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Carlo Tassi – Il cammino dell’arte
È certo che il visitatore nelle tre sedi espositive troverà delle costanti e delle variabili. Sono leggibili nelle opere esposte che, seppur con lo stesso tema, rivelano un divario cronologico evidente. Eppure sotto le differenze è sempre rinvenibile un’idea originaria[..] da non essere mai scalfita
Comunicato stampa
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Un cammino nell'arte
di Gianni Cerioli
Carlo Tassi, nato nel 1933 a Bondeno, dove vive e lavora, è figlio del pittore e restauratore Gaetano. L'arte la respira fin dall'inizio nell'aria di casa. Compie i suoi studi presso l'Istituto d'arte Dosso Dossi a Ferrara e, successivamente, all'Accademia di Belle Arti di Bologna, dove ha come docenti Pompilio Mandelli e Virgilio Guidi.
È la scultura che inizialmente lo interessa quasi quanto la pittura, ambito in cui riscuote i suoi primi successi. Ancora studente di Accademia, nel 1956, viene premiato a Ferrara nel Concorso di pittura sulla Resistenza. Come pittore qualche anno prima aveva partecipato ad una collettiva organizzata dal “Filò” nel Ridotto del Teatro Comunale.
La plastica però ha per lui una magia particolare. Il movimento delle forme lo affascina: è la vita che scorre sotto la superficie dell'epidermide delle persone così come sotto le scorze degli alberi. L'occhio e la mano disegnano percorsi che si aprono e si chiudono per riaprirsi di nuovo in un pulsare continuo.
La matita sulla carta va alla ricerca di forme-movimenti dalla partitura quasi musicale, fatta di suoni e silenzi. Nel suo studio ci sono ancora, ben ordinati dalla moglie, grandi quantità di disegni, studi, bozzetti. Qui troviamo veramente gli incunaboli della sua operatività di artista. È un corpus di grafica di alta qualità, quasi totalmente sconosciuto al grande pubblico. Da solo potrebbe essere oggetto di una esposizione.
Maria Censi nella mostra del 1996 giustamente ha riservato una sezione alla grafica, anche se è la grafica dei primi anni di attività quella che meglio permette di indagare il discrimine tra pittura e scultura entro cui l'artista, come su un palcoscenico, sembra giocare il suo ruolo di protagonista fatto di “entrate” e di “uscite”.
Il tempo incide, prepotente, nella vita di tutti e di tutte le cose così anche dell'arte, ma c'è sempre un fluire libero della coscienza dell'artista e dell'uomo che permette di riconoscersi nelle differenze e nei cambiamenti che intervengono nel passare dei giorni.
È certo che il visitatore nelle tre sedi espositive troverà delle costanti e delle variabili. Sono leggibili nelle opere esposte che, pur avendo lo stesso tema, rivelano un divario cronologico evidente. Eppure sotto le differenze è sempre rinvenibile un'idea originaria tanto forte da non essere mai scalfita dal tempo.
Il concetto di umanità che Tassi riformula nelle narrazioni della sua pittura appartiene a questo nucleo fondante che permette di non negarsi mai al colloquio con l'altro. Vi è, nella sua arte, un rispetto della persona, di tutte le persone che fa cogliere il senso dell'umana partecipazione alle vicende di tutti. Soltanto nell'accettazione dell'appartenenza ad un comune destino abbiamo l'azzeramento delle differenze. È proprio l'aspetto “creaturale” il punto di snodo fondante per cogliere l'essenza della sua arte. La figura del Cristo, le figure umane, gli alberi. Questo è il mondo cui Tassi si ispira e che da sempre gli parla
All'inizio ci sono dunque le istanze della pittura e della scultura che reclamano un loro svolgimento espressivo e Tassi, da par suo, realizza quadri e sculture per molto tempo con uguale impegno e determinazione.
Nessuno nasce già formato e la formazione di un artista è cosa complessa. Spesso messa sotto silenzio dallo stesso autore che non condivide più le opere fatte alla “maniera di” in cui inizialmente si riconosceva. A leggere e confrontare i testi critici scritti sul nostro autore si assiste ad una colta, lunga lista di autori di riferimento. Al di là di questi autori citati resta l'idea di Carlo Tassi di essere libero cittadino di un mondo padano, completamente rivolto ad una relazione empatica con gli altri, capace sempre di riconoscere la poesia nelle cose fatte di terra argillosa, cose apparentemente impoetiche, ma fatte di lavoro, sudore, fatica e amore.
Ben presto, dagli anni di Guidizzolo, nasce una “maniera nera” che diventa la sua cifra stilistica caratterizzante. La scultura rilascia alla pittura quel tanto di materia plastica, di cui è padrona, e che serve ora per fare ispessire i supporti sui cui la pittura possa posarsi sgranandosi, rivelando la luce imprigionata dei pigmenti. È un tornare del ricordo al momento della Creazione di tutte le cose, riportare dal fondo nero del Caos la luce divina del Cosmos.
Nel curricolo di Tassi la scultura rivela dunque tutta la sua natura “carsica”: appare e scompare. È però presente sempre, anche quando non ce ne accorgiamo, esiste sui supporti materici che accolgono la pittura e ne modifica le linee, ne esalta i colori e le forme.
(intervista a Carlo Tassi, Bondeno, ottobre 2010)
Quando hai capito di voler fare l'artista?
Ho capito di essere artista alla fine dell'Accademia di Belle Arti. Ero felice, perché mi sentivo pittore. Ero molto giovane allora, siamo nel 1959. Dopo di che sono stato occupato, ho trovato modo di insegnare. Era una supplenza all'inizio ...dopo ho voluto fare l'insegnante. Bisognava abilitarsi. Io non avevo neanche l'abilitazione all'insegnamento. Bisognava vincere il concorso e trovare il posto di lavoro. Nel 1960 mi sono abilitato a Roma. Quando ho telefonato a casa dicendo “Mamma, è andato tutto bene, ho vinto”, l'impiegata della posta mi disse: <>, pensava avessi vinto l'oro olimpico.
Avuta l'abilitazione mi sono deciso a dedicarmi all'insegnamento. Ho insegnato dapprima qui a Bondeno, poi a Guidizzolo in provincia di Mantova, lungo la statale da Mantova a Brescia. La scuola si chiama “Alessandro dal Prato”. Sono rimasto a Guidizzolo sette anni. Andavo avanti e indietro col treno. Tante volte mi addormentavo e per fortuna il treno terminava a Ferrara, altrimenti se andava a Milano mi svegliavo a Milano. Ho abbandonato l'istituto d'arte di Guidizzolo, e mi è dispiaciuto tanto. Il Provveditore agli Studi di Ferrara mi disse che qui a Bondeno c'era un incarico. Perché avevo vinto il concorso. Ero dispiaciuto di lasciare Guidizzolo. Aspiravo a diventare direttore dell'istituto. Tutti i ragazzi mi volevano bene e qualcuno di loro ha pianto, quando ha saputo che mi sarei trasferito.
E sei venuto a Bondeno?
Quando sono venuto a Bondeno ho insegnato educazione artistica alla scuola media a Bondeno e Scortichino. Il rapporto coi ragazzi mi è sempre piaciuto. Ad esempio, se un giorno proponevo loro di fare un tema libero, dicevo a chi mi stava davanti:<>. Ho conservato ancora molta documentazione dei ragazzi...
l'insegnamento dell'arte e il rapporto con i ragazzi mi ha maturato, perché poi son stati i ragazzi che hanno insegnato a me. Sono stati tutti bravi e rispettosi, educati. Ero diventato per loro come un fratello più grande, un secondo papà. Tutti mi volevano bene, anche oggi qui a Bondeno, e sono “ragazzi” che hanno poi sui cinquant'anni, mi salutano ancora in modo molto cordiale.
Che cosa ha significato per te, pittore, essere figlio di un pittore. In fondo la quotidianità dell'arte tu l'hai vissuta fin da subito. Attraverso tuo padre c'è stato una specie di allenamento.
Sì, c'è stata una preparazione alla pittura.... anche se mio padre mi diceva sempre: <>. Mio padre aveva una grande fiducia in me e quando volevo smettere mi incitava a continuare. Per me era dura stare lontano dalla famiglia. Stavo a pensione da una famiglia a Bologna durante il periodo dell'Accademia, erano persone che mi volevano bene anche loro. Tutti mi vogliono bene.
Che artisti frequentavano la vostra casa o che contatti avevate? Ho visto che Longanesi ha lasciato a tuo padre delle opere. Che rapporti aveva mantenuto tuo padre con l'ambiente artistico?
Si facevano degli incontri durante i quali si parlava d'arte: era diventato come una sorta di “ufficio”.
Nemesio Orsatti, che insegnava al Dosso Dossi, è stato il mio primo maestro: i miei primi passi. Avevo quattordici anni e prendevo il treno da Bondeno, sopra un carro bestiame: era appena finita la guerra.
Mio padre ha studiato arte a Ferrara, al Dosso Dossi: il suo maestro è stato Longanesi. I Longanesi erano due fratelli: uno pittore e uno scultore … La mia casa io l'ho tanto amata, perché qui c'è la vita: la vita dell'essere umano, le sue gioie, i suoi dolori. L'arte è bella, sì, ma bisogna rispettarla, come si rispetta un genitore: allora nasce un bel rapporto. L'arte non è per me una cosa solo spirituale, ma anche materica: c'è il contatto umano. E lì nascono i valori, le tue tendenze.
Nel periodo dell'Accademia di Bologna, dici, hai avuto la netta percezione che saresti stato un artista, hai cominciato pensando più alla scultura che non alla pittura. Come mai in un ambiente di pittori nasce uno scultore? Era un altro codice della stessa espressione?
Sì, sempre la stessa corrente, gli stessi sentimenti, le stesse gioie. L'idea della scultura mi è venuta
fino dai tempi del Dosso Dossi, già allora cominciavo a fare qualcosa. Il mio maestro di scultura era Virgili: molto bravo anche nell'insegnamento. Mi trovavo molto bene con lui: l'ho sempre apprezzato molto.
Dopo l'Accademia, scegli, dopo un periodo di scultura, la pittura che diventa la tua espressione privilegiata. Ho visto dei pezzi splendidi di scultura, presenti anche nelle mostre allestite in questa occasione, ma mi sembra che la pittura sia stata la cosa che tu hai preferito, che hai voluto privilegiare rispetto a tutte.
C'è un motivo. Che la pittura, come attrezzatura, è una ‘stupidaggine’: bastano un foglio di carta e due-tre matite colorate e tu disegni. La scultura era più sofferente e anche più intrigante: bisognava andare a cercare la creta - io la prendevo dal Panaro -, poi bisognava lavorarla. Una cosa dunque materialistica, molto impegnativa: non c'era la spontaneità come nel disegnare. La scultura era molto manuale. Avevo bisogno di qualcosa che dicesse subito quel che pensavo io.
La scultura è la maestra della pittura, perché una scultura – prendiamo questa mano -, proiettata da una luce, permette di cercare la terza dimensionalità. La scultura è base anche dalla grafica: qualunque cosa tu vada a copiare in natura è tridimensionale, non piatta. Cosa la rende tridimensionale? E' la luce. Se fai poi dei contrasti, questa luce, che è impalpabile - non la puoi prendere, dopo la prenderai -, diventa pittura. Chiaro scuro, luce ombra: nasce la pittura, ma prima per me nasce la scultura.
Un albero per me è importante quanto l'uomo. L'albero è una scultura vivente: lì nasce il movimento, la ricerca, i chiaroscuri. L'albero per me è il maestro della vita. Dà tanto: oltre ai frutti per mangiare, ti aiuta persino a respirare. Poi ti fa vedere i suoi tormenti, le sue angosce: anche l'albero soffre tanto. Noi si soffre insieme. Per me albero e figura umana è la stessa cosa. Sono due tronchi. Uno si muove. L'altro è fisso, ma si muove anche lui: è il vento che lo muove. Ma è ben radicato l'albero: è più forte dell'uomo. Per me prima c'è l'albero poi nasce l'uomo.
Nel periodo in cui tu hai studiato c’è stato un cambiamento notevole: finita la guerra sono nate delle correnti, ma soprattutto è arrivata in Italia la conoscenza di altre forme d'arte che non erano conosciute. Di questo periodo cosa ricordi? Di questa tua formazione cosa ti interessava (la tua curiosità è sempre stata molto forte)?
Ho sempre cercato di cogliere il movimento: la vibrazione dell'oggetto che si muove. Prova a farlo star fermo. Come questa mano in movimento: questo è copiarla, poi provi le emozioni di questo tormento. Anche il Futurismo nasce così. Io cercavo il movimento.
Cercavi la pittura che ti desse modo di esprimere il movimento, ma anche il movimento nell'azione tua di dipingere?.
Ci sono le opere con forme circolari, poi ci sono le esplosioni di queste forme circolari con ancor più movimento … Dopo quella corrente mi ero innamorato di De Pisis. Con De Pisis ho detto: “basta, voglio essere io il pittore”.
Cosa ti piaceva di De Pisis?
Il lirismo. Anche De Pisis ha vissuto tanto bene, ma anche tanto male: si drogava, per arrivare a quel che non riusciva a fare; cambiava carattere. I sui quadri per me si muovono. Lui per me è stato un grande maestro: indirettamente, è stato un grande maestro. Non ho mai avuto modo di conoscerlo ... So che muore nel 1954 a Ferrara. Quel giorno ero proprio al Dosso Dossi. Vidi un carro e passò proprio per Corso Giovecca e andò al cimitero. Fu una grande fortuna: da scuola non sarei potuto uscire, sarei dovuto fuggire.
Quando è morto De Pisis sono morto anch'io per quanto riguarda la sua pittura. Infatti, arrivo a dipingere fino a due tre anni dopo.
Allora ero alla ricerca di me stesso. La preparazione me la sentivo e nel 1963 nasce la pittura attuale, che ho sempre proseguito. Anche qui c'è sempre qualcosa di nuovo da scoprire: io sono sempre alla ricerca. Non sono mai contento di me stesso, per me un quadro non è mai finito.
Come fai allora a decidere che è finito e quando è ora di fermarti?
Non li firmo mica. … Insomma gli lasci sempre la possibilità di andare.
Questa “maniera nera” arriva molto presto, poi è diventata il tuo stile, una tua caratteristica. L’impasto grumoso di questa pittura scura cos'è per te?
E' la mia creatività. Se ti guardi in giro i pittori sono tutti uguali, mentre io sono diverso dagli altri. Perché ho una preparazione mia. La mia pittura diventa plastica.
Strutturando il supporto riprendi il tuo passato di scultura.
Lo reinnesto nella pittura.
In modo che la pittura debba essere vibrante e in movimento?
La pittura per me è scultura, come ho detto.
“Pittura nera”, in cui il colore pur essendo molto scuro non è mai nero, è nero blu, nero rossiccio forte, denso eppure delicato …
C'è luminosità. Solo le figure sono illuminate, perché sono loro che rappresentano il soggetto. Chi dipingeva così? Siamo nel seicento: c'era un muro dietro nella pittura, era tutto nero e prevaleva soltanto la luce di questi personaggi. Nel Rinascimento c'è sempre nei quadri un'apertura: entra una luce sulle figure; in una Natività con il Bambino dagli attributi sessuali scoperti si riconosce il Cinquecento. E' il carattere della pittura … L'arte è bella. L'Italia è un museo aperto, ma oggi la scuola non ti insegna la storia dell'arte ... La storia dell'arte ti insegna a vivere: ti insegna tutta la geografia del mondo... là è nato Michelangelo...
L'amore per l'ambiente naturale è una delle tue costanti. Quando nasce questa tua percezione della natura?
C'è stata sempre, proprio perché facevo scultura: tutto è scultura, poi, con le luci e le ombre, diventa pittura.
Non è che sia stato il fatto che sei nato in un paese della Pianura Padana che tu abbia maturato il desiderio di essere così legato al tuo territorio? Saresti stato legato anche a un altro territorio?
Allo stesso modo, ma da me non vedrai mai il mare o le montagne: perché non le vivo. Vivo in campagna, da qui tutti i soggetti campagnoli: contadini, bar, ristoranti. Io poi deformo tutto: quei personaggi non pensare siano anziani, li ho fatti io anziani, per dimostrare i loro tormenti, le loro solitudini, le loro angosce. Per dimostrare che stanno bene insieme, per me sono felici, anche se non apparentemente, perché c'è solidarietà, unità e amore, amore della natura: s'accontentano di poco, sì hanno dei pensieri, pensano “domani come facciamo” – che poi sarebbe oggi, perché non cambia niente.
La fisionomia è dell'anziano però.
Sì. Il modello è il giovane: io lo faccio diventare anziano.
Pensavo fosse una specie di celebrazione del mondo maschile, attraverso le osterie, ma più di una generazione adulta, non giovane. D'altra parte quando tu hai cominciato c'era una frequentazione di bar e osterie più forte.
Oggi non esistono più. Io li ricreavo con la mia fantasia perché li vedevo. Piaceva anche a me andare a bere e a parlare, ma non erano persone anziane. Io li deformavo proprio in base a quelle emozioni che raccoglievo, che ascoltavo.
Il vecchio è in fondo anche il giovane quando affronta e coglie tutto il travaglio della vita?
Vecchio e giovane per me è uguale. Come l'albero e l'uomo: l'albero il vecchio, l'uomo il giovane. Ma tutti e due hanno gli stessi tormenti: l'albero è solo perché è radicato lì, ma si muove e dice sono vivo non sono morto; per il giovane è la stessa cosa … è radicato nel suo ambiente, ma questo desiderio di movimento lo può realizzare spostandosi.
Anche spostandosi in una situazione come quella del ballo, che è uno di quegli elementi che ti è più piaciuto rappresentare. Credo che nel ballo tu cogliessi un duplice scopo: rappresentare il movimento e la figura umana.
Il tema del quadro nasce a Guidizzolo, nel '65. In quell'epoca ero un po' libertino, mi piaceva andare fuori con la macchina e andavo sempre a Bologna, su, a San Luca, solo, come oggi quando guido. A Bologna c'era una specie di night a cui mi sono ispirato. Cominciavo a scarabocchiare e a tirar fuori soggetti, poi è nato “Il ballo”.
E' un'opera molto grande e molto articolata. C'è dal punto di vista compositivo un'attenzione notevole, anche perché non sono tanti quadretti attaccati: c'è un'unità che è realizzata molto bene.
C'è una catena. Sono legati: uno parla con l'altro. Se si guarda bene queste figure parlano: hanno i loro problemi, come sempre nella vita.
Il tuo intento è arrivare all'essenzialità sia nella pittura sia nella scultura perché ci sono dei punti più importanti, tanto importanti da non poter non essere toccati. Sto pensando a certi Cristi-alberi che hai fatto.
Cristo per me è il più grande amico.
Questo aspetto religioso che compare nella tua pittura, legando il Cristo che è la figura dell'uomo incarnato con l'albero, è un altro elemento che ti interessa. Queste crocifissioni sembrano derivare dalla pittura del Seicento?
Per me la pittura più bella è quella di quel periodo. Quando andavo a scuola mi dicevano sempre che il periodo più brutto della storia dell'arte era il Seicento, perché periodo di decadentismo. No, invece. Hanno abbandonato il Cinquecento per creare uno stile nuovo: la pittura del '600, Caravaggio.
Non c'è nessuna decadenza nell'arte, mai?
No. Finché vivono l'uomo e l'albero l'arte va sempre avanti, non decade mai. Si può trasformare, certo: se nasco che sono un bambino con gli anni divento un uomo e lascio una grande traccia di me. L'arte è sempre viva: cambiano gli studi, le correnti, ma è sempre l'arte.
E l'arte è un sentimento umano, che nasce in te, non si diventa artisti: bisogna nascerci, poi devi scoprire il perché di questi tormenti e bisogna che li studi. L'arte è sofferenza: una sofferenza interiore. Ti sembra di essere felice, ma è una felicità infelice … Un morto non è mai morto, perché lo ricordo sempre. Sin che lo ricordo, lui è vivo, ma quando sono morto io, allora sì che è morto...
Tutto ciò che vedo in giro, non solo umanità, ad esempio una casa diroccata, non è morta: vive ancora. Siamo noi che la giudichiamo, sbagliando, morta, lei vive: è un'opera d'arte, alla sua maniera, è una creatività.
Tornando a Cristo e l'albero, compare nella tua pittura da un po' di tempo a questa parte, ma non è un tema che hai sempre affrontato?
L'ho sempre fatto.
Allora anche il quadro del '54, che dici essere una rappresentazione, attraverso la deposizione di Cristo, del partigiano. È un elemento che cogli subito nella tua carriera di artista.
Una cosa che mi ha meravigliato è la quantità di grafica e la felicità della mano.
Io ho sempre disegnato. Il disegno è la base della pittura, La prima espressione che fai è il bozzetto e per me è già pittura: ti insegna a vedere il mondo, a cogliere l'attimo.
In questa grafica si vedono anche le correnti, le varie indicazioni che l'arte moderna ti ha sollecitato.
Quando mi emoziono di un quadro e di quello che mi dà [un soggetto] anche in natura, allora comincio a studiare, a disegnare, poi a dipingere. L'arte è una grande emozione interiore: se non hai questa interiorità puoi abbandonare i pennelli. Per questo amo la religione e Cristo in particolare, perché lui mi insegna.
Queste case abbandonate, che leggiamo come morte ma hanno vita nel ricordo...
Sono ambienti vissuti: c'è passata la vita, qualcosa che ha emesso vibrazioni. Sono sempre stati chiusi lì: allora non c'erano l'auto o il motorino, ci si spostava in bicicletta.
Questo mondo hai avuto modo di conoscerlo, o questo tema delle case abbandonate nella campagna è un elemento visivo?
Ho conosciuto questo mondo. Avevo un amico che abitava in quelle case e andavo a trovarlo: io intanto guardavo, studiavo, osservavo; quando mi parlava io raccoglievo tutto ciò che mi diceva.
Tu sei la tua casa.
Lui era un contadino. Una volta gli operai contadini lavoravano, oggi questo è finito: col progresso c'è stato un regresso. Io vivo quell'ambiente non l'attuale. Molta agricoltura moderna è nemica del paesaggio
Questo cambiamento è al di fuori dal poter essere recuperato nei tuoi quadri.
No. E' una materia grigia, una materia fredda. Non c'è neanche colore: i camion di una volta erano colorati. Adesso è tutto piatto, tutto grigio.
... i papaveri... il più bel fiore del mondo: nasce e muore, come tutte le cose. Ha una vita molto breve: non toccarlo, perché lo uccidi. E' pieno di vita e di colore. Tante volte mi sono innamorato andando a vedere il grano crescere e in mezzo a questo grano i papaveri: mi sono commosso. Il papavero è il più bel fiore al mondo: la purezza. Ho fatto anche quadri grandi con papaveri, per studi personali … Non ho mai fatto nessun dipinto su ordinazione. Io dipingo per me: che piaccia o no il quadro, così che rimane con me.
Hai sempre avuto un rapporto libero con la committenza. Hai sempre fatto l'artista libero.
A Roma, dove ho fatto due mostre, ho conosciuto Spadolini e Guttuso, negli anni '80, avevo trovato un gallerista interessato, ma io non lo ero, la distanza era troppa. Non potevo restare, per i soldi ...
Ho conosciuto anche Bassani a Scortichino. Lui era appassionato alle cose che facevo: ha visto tanti quadri miei e sembrava che la mia pittura lo ispirasse. Io mi sono disinteressato di tutti. Rimpiango molto di non avergli donato neppure uno scarabocchio.
Questi sono i miei grandi pentimenti.
E quali altri?
Andiamo indietro nel 1957. Io e un amico volevamo andare a Parigi, ma non guidavo, non avevo la patente. Con lui, Enzo Reggiani, che aveva una bottega di alimentari ci mettiamo d'accordo e partiamo. Prima di arrivare, nei pressi di Lione, un camion spacca i vetri dell’auto con un sasso e due poliziotti ci hanno scortati sino a Parigi. Abbiamo prenotato: dovevamo star via una settimana, ma non avevamo già più soldi. Eravamo al metrò e parlavamo della nostra situazione, si avvicina un signore, un imbianchino: ci ha sistemati a casa sua e ci dava tutti i giorni lo stipendio, al mio amico per lavorare con lui, a me per dipingere. Siamo rimasti via tre mesi e tornai con dei soldi: Reggiani faceva l'imbianchino e io dovevo andare fuori a dipingere. Dipingevo su cartone. E li vendevo. Camillo Drozz è stato il primo impresario della mia vita, a Parigi però. Siamo rimasti in contatto per tanto tempo ….
Nella mia vita ho avuto anche tante belle soddisfazioni.
di Gianni Cerioli
Carlo Tassi, nato nel 1933 a Bondeno, dove vive e lavora, è figlio del pittore e restauratore Gaetano. L'arte la respira fin dall'inizio nell'aria di casa. Compie i suoi studi presso l'Istituto d'arte Dosso Dossi a Ferrara e, successivamente, all'Accademia di Belle Arti di Bologna, dove ha come docenti Pompilio Mandelli e Virgilio Guidi.
È la scultura che inizialmente lo interessa quasi quanto la pittura, ambito in cui riscuote i suoi primi successi. Ancora studente di Accademia, nel 1956, viene premiato a Ferrara nel Concorso di pittura sulla Resistenza. Come pittore qualche anno prima aveva partecipato ad una collettiva organizzata dal “Filò” nel Ridotto del Teatro Comunale.
La plastica però ha per lui una magia particolare. Il movimento delle forme lo affascina: è la vita che scorre sotto la superficie dell'epidermide delle persone così come sotto le scorze degli alberi. L'occhio e la mano disegnano percorsi che si aprono e si chiudono per riaprirsi di nuovo in un pulsare continuo.
La matita sulla carta va alla ricerca di forme-movimenti dalla partitura quasi musicale, fatta di suoni e silenzi. Nel suo studio ci sono ancora, ben ordinati dalla moglie, grandi quantità di disegni, studi, bozzetti. Qui troviamo veramente gli incunaboli della sua operatività di artista. È un corpus di grafica di alta qualità, quasi totalmente sconosciuto al grande pubblico. Da solo potrebbe essere oggetto di una esposizione.
Maria Censi nella mostra del 1996 giustamente ha riservato una sezione alla grafica, anche se è la grafica dei primi anni di attività quella che meglio permette di indagare il discrimine tra pittura e scultura entro cui l'artista, come su un palcoscenico, sembra giocare il suo ruolo di protagonista fatto di “entrate” e di “uscite”.
Il tempo incide, prepotente, nella vita di tutti e di tutte le cose così anche dell'arte, ma c'è sempre un fluire libero della coscienza dell'artista e dell'uomo che permette di riconoscersi nelle differenze e nei cambiamenti che intervengono nel passare dei giorni.
È certo che il visitatore nelle tre sedi espositive troverà delle costanti e delle variabili. Sono leggibili nelle opere esposte che, pur avendo lo stesso tema, rivelano un divario cronologico evidente. Eppure sotto le differenze è sempre rinvenibile un'idea originaria tanto forte da non essere mai scalfita dal tempo.
Il concetto di umanità che Tassi riformula nelle narrazioni della sua pittura appartiene a questo nucleo fondante che permette di non negarsi mai al colloquio con l'altro. Vi è, nella sua arte, un rispetto della persona, di tutte le persone che fa cogliere il senso dell'umana partecipazione alle vicende di tutti. Soltanto nell'accettazione dell'appartenenza ad un comune destino abbiamo l'azzeramento delle differenze. È proprio l'aspetto “creaturale” il punto di snodo fondante per cogliere l'essenza della sua arte. La figura del Cristo, le figure umane, gli alberi. Questo è il mondo cui Tassi si ispira e che da sempre gli parla
All'inizio ci sono dunque le istanze della pittura e della scultura che reclamano un loro svolgimento espressivo e Tassi, da par suo, realizza quadri e sculture per molto tempo con uguale impegno e determinazione.
Nessuno nasce già formato e la formazione di un artista è cosa complessa. Spesso messa sotto silenzio dallo stesso autore che non condivide più le opere fatte alla “maniera di” in cui inizialmente si riconosceva. A leggere e confrontare i testi critici scritti sul nostro autore si assiste ad una colta, lunga lista di autori di riferimento. Al di là di questi autori citati resta l'idea di Carlo Tassi di essere libero cittadino di un mondo padano, completamente rivolto ad una relazione empatica con gli altri, capace sempre di riconoscere la poesia nelle cose fatte di terra argillosa, cose apparentemente impoetiche, ma fatte di lavoro, sudore, fatica e amore.
Ben presto, dagli anni di Guidizzolo, nasce una “maniera nera” che diventa la sua cifra stilistica caratterizzante. La scultura rilascia alla pittura quel tanto di materia plastica, di cui è padrona, e che serve ora per fare ispessire i supporti sui cui la pittura possa posarsi sgranandosi, rivelando la luce imprigionata dei pigmenti. È un tornare del ricordo al momento della Creazione di tutte le cose, riportare dal fondo nero del Caos la luce divina del Cosmos.
Nel curricolo di Tassi la scultura rivela dunque tutta la sua natura “carsica”: appare e scompare. È però presente sempre, anche quando non ce ne accorgiamo, esiste sui supporti materici che accolgono la pittura e ne modifica le linee, ne esalta i colori e le forme.
(intervista a Carlo Tassi, Bondeno, ottobre 2010)
Quando hai capito di voler fare l'artista?
Ho capito di essere artista alla fine dell'Accademia di Belle Arti. Ero felice, perché mi sentivo pittore. Ero molto giovane allora, siamo nel 1959. Dopo di che sono stato occupato, ho trovato modo di insegnare. Era una supplenza all'inizio ...dopo ho voluto fare l'insegnante. Bisognava abilitarsi. Io non avevo neanche l'abilitazione all'insegnamento. Bisognava vincere il concorso e trovare il posto di lavoro. Nel 1960 mi sono abilitato a Roma. Quando ho telefonato a casa dicendo “Mamma, è andato tutto bene, ho vinto”, l'impiegata della posta mi disse: <
Avuta l'abilitazione mi sono deciso a dedicarmi all'insegnamento. Ho insegnato dapprima qui a Bondeno, poi a Guidizzolo in provincia di Mantova, lungo la statale da Mantova a Brescia. La scuola si chiama “Alessandro dal Prato”. Sono rimasto a Guidizzolo sette anni. Andavo avanti e indietro col treno. Tante volte mi addormentavo e per fortuna il treno terminava a Ferrara, altrimenti se andava a Milano mi svegliavo a Milano. Ho abbandonato l'istituto d'arte di Guidizzolo, e mi è dispiaciuto tanto. Il Provveditore agli Studi di Ferrara mi disse che qui a Bondeno c'era un incarico. Perché avevo vinto il concorso. Ero dispiaciuto di lasciare Guidizzolo. Aspiravo a diventare direttore dell'istituto. Tutti i ragazzi mi volevano bene e qualcuno di loro ha pianto, quando ha saputo che mi sarei trasferito.
E sei venuto a Bondeno?
Quando sono venuto a Bondeno ho insegnato educazione artistica alla scuola media a Bondeno e Scortichino. Il rapporto coi ragazzi mi è sempre piaciuto. Ad esempio, se un giorno proponevo loro di fare un tema libero, dicevo a chi mi stava davanti:<
l'insegnamento dell'arte e il rapporto con i ragazzi mi ha maturato, perché poi son stati i ragazzi che hanno insegnato a me. Sono stati tutti bravi e rispettosi, educati. Ero diventato per loro come un fratello più grande, un secondo papà. Tutti mi volevano bene, anche oggi qui a Bondeno, e sono “ragazzi” che hanno poi sui cinquant'anni, mi salutano ancora in modo molto cordiale.
Che cosa ha significato per te, pittore, essere figlio di un pittore. In fondo la quotidianità dell'arte tu l'hai vissuta fin da subito. Attraverso tuo padre c'è stato una specie di allenamento.
Sì, c'è stata una preparazione alla pittura.... anche se mio padre mi diceva sempre: <
Che artisti frequentavano la vostra casa o che contatti avevate? Ho visto che Longanesi ha lasciato a tuo padre delle opere. Che rapporti aveva mantenuto tuo padre con l'ambiente artistico?
Si facevano degli incontri durante i quali si parlava d'arte: era diventato come una sorta di “ufficio”.
Nemesio Orsatti, che insegnava al Dosso Dossi, è stato il mio primo maestro: i miei primi passi. Avevo quattordici anni e prendevo il treno da Bondeno, sopra un carro bestiame: era appena finita la guerra.
Mio padre ha studiato arte a Ferrara, al Dosso Dossi: il suo maestro è stato Longanesi. I Longanesi erano due fratelli: uno pittore e uno scultore … La mia casa io l'ho tanto amata, perché qui c'è la vita: la vita dell'essere umano, le sue gioie, i suoi dolori. L'arte è bella, sì, ma bisogna rispettarla, come si rispetta un genitore: allora nasce un bel rapporto. L'arte non è per me una cosa solo spirituale, ma anche materica: c'è il contatto umano. E lì nascono i valori, le tue tendenze.
Nel periodo dell'Accademia di Bologna, dici, hai avuto la netta percezione che saresti stato un artista, hai cominciato pensando più alla scultura che non alla pittura. Come mai in un ambiente di pittori nasce uno scultore? Era un altro codice della stessa espressione?
Sì, sempre la stessa corrente, gli stessi sentimenti, le stesse gioie. L'idea della scultura mi è venuta
fino dai tempi del Dosso Dossi, già allora cominciavo a fare qualcosa. Il mio maestro di scultura era Virgili: molto bravo anche nell'insegnamento. Mi trovavo molto bene con lui: l'ho sempre apprezzato molto.
Dopo l'Accademia, scegli, dopo un periodo di scultura, la pittura che diventa la tua espressione privilegiata. Ho visto dei pezzi splendidi di scultura, presenti anche nelle mostre allestite in questa occasione, ma mi sembra che la pittura sia stata la cosa che tu hai preferito, che hai voluto privilegiare rispetto a tutte.
C'è un motivo. Che la pittura, come attrezzatura, è una ‘stupidaggine’: bastano un foglio di carta e due-tre matite colorate e tu disegni. La scultura era più sofferente e anche più intrigante: bisognava andare a cercare la creta - io la prendevo dal Panaro -, poi bisognava lavorarla. Una cosa dunque materialistica, molto impegnativa: non c'era la spontaneità come nel disegnare. La scultura era molto manuale. Avevo bisogno di qualcosa che dicesse subito quel che pensavo io.
La scultura è la maestra della pittura, perché una scultura – prendiamo questa mano -, proiettata da una luce, permette di cercare la terza dimensionalità. La scultura è base anche dalla grafica: qualunque cosa tu vada a copiare in natura è tridimensionale, non piatta. Cosa la rende tridimensionale? E' la luce. Se fai poi dei contrasti, questa luce, che è impalpabile - non la puoi prendere, dopo la prenderai -, diventa pittura. Chiaro scuro, luce ombra: nasce la pittura, ma prima per me nasce la scultura.
Un albero per me è importante quanto l'uomo. L'albero è una scultura vivente: lì nasce il movimento, la ricerca, i chiaroscuri. L'albero per me è il maestro della vita. Dà tanto: oltre ai frutti per mangiare, ti aiuta persino a respirare. Poi ti fa vedere i suoi tormenti, le sue angosce: anche l'albero soffre tanto. Noi si soffre insieme. Per me albero e figura umana è la stessa cosa. Sono due tronchi. Uno si muove. L'altro è fisso, ma si muove anche lui: è il vento che lo muove. Ma è ben radicato l'albero: è più forte dell'uomo. Per me prima c'è l'albero poi nasce l'uomo.
Nel periodo in cui tu hai studiato c’è stato un cambiamento notevole: finita la guerra sono nate delle correnti, ma soprattutto è arrivata in Italia la conoscenza di altre forme d'arte che non erano conosciute. Di questo periodo cosa ricordi? Di questa tua formazione cosa ti interessava (la tua curiosità è sempre stata molto forte)?
Ho sempre cercato di cogliere il movimento: la vibrazione dell'oggetto che si muove. Prova a farlo star fermo. Come questa mano in movimento: questo è copiarla, poi provi le emozioni di questo tormento. Anche il Futurismo nasce così. Io cercavo il movimento.
Cercavi la pittura che ti desse modo di esprimere il movimento, ma anche il movimento nell'azione tua di dipingere?.
Ci sono le opere con forme circolari, poi ci sono le esplosioni di queste forme circolari con ancor più movimento … Dopo quella corrente mi ero innamorato di De Pisis. Con De Pisis ho detto: “basta, voglio essere io il pittore”.
Cosa ti piaceva di De Pisis?
Il lirismo. Anche De Pisis ha vissuto tanto bene, ma anche tanto male: si drogava, per arrivare a quel che non riusciva a fare; cambiava carattere. I sui quadri per me si muovono. Lui per me è stato un grande maestro: indirettamente, è stato un grande maestro. Non ho mai avuto modo di conoscerlo ... So che muore nel 1954 a Ferrara. Quel giorno ero proprio al Dosso Dossi. Vidi un carro e passò proprio per Corso Giovecca e andò al cimitero. Fu una grande fortuna: da scuola non sarei potuto uscire, sarei dovuto fuggire.
Quando è morto De Pisis sono morto anch'io per quanto riguarda la sua pittura. Infatti, arrivo a dipingere fino a due tre anni dopo.
Allora ero alla ricerca di me stesso. La preparazione me la sentivo e nel 1963 nasce la pittura attuale, che ho sempre proseguito. Anche qui c'è sempre qualcosa di nuovo da scoprire: io sono sempre alla ricerca. Non sono mai contento di me stesso, per me un quadro non è mai finito.
Come fai allora a decidere che è finito e quando è ora di fermarti?
Non li firmo mica. … Insomma gli lasci sempre la possibilità di andare.
Questa “maniera nera” arriva molto presto, poi è diventata il tuo stile, una tua caratteristica. L’impasto grumoso di questa pittura scura cos'è per te?
E' la mia creatività. Se ti guardi in giro i pittori sono tutti uguali, mentre io sono diverso dagli altri. Perché ho una preparazione mia. La mia pittura diventa plastica.
Strutturando il supporto riprendi il tuo passato di scultura.
Lo reinnesto nella pittura.
In modo che la pittura debba essere vibrante e in movimento?
La pittura per me è scultura, come ho detto.
“Pittura nera”, in cui il colore pur essendo molto scuro non è mai nero, è nero blu, nero rossiccio forte, denso eppure delicato …
C'è luminosità. Solo le figure sono illuminate, perché sono loro che rappresentano il soggetto. Chi dipingeva così? Siamo nel seicento: c'era un muro dietro nella pittura, era tutto nero e prevaleva soltanto la luce di questi personaggi. Nel Rinascimento c'è sempre nei quadri un'apertura: entra una luce sulle figure; in una Natività con il Bambino dagli attributi sessuali scoperti si riconosce il Cinquecento. E' il carattere della pittura … L'arte è bella. L'Italia è un museo aperto, ma oggi la scuola non ti insegna la storia dell'arte ... La storia dell'arte ti insegna a vivere: ti insegna tutta la geografia del mondo... là è nato Michelangelo...
L'amore per l'ambiente naturale è una delle tue costanti. Quando nasce questa tua percezione della natura?
C'è stata sempre, proprio perché facevo scultura: tutto è scultura, poi, con le luci e le ombre, diventa pittura.
Non è che sia stato il fatto che sei nato in un paese della Pianura Padana che tu abbia maturato il desiderio di essere così legato al tuo territorio? Saresti stato legato anche a un altro territorio?
Allo stesso modo, ma da me non vedrai mai il mare o le montagne: perché non le vivo. Vivo in campagna, da qui tutti i soggetti campagnoli: contadini, bar, ristoranti. Io poi deformo tutto: quei personaggi non pensare siano anziani, li ho fatti io anziani, per dimostrare i loro tormenti, le loro solitudini, le loro angosce. Per dimostrare che stanno bene insieme, per me sono felici, anche se non apparentemente, perché c'è solidarietà, unità e amore, amore della natura: s'accontentano di poco, sì hanno dei pensieri, pensano “domani come facciamo” – che poi sarebbe oggi, perché non cambia niente.
La fisionomia è dell'anziano però.
Sì. Il modello è il giovane: io lo faccio diventare anziano.
Pensavo fosse una specie di celebrazione del mondo maschile, attraverso le osterie, ma più di una generazione adulta, non giovane. D'altra parte quando tu hai cominciato c'era una frequentazione di bar e osterie più forte.
Oggi non esistono più. Io li ricreavo con la mia fantasia perché li vedevo. Piaceva anche a me andare a bere e a parlare, ma non erano persone anziane. Io li deformavo proprio in base a quelle emozioni che raccoglievo, che ascoltavo.
Il vecchio è in fondo anche il giovane quando affronta e coglie tutto il travaglio della vita?
Vecchio e giovane per me è uguale. Come l'albero e l'uomo: l'albero il vecchio, l'uomo il giovane. Ma tutti e due hanno gli stessi tormenti: l'albero è solo perché è radicato lì, ma si muove e dice sono vivo non sono morto; per il giovane è la stessa cosa … è radicato nel suo ambiente, ma questo desiderio di movimento lo può realizzare spostandosi.
Anche spostandosi in una situazione come quella del ballo, che è uno di quegli elementi che ti è più piaciuto rappresentare. Credo che nel ballo tu cogliessi un duplice scopo: rappresentare il movimento e la figura umana.
Il tema del quadro nasce a Guidizzolo, nel '65. In quell'epoca ero un po' libertino, mi piaceva andare fuori con la macchina e andavo sempre a Bologna, su, a San Luca, solo, come oggi quando guido. A Bologna c'era una specie di night a cui mi sono ispirato. Cominciavo a scarabocchiare e a tirar fuori soggetti, poi è nato “Il ballo”.
E' un'opera molto grande e molto articolata. C'è dal punto di vista compositivo un'attenzione notevole, anche perché non sono tanti quadretti attaccati: c'è un'unità che è realizzata molto bene.
C'è una catena. Sono legati: uno parla con l'altro. Se si guarda bene queste figure parlano: hanno i loro problemi, come sempre nella vita.
Il tuo intento è arrivare all'essenzialità sia nella pittura sia nella scultura perché ci sono dei punti più importanti, tanto importanti da non poter non essere toccati. Sto pensando a certi Cristi-alberi che hai fatto.
Cristo per me è il più grande amico.
Questo aspetto religioso che compare nella tua pittura, legando il Cristo che è la figura dell'uomo incarnato con l'albero, è un altro elemento che ti interessa. Queste crocifissioni sembrano derivare dalla pittura del Seicento?
Per me la pittura più bella è quella di quel periodo. Quando andavo a scuola mi dicevano sempre che il periodo più brutto della storia dell'arte era il Seicento, perché periodo di decadentismo. No, invece. Hanno abbandonato il Cinquecento per creare uno stile nuovo: la pittura del '600, Caravaggio.
Non c'è nessuna decadenza nell'arte, mai?
No. Finché vivono l'uomo e l'albero l'arte va sempre avanti, non decade mai. Si può trasformare, certo: se nasco che sono un bambino con gli anni divento un uomo e lascio una grande traccia di me. L'arte è sempre viva: cambiano gli studi, le correnti, ma è sempre l'arte.
E l'arte è un sentimento umano, che nasce in te, non si diventa artisti: bisogna nascerci, poi devi scoprire il perché di questi tormenti e bisogna che li studi. L'arte è sofferenza: una sofferenza interiore. Ti sembra di essere felice, ma è una felicità infelice … Un morto non è mai morto, perché lo ricordo sempre. Sin che lo ricordo, lui è vivo, ma quando sono morto io, allora sì che è morto...
Tutto ciò che vedo in giro, non solo umanità, ad esempio una casa diroccata, non è morta: vive ancora. Siamo noi che la giudichiamo, sbagliando, morta, lei vive: è un'opera d'arte, alla sua maniera, è una creatività.
Tornando a Cristo e l'albero, compare nella tua pittura da un po' di tempo a questa parte, ma non è un tema che hai sempre affrontato?
L'ho sempre fatto.
Allora anche il quadro del '54, che dici essere una rappresentazione, attraverso la deposizione di Cristo, del partigiano. È un elemento che cogli subito nella tua carriera di artista.
Una cosa che mi ha meravigliato è la quantità di grafica e la felicità della mano.
Io ho sempre disegnato. Il disegno è la base della pittura, La prima espressione che fai è il bozzetto e per me è già pittura: ti insegna a vedere il mondo, a cogliere l'attimo.
In questa grafica si vedono anche le correnti, le varie indicazioni che l'arte moderna ti ha sollecitato.
Quando mi emoziono di un quadro e di quello che mi dà [un soggetto] anche in natura, allora comincio a studiare, a disegnare, poi a dipingere. L'arte è una grande emozione interiore: se non hai questa interiorità puoi abbandonare i pennelli. Per questo amo la religione e Cristo in particolare, perché lui mi insegna.
Queste case abbandonate, che leggiamo come morte ma hanno vita nel ricordo...
Sono ambienti vissuti: c'è passata la vita, qualcosa che ha emesso vibrazioni. Sono sempre stati chiusi lì: allora non c'erano l'auto o il motorino, ci si spostava in bicicletta.
Questo mondo hai avuto modo di conoscerlo, o questo tema delle case abbandonate nella campagna è un elemento visivo?
Ho conosciuto questo mondo. Avevo un amico che abitava in quelle case e andavo a trovarlo: io intanto guardavo, studiavo, osservavo; quando mi parlava io raccoglievo tutto ciò che mi diceva.
Tu sei la tua casa.
Lui era un contadino. Una volta gli operai contadini lavoravano, oggi questo è finito: col progresso c'è stato un regresso. Io vivo quell'ambiente non l'attuale. Molta agricoltura moderna è nemica del paesaggio
Questo cambiamento è al di fuori dal poter essere recuperato nei tuoi quadri.
No. E' una materia grigia, una materia fredda. Non c'è neanche colore: i camion di una volta erano colorati. Adesso è tutto piatto, tutto grigio.
... i papaveri... il più bel fiore del mondo: nasce e muore, come tutte le cose. Ha una vita molto breve: non toccarlo, perché lo uccidi. E' pieno di vita e di colore. Tante volte mi sono innamorato andando a vedere il grano crescere e in mezzo a questo grano i papaveri: mi sono commosso. Il papavero è il più bel fiore al mondo: la purezza. Ho fatto anche quadri grandi con papaveri, per studi personali … Non ho mai fatto nessun dipinto su ordinazione. Io dipingo per me: che piaccia o no il quadro, così che rimane con me.
Hai sempre avuto un rapporto libero con la committenza. Hai sempre fatto l'artista libero.
A Roma, dove ho fatto due mostre, ho conosciuto Spadolini e Guttuso, negli anni '80, avevo trovato un gallerista interessato, ma io non lo ero, la distanza era troppa. Non potevo restare, per i soldi ...
Ho conosciuto anche Bassani a Scortichino. Lui era appassionato alle cose che facevo: ha visto tanti quadri miei e sembrava che la mia pittura lo ispirasse. Io mi sono disinteressato di tutti. Rimpiango molto di non avergli donato neppure uno scarabocchio.
Questi sono i miei grandi pentimenti.
E quali altri?
Andiamo indietro nel 1957. Io e un amico volevamo andare a Parigi, ma non guidavo, non avevo la patente. Con lui, Enzo Reggiani, che aveva una bottega di alimentari ci mettiamo d'accordo e partiamo. Prima di arrivare, nei pressi di Lione, un camion spacca i vetri dell’auto con un sasso e due poliziotti ci hanno scortati sino a Parigi. Abbiamo prenotato: dovevamo star via una settimana, ma non avevamo già più soldi. Eravamo al metrò e parlavamo della nostra situazione, si avvicina un signore, un imbianchino: ci ha sistemati a casa sua e ci dava tutti i giorni lo stipendio, al mio amico per lavorare con lui, a me per dipingere. Siamo rimasti via tre mesi e tornai con dei soldi: Reggiani faceva l'imbianchino e io dovevo andare fuori a dipingere. Dipingevo su cartone. E li vendevo. Camillo Drozz è stato il primo impresario della mia vita, a Parigi però. Siamo rimasti in contatto per tanto tempo ….
Nella mia vita ho avuto anche tante belle soddisfazioni.
20
dicembre 2010
Carlo Tassi – Il cammino dell’arte
Dal 20 dicembre 2010 al 09 gennaio 2011
arte moderna e contemporanea
Location
GALLERIA DEL CARBONE
Ferrara, Via Del Carbone, 18, (Ferrara)
Ferrara, Via Del Carbone, 18, (Ferrara)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì 17.00-20.00; sabato e festivi 17.00-20.00 martedì chiuso
Vernissage
20 Dicembre 2010, ore 17.00
Autore
Curatore