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Cattedrali d’acciaio
Le grandi fabbriche dismesse sono una realtà significativa del nostro tempo e dei luoghi del nostro abitare, un passato prossimo che ci si presenta come congelato e
immobile nella sua desolata grandiosità.
Comunicato stampa
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Le grandi fabbriche dismesse sono una realtà significativa del nostro tempo e dei luoghi del nostro abitare, un passato prossimo che ci si presenta come congelato nel suo ultimo istante di attività, coperto dalla polvere grigia e dai frammenti di una civiltà delle macchine che un tempo non poteva fermarsi e imponeva ritmi forzati al lavoro dell’uomo, mentre ora è immobile nella sua desolata grandiosità.
Di fronte a questi santuari della modernità - la Necchi, la Neca, la Snia Viscosa, che hanno caratterizzato e caratterizzano ancora, con i loro volumi immediatamente riconoscibili, il nostro paesaggio urbano l’atteggiamento creativo di Günter Pusch, Marion Braun e William West si trasforma in una sorta di ricerca archeologica che riconosce la preziosità di ogni frammento e si serve dell’arte (pittura, fotografia, scultura) per produrre una “rinascita” delle fabbriche, restituendo a queste cattedrali di vetro ferro e cemento la dignità della memoria.
Le opere pittoriche di Günter Pusch, che emergono da un percorso artistico legato all’Informale, ci appaiono come una lucida visione poetica che delle fabbriche prende in considerazione la struttura architettonica, i volumi e gli spazi grandiosi, i macchinari e la loro funzione, gli elementi evocativi di una vita operaia sospesa nel suo svolgersi. La composizione, talvolta divisa in scomparti, si caratterizza per la particolare vocazione architettonica e costruttivista che permette all’artista di organizzare la propria visione secondo vari livelli di approssimazione alla realtà. Questo originale atteggiamento creativo, che si arricchisce grazie all’utilizzo di materiali corposi, quali il bitume e gli smalti, che danno concretezza alla trasfigurazione pittorica del soggetto, fa pensare alle Composizioni di Mario Sironi degli anni Quaranta e Cinquanta, caratterizzate da volumi sapientemente calibrati e scanditi da una pennellata densa che percorre forme sempre più sintetiche, arrivando a sfiorare nell’ultimo periodo la pittura informale.
Nelle opere di Pusch, la composizione si anima di colori e di contrasti, il segno nero dei volumi puri si staglia sulle cromie astratte con cui l’artista accende le sue tele prima di farvi penetrare la realtà industriale che lo affascina. Ogni dettaglio assume dignità di racconto: la fotografia è utilizzata dall’artista come strumento di ricerca preliminare attraverso cui cristallizzare l’esperienza diretta all’interno delle fabbriche e ricevere nuove suggestioni al momento di trasporre la propria visione nella pittura.
Colpisce la presenza ricorrente della natura, una natura generante che si insinua negli spazi lasciati liberi dall’abbandono dell’uomo, riprendendo il sopravvento sulla civiltà delle macchine vissuta nell’illusione di poter fare a meno dell’elemento naturale: le strutture industriali sembrano essere diventate grandi serre in cui la natura cresce spontanea, riportando vita e luce ove sembrava regnare soltanto il grigiore.
La stessa attenzione per questo aspetto emerge nelle fotografie di Marion Braun, affascinata dall’invadenza della natura che riemerge dal cemento e conferisce nuova vita a questi spazi, che appaiono come santuari (con divieto d’accesso) del secolo appena concluso. La fotografia diventa lo strumento perfetto per imprigionare l’emozione - simile a quella dell’archeologo - provata nel momento in cui si penetra all’interno di un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato all’improvviso: laboratori, macchinari, strumentazioni, attrezzi, orologi sono rimasti intatti sotto la polvere, muta testimonianza di quella che somiglia a una fuga precipitosa, reperti archeologici di una Pompei dei nostri giorni.
La tensione emotiva si scioglie nella bellezza struggente di questi luoghi, sapientemente calibrata dall’artista, che sceglie di mettere in relazione gli interni con l’esterno, quasi a voler testimoniare la possibilità di liberare la sensazione malinconica che percorre queste strutture in abbandono lasciando entrare un triangolo di cielo dai vetri rotti delle finestre.
Questa possibilità di comunicazione e penetrazione tra realtà industriale e mondo esterno risulta invece completamente negata nelle sculture di William West, che modella abilmente nel marmo i solidi volumi delle fabbriche (forme piene, senza finestre e senza respiro), accanto a maschere antigas e cuffie per proteggersi dai rumori meccanici: l’immobilità e la levigata pesantezza del marmo rendono questi elementi bloccati nella loro inesorabile concretezza, privati di una reale funzione. L’artista inglese interpreta con grande originalità il potenziale narrativo e simbolico della scultura scegliendo il materiale principe della storia dell’arte plastica; tuttavia, per modellare le sue sculture si serve di scarti di lavorazione, che assembla e riporta a nuova vita, evocando la potenza espressiva del Nouveau Réalisme - tornano alla memoria le fusioni in bronzo di oggetti tratti dal quotidiano di Daniel Spoerri, ma anche le lattine di birra di Jasper Johns e le soft sculptures di Claes Oldenburg, ove l’ironia e lo spaesamento percettivo giocano un ruolo fondamentale nella critica alla società dei consumi.
In modo forse meno evidente ma molto significativo, anche per West la poetica del frammento e il recupero della memoria collettiva attraverso l’arte, già evidenziata nelle opere di Pusch e Braun, riveste particolare importanza: la trasposizione in marmo (riciclato) dei residui della realtà post-industriale permette di restituire alle fabbriche nuova dignità e di portare nei musei e nelle gallerie d’arte una originale concezione di archeologia industriale.
Günter Pusch, Marion Braun e William West dimostrano una sensibilità eccezionale nell’osservare e tradurre elementi significativi della nostra storia (produttiva, architettonica, sociale) recente in opere dotate di un particolare potere evocativo: nell’assenza quasi totale dell’elemento umano si avverte tuttavia la presenza silenziosa dei tanti lavoratori che hanno dato vita a quelle strutture.
Una presenza evanescente che acquisisce concretezza ancora maggiore grazie alla scelta di accompagnare la dimensione visiva delle opere con le musiche composte da U_inductio, realtà pavese di grande interesse che ruota attorno a Vittorio Achille, che attraverso suoni e rumori racconta del proprio originale percorso tra punk e jazz, con un occhio di riguardo per le contaminazioni artistiche - dal sonorous painting intitolato Kathedrale, realizzato da Vittorio Achille e Giovanni Squillace insieme a Günter Pusch, alle collaborazioni con Franko B e Matteo Basilé - guidandoci in quella che può essere definita un’immersione multisensoriale nell’arte.
Francesca Porreca
Di fronte a questi santuari della modernità - la Necchi, la Neca, la Snia Viscosa, che hanno caratterizzato e caratterizzano ancora, con i loro volumi immediatamente riconoscibili, il nostro paesaggio urbano l’atteggiamento creativo di Günter Pusch, Marion Braun e William West si trasforma in una sorta di ricerca archeologica che riconosce la preziosità di ogni frammento e si serve dell’arte (pittura, fotografia, scultura) per produrre una “rinascita” delle fabbriche, restituendo a queste cattedrali di vetro ferro e cemento la dignità della memoria.
Le opere pittoriche di Günter Pusch, che emergono da un percorso artistico legato all’Informale, ci appaiono come una lucida visione poetica che delle fabbriche prende in considerazione la struttura architettonica, i volumi e gli spazi grandiosi, i macchinari e la loro funzione, gli elementi evocativi di una vita operaia sospesa nel suo svolgersi. La composizione, talvolta divisa in scomparti, si caratterizza per la particolare vocazione architettonica e costruttivista che permette all’artista di organizzare la propria visione secondo vari livelli di approssimazione alla realtà. Questo originale atteggiamento creativo, che si arricchisce grazie all’utilizzo di materiali corposi, quali il bitume e gli smalti, che danno concretezza alla trasfigurazione pittorica del soggetto, fa pensare alle Composizioni di Mario Sironi degli anni Quaranta e Cinquanta, caratterizzate da volumi sapientemente calibrati e scanditi da una pennellata densa che percorre forme sempre più sintetiche, arrivando a sfiorare nell’ultimo periodo la pittura informale.
Nelle opere di Pusch, la composizione si anima di colori e di contrasti, il segno nero dei volumi puri si staglia sulle cromie astratte con cui l’artista accende le sue tele prima di farvi penetrare la realtà industriale che lo affascina. Ogni dettaglio assume dignità di racconto: la fotografia è utilizzata dall’artista come strumento di ricerca preliminare attraverso cui cristallizzare l’esperienza diretta all’interno delle fabbriche e ricevere nuove suggestioni al momento di trasporre la propria visione nella pittura.
Colpisce la presenza ricorrente della natura, una natura generante che si insinua negli spazi lasciati liberi dall’abbandono dell’uomo, riprendendo il sopravvento sulla civiltà delle macchine vissuta nell’illusione di poter fare a meno dell’elemento naturale: le strutture industriali sembrano essere diventate grandi serre in cui la natura cresce spontanea, riportando vita e luce ove sembrava regnare soltanto il grigiore.
La stessa attenzione per questo aspetto emerge nelle fotografie di Marion Braun, affascinata dall’invadenza della natura che riemerge dal cemento e conferisce nuova vita a questi spazi, che appaiono come santuari (con divieto d’accesso) del secolo appena concluso. La fotografia diventa lo strumento perfetto per imprigionare l’emozione - simile a quella dell’archeologo - provata nel momento in cui si penetra all’interno di un luogo in cui il tempo sembra essersi fermato all’improvviso: laboratori, macchinari, strumentazioni, attrezzi, orologi sono rimasti intatti sotto la polvere, muta testimonianza di quella che somiglia a una fuga precipitosa, reperti archeologici di una Pompei dei nostri giorni.
La tensione emotiva si scioglie nella bellezza struggente di questi luoghi, sapientemente calibrata dall’artista, che sceglie di mettere in relazione gli interni con l’esterno, quasi a voler testimoniare la possibilità di liberare la sensazione malinconica che percorre queste strutture in abbandono lasciando entrare un triangolo di cielo dai vetri rotti delle finestre.
Questa possibilità di comunicazione e penetrazione tra realtà industriale e mondo esterno risulta invece completamente negata nelle sculture di William West, che modella abilmente nel marmo i solidi volumi delle fabbriche (forme piene, senza finestre e senza respiro), accanto a maschere antigas e cuffie per proteggersi dai rumori meccanici: l’immobilità e la levigata pesantezza del marmo rendono questi elementi bloccati nella loro inesorabile concretezza, privati di una reale funzione. L’artista inglese interpreta con grande originalità il potenziale narrativo e simbolico della scultura scegliendo il materiale principe della storia dell’arte plastica; tuttavia, per modellare le sue sculture si serve di scarti di lavorazione, che assembla e riporta a nuova vita, evocando la potenza espressiva del Nouveau Réalisme - tornano alla memoria le fusioni in bronzo di oggetti tratti dal quotidiano di Daniel Spoerri, ma anche le lattine di birra di Jasper Johns e le soft sculptures di Claes Oldenburg, ove l’ironia e lo spaesamento percettivo giocano un ruolo fondamentale nella critica alla società dei consumi.
In modo forse meno evidente ma molto significativo, anche per West la poetica del frammento e il recupero della memoria collettiva attraverso l’arte, già evidenziata nelle opere di Pusch e Braun, riveste particolare importanza: la trasposizione in marmo (riciclato) dei residui della realtà post-industriale permette di restituire alle fabbriche nuova dignità e di portare nei musei e nelle gallerie d’arte una originale concezione di archeologia industriale.
Günter Pusch, Marion Braun e William West dimostrano una sensibilità eccezionale nell’osservare e tradurre elementi significativi della nostra storia (produttiva, architettonica, sociale) recente in opere dotate di un particolare potere evocativo: nell’assenza quasi totale dell’elemento umano si avverte tuttavia la presenza silenziosa dei tanti lavoratori che hanno dato vita a quelle strutture.
Una presenza evanescente che acquisisce concretezza ancora maggiore grazie alla scelta di accompagnare la dimensione visiva delle opere con le musiche composte da U_inductio, realtà pavese di grande interesse che ruota attorno a Vittorio Achille, che attraverso suoni e rumori racconta del proprio originale percorso tra punk e jazz, con un occhio di riguardo per le contaminazioni artistiche - dal sonorous painting intitolato Kathedrale, realizzato da Vittorio Achille e Giovanni Squillace insieme a Günter Pusch, alle collaborazioni con Franko B e Matteo Basilé - guidandoci in quella che può essere definita un’immersione multisensoriale nell’arte.
Francesca Porreca
01
dicembre 2007
Cattedrali d’acciaio
Dal primo al 30 dicembre 2007
arte contemporanea
Location
SPAZIO PER LE ARTI CONTEMPORANEE DEL BROLETTO
Pavia, Piazza Della Vittoria, 27, (Pavia)
Pavia, Piazza Della Vittoria, 27, (Pavia)
Orario di apertura
da martedì a venerdì ore 16.30 - 19.00
sabato e domenica ore 10.30 - 12.30 / 16.30 - 19.00
chiuso il lunedì e il 25 dicembre
Vernissage
1 Dicembre 2007, ore 18
Autore
Curatore