglia metallica riproducente la progressione della sezione
aurea, una serie di radici in rapporto alla scena della Deposizione lignea duecentesca.
Carlo Dell'Amico
Palazzo Schifanoia
Ferrara
23 marzo - 20 maggio 2012
Inaugurazione 23 marzo ore 18.30
Palazzo Schifanoia nelle sale delle collezioni civiche e all’interno del Salone dei Mesi ospita la
mostra personale di Carlo Dell’Amico.
Il tema dominante dell’esposizione nelle istallazioni di gabbie d’acciaio con al centro radici tenute
in sospensione da fili o tiranti metallici, sembra vivere un particolare rapporto osmotico con queste
allegorie dell’esistenza e più che in chiave divinatoria vengono rilette come un mondo eroico, che
ha fondamenta nella vita inconscia dell’uomo, ricercatore instancabile delle “parole dei misteri” e
con l’aspetto germinale di questa ricerca.
Le opere dell’artista sono disposte, come detto, all’interno delle collezioni civiche d’arte e
archeologia, dove il creato ricreato e tutto l’ “arcobaleno” di “colori vibranti” che è in noi procede nel
flusso luminoso.
Dell’Amico, le cui installazioni sostenute da invisibili geometrie, talvolta inscritte nella griglia
nascente dal palindromo del SATOR, segmenti riconducibili alla divina proporzione, sfera
anch’essa di un modo per comprendere le corrispondenze celesti, usa i complessi segni naturali,
radici capovolte o contrapposte e taglia queste all’altezza del pleroma, termine dal duplice
significato, apice delle stesse e pienezza dell’essere, limite o soglia della coscienza tra superiore
e inferiore. Le opere dell’artista contrapposte alle rappresentazioni dell’ “officina” ferrarese del ‘400
indipendentemente dalle finalità storiche, propagandistiche in esse contenute, creano un vuoto
nello spazio che le separa dove non esistono forme, spazio di quell’osmosi dove solo procede un
flusso indescrivibile luminoso.
Per la mostra
Carlo Dell’Amico ha realizzato un Libro d’artista stampato in serie limitata, in bicromia blu/nero
come luce lunare, oltre ad interventi successivi. “Plenilunio” parola iniziale del libro, ci introduce in
questo “percorso” notturno della vita, in cui ogni immagine è frammento del tutto e intercambiabile,
dove tutto è proiettato nell’infinità. Contiene lavori in itinere e di anni precedenti, le fasi progettuali
come consuetudine dell’artista, anche in questo caso assumono una propria autonomia.
Il libro d’artista è accompagnato da un testo di Angelo Andreotti, in alcune pagine Dell’Amico ha
scelto di inserire frammenti di scritti: Henry Corbin, L’immagine del tempio, Annie Besant, Il potere
del pensiero, Eliphas Levi, Il rituale dell’alta magia.
L’artista crea delle pagine prendendo ogni singola rappresentazione dei Mesi trasformandola
e distorcendola in un semicerchio, essendo diviso ogni affresco in tre parti (quello delle attività
umane in basso, i segni zodiacali al centro, e il trionfo della parte divina in alto) ne consegue che
si costituirà una “visione” centrifuga. Dalla vita umana o di corte che in questo caso è posta al
centro e le successive fasi all’esterno del cerchio verso quell’ineffabile infinità. Dell’Amico usa
le raffigurazioni dei sette Mesi ancora intatti, ma anche per uno specifico di questo numero, per
elaborare il suo intervento e applica nel libro d’artista la crescita di quell’albero sradicato fino
a raggiungere nel suo capovolgimento lo spazio di quella luce indescrivibile. Con le due radici
contrapposte, mostra due punti di vista diversi e complementari, se si guarda dal basso o dall’alto,
significa porsi dal punto di vista della manifestazione oppure da quello del principio.
Un piano di “riflessione” cioè un immagine rovesciata per analogia quindi se supponiamo
quest’albero elevato al di sopra di quelle acque celesti, quello che vediamo è la sua immagine
rovesciata con radici in alto e rami in basso.
Call center: Ferrara Mostrae Musei 0532.244949
Ufficio stampa: Samanta Retini tel. 333-9399810
solubile.opera@live.com
Biografia:
Carlo Dell’Amico nasce a Perugia nel 1954.
La sua prima opera riprodotta che si conosca del 1970 è una composizione separata al centro da
un orizzonte, al di sotto della quale c’è un ingresso, una porta nera che introduce nel “sottosuolo”
ed emerge da uno stato gassoso. Nella parte superiore scandita da “spazi vuoti”, ci sono tre “alberi
o fantasmi” su piani differenti e due emisferi: uno più luminoso, mentre il secondo di colore intenso
è incastonato sulla linea di confine tra superiore ed inferiore. Tre i colori usati: rosso, bianco e
nero. Questi vari elementi sono parte di un “simbolo inconscio” al quale l’artista farà riferimento
ciclicamente, in quanto la moltitudine di segni, le stratificazioni e quei sistemi narrativi multiformi
caratterizzano le sue opere, veicolando la mente all’interno di un processo conoscitivo e nelle
diverse aree dell’attività umana in cui lo spazio e il tempo non sono percepiti come categorie
statiche.
Il suo lavoro oscilla tra situazioni reali e una fuga a ritroso sempre in bilico sulle intersezioni di
una griglia tra il reale e il possibile, l’artista nelle prime opere isola gli “strumenti” di pietra (1973-
74) attraverso gli utensili, i simulacri, i frammenti archeologici e le madri di pietra, questi narrano
la storia umana, capaci di evocare ogni altra opera possibile, ricomponendoli nell’insieme di un
quadro definito dai suoi stessi elementi, in pagine dall’aspetto aggettante nella finzione trompe
l’oeil. Questi monoliti disposti, come nomadi spore o dispersione di membra nello spazio per una
nuova lettura, ruotano dentro un mondo magico e rituale dimenticato, problematica implicitamente
presente sull’interrelazione esistenziale fra l’individuo e la totalità.
Le caratteristiche peculiari in alcune opere di questo periodo sono la riproposizione di soggetti,
che nella diversificazione della rappresentazione culturale trasudano eternità, e la citazione ante
litteram che non ha carattere esclusivamente stilistico, ma è propedeutica all’ampiezza del campo
visivo, nonché strumento di indagine interiore. Ne sono esempio i Cavalli alati di Tarquinia esposti
nella “giovane” personale del 1974 di Palazzo dei Priori a Perugia, l’Apollo di Veio, i coniugi del
banchetto eterno di Cerveteri e la Mater matuta di Chianciano.
Dell’Amico rappresenta uno dei possibili aspetti, mediante questo “scavo” di autoanalisi del
ricercatore di memoria e di sintesi, verso la percezione delle “radici”. Quest’idea di misura trova
nella narrazione e nell’opera attuale dell’artista il dispiegarsi di un tema: tornare ciclicamente a
scrutare l’imponderabile destino dell’umanità.
La complessità di fronte alla quale ci si viene a trovare, pone il suo lavoro sulla via disseminata
del frammento, in una continua, vigile, immutabile attitudine a riformulare ogni volta la possibile
proposta, sulla base di un’analisi dell’esistente. Di conseguenza la sua opera è un instabile
equilibrio in continuo mutamento, passando da una realtà ad un’altra, e al contempo esercitando
un rigore nel rendere manifeste le condizioni e i valori antropologici dell’estetico.
Dalla seconda metà degli anni Settanta lo sconfinamento nella tradizione, non in quanto
formalismo, bensì nel significato di accettare la condizione storica umana, si condensa in
un corpus di stratificazioni come “codice” da decostruire: creando cortocircuiti linguistici tra
strutture archetipe sepolte dentro di noi e le cose racchiuse nel perimetro del quotidiano. L’artista
manifesta così – dal 1978 al 1981 – la possibilità di una cultura arcaica, ovvero l’espressione di
un rituale quasi mistico nel contesto dell’immaginario mitologico delle sue opere, come necessità
contemporanee immutate, e ipotizza l’opportunità di una coincidenza sull’orma dell’uomo presente.
Le cause geometriche, sostrato della “realtà” percepibile-rappresentabile, sono presenti nelle
opere di Dell’Amico dalla prima metà degli anni ‘80, velate da soluzioni formali diverse.
La scomposizione delle parti architettoniche ipogee etrusche, ricostruite con tele estroflesse e
dipinte con materie terrose, avanzando nell’analisi del “sotterraneo” in relazione allo “spazio”,
costituiscono l’installazione alla Galleria Asselijn di Amsterdam nel 1987.
Le quattro stanze ipogee racchiuse in una forma esagonale (eseguite nel 1988, che l’artista
chiamerà “corpo”, l’esade espressione del ruolo del Verbo nella natura) danno luogo ad uno spazio
solcato da “strade” aperte, ramificate e intercambiabili, scaturisce così una relazione dialettica tra
la minimale unità binaria e lo spazio siderale, entro una ricerca che intende cogliere ancora una
volta, l’enigmatico e comunque esistente “corto circuito” delle coordinate spazio-temporali. Con
questi lavori l’artista allestisce due personali all’Istituto Cini di Ferrara e ai Laboratori Materiali
Immagini a Perugia nel 1988.
Dell’Amico conferma il suo interrogarsi sui temi connessi al fluire del Tempo, quali l’addensarsi e
il dissolversi dei fenomeni, in un ritmo esistenziale che si vorrebbe poter contemplare dall’esterno
nella sua interezza, ma che può viceversa trasmettere una sensazione di sostanziale enigmaticità
e inafferrabilità. Il mondo simbolico attraverso cui l’artista ricompone il viatico è fatto di essenze
luminose staccate dalle cose che divengono, ed è anche una visione circa il caos come principio
originario.
In Traccia Corporea (1988, Palazzo Ducale, Gubbio) un fascio di luce proiettato apre il percorso
della mostra, questa luce staglia la sagoma di una porta sulla parete il cui perimetro è delineato
da polvere di carbone, è un riposo nel grembo generatore di luce, è l’opera che si modifica in
complessità stratificata di esperienze.
Dell’Amico trasforma le sue opere in un complesso universo, nel quale la presenza ricorrente di
frammenti concorrono alla ricerca di quel senso vitale, originario, nascosto nei reperti di cui ci
parla. Sulle tracce primordiali e fino alla condizione attuale, tenendo conto che tutto ciò che è del
presente non può ritenersi esclusivamente contemporaneo, l’artista ha sempre elaborato lo spazio
di una linea di confine con il dicibile ricorrendo alle forme espressive più diverse, in una grande
libertà tecnica e creativa, e attraverso la manipolazione dei segni ricompone l’immagine nella
disintegrazione temporale.
In Mimarea ad Artissima di Torino, nel 1997, l’artista organizza la scena con l’uso di un mimo, i cui
gesti silenziosi visualizzano segni alla memoria, con l’obiettivo di cogliere gli stretti legami che si
creano tra la forma e l’espressione culturale, una realtà pre-iconica che muta il senso dello spazio
in modo assolutamente statico. L’attore di strada è seduto davanti alle opere dell’artista con una
griglia di barre orizzontali che tiene davanti al volto, la scena viene percepita come uno schermo
che separa l’esteriore dall’interiore: sarà l’osservatore a trasformare questa simulazione nel luogo
della visione totale.
Dal 2000 i mezzi espressivi tradizionali, traslati in altri linguaggi mediali, contaminano e fondono
opera e ambiente. L’artista elabora la frammentazione e la decostruzione di segni minimali
desunti dalla quotidianità e dalle loro riproduzioni, contraddistinti da un’intrinseca dinamicità, in
cui il magma segnico che ne deriva sembra animarsi in uno spazio indistinto nel caos totale, non
riuscendo più a ricomporsi in cose specifiche, potremmo dire ciò che non ha forma, un altro modo
di essere.
Nella mostra personale Zerovirgolatreperiodico di Palazzo Massari (Ferrara 2003), i lavori così
costituiti saranno capaci di alludere alle più stranianti lontananze, al punto di poter giustificare
pienamente la loro assimilazione al pulviscolo cosmico (come nelle opere Polvere, 2003); in questi
collage di “segni” fluttuanti si ravvisa la metamorfosi di quella frammentazione che è all’origine del
suo lavoro, mentre l’impossibilità di una visione organica ci parla delle nostre “origini” divenute
marginali.
Nel 2005 l’artista realizza un’opera composta da due radici contrapposte, un contrasto tra “alto-
basso”, una radice di una rosa e l’altra di un bonsai di olmo, per rendere percettibili le proporzioni
sullo stesso piano di grandezza. E’ allusivo l’uso di questi due elementi naturali che l’artista
utilizzerà in varie soluzioni formali.
All’interno di uno sviluppo senza fine sono le mappe di città “zenitali” frammentate e ricomposte in
modo non identificabile, del 2005, ma in fondo lo erano anche gli scavi archeologici visti dall’alto
del 1985: venti anni separano queste analoghe visioni. Le città realizzate con carta sbalzata, sulle
quali l’artista ha impresso la sagoma nera di radici capovolte, possiedono un timbro segnico con
forte connotazione tecnologica, ma allo stesso tempo non riusciamo ad identificarla come tale:
rimane sempre confinata al ruolo percettivo della memoria.
Sui plexiglas che rivestono alcune parti di questi lavori, Dell’Amico proietta scritte luminose,
quali “L’esperienza di un’architettura assente”, che alludono al superamento di una dimensione
corporale, e frammenti di frasi tratte da manuali di architettura, (Straniati Reperti 2006 Scuderie
Aldobrandini, Frascati).
Nel 2006, al Museo Laboratorio dell’Università La Sapienza di Roma, riveste la parete curva dello
spazio espositivo con carte estroflesse che riproducono la pianta della città, sulla quale sono state
impresse delle grandi stelle nere di geometrie diverse. Su questo sfondo un mimo coinvolgeva
il pubblico femminile offrendo una torta al cioccolato, che raggiunge nel silenzio dei suoi gesti il
riposo del tempo innescando il meccanismo processuale dell’happening.
Il magmatismo segnico tra simulacri e immagine reale da sempre caratterizza il lavoro dell’artista,
mentre l’ambivalenza tra superficie e sommerso rivela l’enigmatica staticità dei simboli, che
trascendono la parola subordinata a una specie di soggiacente necessità “architettonica”.
Nell’arco del suo operato l’artista ha manifestato il desiderio di adattare le sue opere, ricreare lo
spazio del suo lavoro in luoghi o circostanze atte a garantire un maggior isolamento, inteso come
dilatazione della condizione temporale.
Quel “silenzio” (o vibrazioni impercettibili all’udito) e quella “luce” (che non è accecante),
costituiscono la base per le riflessioni nei suoi recenti lavori.
Il 20 maggio del 2008 alle ore 22.00 proietta la sagoma di un albero con le radici rivolte in alto
sulla facciata della Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi: si tratta di quel piccolo bonsai
che restituisce la sagoma di un albero reale. L’utilizzo di questa miniaturizzazione del vegetale
permette all’artista di evocare la metafora microcosmo-macrocosmo. I colori della videoproiezione,
mutando in dissolvenza, trasformano la scena in una performance teatrale, mentre la radice
impressa “nella pietra”, attraverso la proiezione luminosa, indica la localizzazione energetica
nell’essere umano nell’unione di “tempo e materia”.
La mostra personale del 2009 (Riportati alla luce lentamente a Palazzo Taverna di Roma) è
costituita dalla ricostruzione di una “Stonehenge”, in cui l’artista sostituisce ai monoliti prismi di
plexiglas con all’interno radici capovolte di colore azzurro, sovrastate da una cerchia di neon
fluorescenti blu, la cui luce trasforma la visione degli interni in una notte di luna piena.
All’interno di questa istallazione sono rivisitati precedenti lavori con funzioni differenti, riproposti in
modo inedito: una parte delle architetture del 1988, in questo caso rivestita di specchi e acciaio, è
usata come modulo con cui compone una grande stella di David.
Le radici senza voce liberate dal tempo e dalla materia, capovolte e racchiuse in queste porzioni
di vuoto all’interno delle teche, unitamente al titolo della mostra rinviano a quei processi attraverso
i quali ci eleviamo fino alla cima della pura spiritualità; quelle che l’artista usa, sono divelte
dall’uomo, disseccate dal tempo che vengono recise all’altezza del pleroma.
Tra il 2009 e il 2010 realizza l’installazione nel complesso museale di Montone, Eadem mutata
resurgo, dove l’artista dispone su una griglia metallica riproducente la progressione della sezione
aurea, una serie di radici in rapporto alla scena della Deposizione lignea duecentesca.
23
marzo 2012
Carlo Dell’Amico – L’universo dell’opera
Dal 23 marzo al 20 maggio 2012
arte contemporanea
Location
PALAZZO SCHIFANOIA
Ferrara, Via Scandiana, 23, (Ferrara)
Ferrara, Via Scandiana, 23, (Ferrara)
Vernissage
23 Marzo 2012, ore 18.30
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