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Cento anni di imprese per l’Italia. Immagini e sguardi d’autore
Dopo Milano, arriva a Roma la mostra per il Centenario di Confindustria con le immagini di un secolo di sviluppo del nostro Paese e quelle di dodici tra i maggiori fotografi italiani
Comunicato stampa
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È uno straordinario incontro tra storia e futuro, tra informazione ed emozione la mostra che s’inaugura il 6 ottobre a Roma al Museo dell’Ara Pacis (lungotevere in Augusta, angolo via Tomacelli) e che sarà aperta al pubblico dal 7 ottobre al 14 novembre 2010. “Cento anni di imprese per l’Italia”, la mostra realizzata in occasione del Centenario di Confindustria, è un “contenitore” in cui convivono due mostre diverse e complementari che si integrano creando un’operazione culturale unica, per di più in un luogo che è tra i più affascinanti monumenti storici della capitale.
Ad arricchire l’edizione romana della mostra, le interviste in video dei direttori di alcune delle maggiori testate italiane: Ferruccio De Bortoli, Mario Calabresi, Bruno Manfellotto, Carlo Montanaro, Giorgio Mulé e Paolo Panerai. I sei grandi giornalisti hanno indagato sfide, limiti e opportunità dell’Italia contemporanea, offrendo ciascuno una ricetta per la crescita e il benessere del Paese.
Quello che potrà ammirare il visitatore è un viaggio unico e sorprendente attraverso le immagini di cento anni di sviluppo del nostro Paese, a cui si aggiunge un altro viaggio, quello nell’Italia di oggi raccontata da dodici grandi nomi della fotografia italiana.
La “prima mostra” - curata da uno dei maggiori esperti di storia della fotografia, Cesare Colombo - raccoglie oltre trecento immagini fotografiche che accompagnano il visitatore in un viaggio attraverso cento anni d’Italia. Un viaggio diviso per 23 aree tematiche.
Volti, situazioni, luoghi industriali, prodotti, simboli, creano un percorso che va dalla memoria di un’Italia che non esiste più fino alla rappresentazione di un’Italia che sta nascendo proiettata nel futuro. Mesi di ricerche, di catalogazione, e soprattutto, di selezione hanno prodotto un risultato che esce dagli schemi e spiazza il visitatore, facendogli scoprire come l’industria sia stata protagonista del cambiamento anche, forse soprattutto, per l’incidenza sul quotidiano, sul costume, sul sociale.
Ed è proprio questo viaggio che introduce alla “seconda mostra”, dove sono esposti lavori inediti di dodici tra i maggiori fotografi italiani. Il tema macro dello sviluppo viene affrontato dai fotografi con uno sguardo personale che si rivolge a temi e situazioni particolari: dal restauro di antiche locomotive di Berengo Gardin ai Campi Flegrei di Mimmo Jodice, dal mare come elemento simbolico dell’Italia di Giorgia Fiorio agli elicotteri di Gabriele Basilico. L’insieme è un incontro per molti versi spettacolare tra mondo dell’industria, soggetti evocativi, realismo e suggestioni.
Questa parte della mostra è curata da Giovanna Calvenzi e da Ludovico Pratesi e presenta opere di Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Luca Campigotto, Lorenzo Castore, Giorgia Fiorio, Gianni Berengo Gardin, Simona Ghizzoni, Mario Guerra, Mimmo Jodice, Davide Monteleone, Ferdinando Scianna, Massimo Vitali.
La mostra è già stata esposta alla Triennale di Milano, dal 6 maggio al 6 giugno 2010.
A cura di: Giovanna Calvenzi, Cesare Colombo, Ludovico Pratesi.
Il catalogo è edito da Alinari 24Ore.
Progetto, comunicazione e organizzazione: Meet Comunicazione S.r.l.
I CURATORI
Giovanna Calvenzi
È nata a Milano dove si è laureata in Lettere nel 1973. Ha insegnato storia della fotografia per undici anni in un istituto professionale della Regione Lombardia, collaborando contemporaneamente con diverse riviste di fotografia italiane. Nel 1985 diventa photo editor di Amica, settimanale di moda del gruppo Rizzoli. Successivamente passa a Max e quindi nel 1987 a Sette, supplemento del Corriere della Sera. Nel 1990 lavora come direttore della fotografia dell'edizione italiana di Vanity Fair, di Condé Nast. È quindi direttore di Lei Glamour, sempre di Condé Nast e dal 1992 di nuovo photo editor di Moda, della Nuova ERI. Dal 1996 al gennaio 2000 è photo editor di Specchio, supplemento settimanale di La Stampa. Da febbraio 2001 è photo editor di SportWeek, supplemento settimanale di La Gazzetta dello Sport. Nel 1998 è stata direttore artistico dei Rencontres Internationales de la Photographie ad Arles e nel 2002 guest curator della V edizione di PhotoEspaña a Madrid. Dal 2002 insegna presso il Master in Editoria alla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna. Ha curato la realizzazione di numerose mostre e libri fotografici e si occupa di un'intesa attività di ricerca sulla fotografia moderna e contemporanea.
Ludovico Pratesi
Nato a Roma nel 1961, è critico d’arte e curatore e collabora dal 1985 con la Repubblica. Ha collaborato alle pagine culturali di Le Monde, Panorama, L’Espresso e Il Venerdì. Ha curato mostre internazionali come: “Molteplici Culture” (Roma, 1992), “Il Suono Rapido delle Cose” (Biennale di Venezia, 1993), “Città Natura” (Roma, 1997), “Giganti” (Roma, 2001), “Tutto Normale” (Roma, 2002), “Verso il Futuro” (Roma, 2002) e “Incontri: sette artisti contemporanei dialogano con i maestri del passato” (Roma, 2002-2003). Insegna storia dell’arte contemporanea all’Università di Reggio Calabria. Dal 2000 è direttore artistico del Centro Arti Visive “Pescheria” del Comune di Pesaro, dove ha curato la mostra: “Art files. Frontiere dell’arte digitale in Italia” (2001) e le personali di: Enzo Cucchi, Francesco Gennari, Cristiano Pintaldi, Domenico Bianchi e Mimmo Paladino, Tony Cragg, Candida Hoefer, Jan Vercruysse, Gianni Caravaggio e Candida Hoefer. Dal 2002 al 2004 è stato consulente artistico del Comune di Bari, con l’incarico di fondare il nuovo museo d’arte contemporanea della città. Dal 2004 è il direttore artistico di Fondazione Guastalla. È consigliere d’amministrazione dell’Ente Quadriennale d’Arte di Roma e consigliere dell’Amaci (Associazione Musei Arte Contemporanea Italiani).
Cesare Colombo
Nato a Milano nel 1935, affianca al lavoro di fotografo una lunga esperienza nel settore della ricerca, dell'analisi critica e dell'ordinamento di immagini storiche. Come fotografo autore, le principali mostre (con fotolibri) sono state: “Milano veduta interna” (Alinari); “Accordi. Claudio Abbado e i Berliner” (Motta); “Life Size. La misura della vita” (Imagna). Dagli anni ’60 ha prodotto servizi fotografici per riviste di architettura come Abitare e Domus e per aziende come IRI, IBM, 3M, Bayer, Ciba, Kraft, Enimont, ecc. Per Fiera Milano riprende le manifestazioni dal 1997. Nella fotografia ha come responsabile dell’Ufficio Publicità dell’Agfa Foto. È stato quindi collaboratore di Foto Magazine e Foto Film. Ha curato (per il Libro Fotografico) Francesco Negri fotografo a Casale (1841-1924). Come ricercatore ha curato numerose mostre e fotolibri per editori, aziende ed enti pubblici. Per il Comune di Milano nel 1977 ha realizzato “L'occhio di Milano. Negli anni seguenti, tra l’altro: “Italia cento anni di fotografia” (Alinari 1985); “Donna lombarda” (Electa 1987); “Scritto con la luce. Foto-cine in Italia 1917-1983” (Electa 1985); “La fabbrica di immagini” (Alinari 1988); “Umanitaria. Cent'anni di solidarietà” (Charta 1993); “Il Bel Paese” (TCI 1994). Nel 1997 ha realizzato per Alinari e Telecom “Un paese unico”. Nel 2003 (Edizioni Agorà) Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Nel 2004 il fotolibro Ferrania: storie e figure. (De Agostini). Nel 2005 ha curato la sezione Fotografia della rassegna Anni Cinquanta a Milano. È insegnante di Storia della Fotografia all’Accademia di Brera, Milano.
OLIVO BARBIERI. Marghera 2009
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
In questo progetto per lavoro si intende la grande industria, che da decenni in tutto il mondo è in totale cambiamento. In assoluto è un soggetto di estremo interesse: anche a Detroit nell’ultimo anno sono parecchi gli artisti che hanno lavorato nell’area delle fabbriche automobilistiche abbandonate.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Si tratta di luoghi estremamente complessi e articolati, forse affrontare più temi sarebbe stato complicato e difficilmente esaustivo. Sono tutte, per ragioni diverse, aree sensibili.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Nel 1996 ho partecipato al progetto “Venezia-Marghera. Fotografie e trasformazioni nella città contemporanea” a cura di Paolo Costantini. È stata un’esperienza molto interessante. Nel 1997 è stata presentata alla Biennale di Venezia di Germano Celant. Dopo tredici anni vedere a che punto fosse la riconversione di questa area a ridosso di una città come Venezia è stato decisivo per determinarne la scelta. Inoltre potevo stabilire un dialogo e una continuità con il progetto precedente.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho sorvolato la zona con un elicottero. Ho realizzato molte immagini ma ne ho selezionate pochissime.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Dal 2003 realizzo progetti che hanno coinvolto città come Roma, Montreal, Amman, Las Vegas, Shanghai, New York, Brasilia, Bangkok etc. Questo progetto si inserisce idealmente in questa serie di lavori dal titolo site specific attraverso i quali cerco di rileggere il mondo come fosse una installazione temporanea, non eterna, in fase di trasformazione, come Marghera appunto.
GABRIELE BASILICO. Agusta Westland
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Penso che il lavoro, anche prima della rivoluzione industriale, sia il tema centrale della vita dell’uomo. Ne determina i comportamenti, le abitudini, influenza la società nel suo evolversi e ne modifica gli scenari (cioè l’habitat, come ad esempio, con il cambiamento del rapporto dimensionale e sociale tra città e campagna).
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Sono abituato a lavorare con e nello spazio. Descrivere e interpretare uno spazio costruito intorno a un’identità che si riconosce in un marchio di fabbrica o in un processo produttivo è per me un approccio naturale che può consentire una scelta narrativa oppure simbolica, e che porta spesso a rivelare aspetti imprevedibili e interessanti.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Fin da bambino, e ancora oggi, l’elicottero ha eccitato la mia fantasia. Mi ha sempre incuriosito immaginare quello che c’era all’interno, nascosto sotto la carrozzeria, scoprire le migliaia di cavi, aggeggi, ingranaggi, scoprire l’architettura del motore, la qualità della meccanica e la sua forma ed estetica, ma soprattutto mi domandavo come facesse quella massa metallica di diverse tonnellate a sollevarsi nel cielo e danzare e muoversi con sorprendente agilità. Il cinema, poi (da Apocalypse now al recentissimo Avatar) ha dato il suo contributo alla creazione del mito, anche se, purtroppo, portatore di violenza e aggressività.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
In tutta la mia carriera ho privilegiato l’interesse per lo spazio, mi sono impegnato a osservare e a riprendere quello che mi sta intorno scegliendo dei punti da cui lanciare lo sguardo. In questo lavoro, accanto a qualche immagine d’insieme che corrisponde a questa mia tradizione, cioè la visione dell’interno, ravvicinata e materica. Un vero tavolo operatorio dove l’anatomopatologo della documentazione-visione prende atto di ciò che sta scoprendo e lo rappresenta anche attraverso una scelta estetico-compositiva oltre che rivelatrice-informativa.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Apparentemente, a parte la descrizione dello spazio nei vari comparti produttivi della fabbrica, questo potrebbe sembrare un progetto ai margini del mio lavoro, tradizionalmente dedicato alla città e al paesaggio urbano, se non ci fossero stati, nei trent’anni della mia attività, frequenti incursioni nell’industria produttivamente attiva e in anni più recenti in ordine con gli eventi epocali, anche nell’industria dismessa.
GIANNI BERENGO GARDIN. Italvapore, Pistoia
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l´Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il tema del lavoro è ricorrente nella mia attività, presente in forme molto diverse. Ho fotografato tante categorie di lavoratori, dagli operai nelle fabbriche alle donne che lavorano in casa, dunque il tema di quest’iniziativa si è inserito benissimo in una ricerca che porto avanti da molti anni.
Quali riflessioni sono scaturite dall´impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l´attenzione su un unico tema all´interno di una problematica così complessa?
Ho scelto di fotografare un tema che mi pareva interessante e curioso, che riguarda il restauro delle vecchie locomotive ferroviarie.
Com´è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L´argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Qualche tempo fa avevo fatto un servizio fotografico sulla linea ferroviaria della Porrettana, che va da Porretta a Pistoia. In quell’occasione ho conosciuto un gruppo di ragazzi che fanno parte di un’associazione no profit, che restaurano le vecchie locomotive in disuso perché possano essere riutilizzate per manifestazioni di carattere storico o commemorativo. Sono persone molto dedite, che lo fanno per passione e non per denaro. Così ho fatto un viaggio apposta per fotografarli mentre lavoravano nei loro capannoni a Pistoia, dove ci sono una trentina di locomotive.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho ripreso le ruote giganti, le caldaie delle locomotive a vapore, i vari processi di manutenzione dei mezzi: un mondo interessante che sta scomparendo.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all´interno della tua poetica?
Ho voluto dare un segnale forte, che riguardasse il passato dell’Italia attraverso la ferrovia, e il presente di un gruppo di persone che vogliono ricostruire un pezzo di storia che tra qualche anno non esisterà più.
LUCA CAMPIGOTTO. Piaggio, Pontedera
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso il lavoro?
Mi occupo da sempre di fotografi a per le aziende, l’interesse per questo incarico è stato immediato. Fotografare le strutture industriali, le macchine, i grandi impianti è sempre stata una mia passione. Soprattutto, mi interessava partecipare a un’iniziativa che ha una curatela e dove sono coinvolti autori che stimo.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
La documentazione del mondo del lavoro è un tema talmente vasto che può essere affrontato solo focalizzandosi su aspetti specifici.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
È stato interessante avere a che fare con la linea di produzione della Vespa. Mi sono concentrato sull’ambiente, com’è mia abitudine, fotografando lo spazio nel suo complesso e la catena di montaggio.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho scelto di fare delle riprese panoramiche per dar conto dell’insieme, dell’atmosfera complessiva della fabbrica, che trovo sempre evocativa, facendo in modo che la silhouette iconica della Vespa si distinguesse con chiarezza. Mi interessava veder emergere la forma inequivocabile di un “mito” dal caos dell’ambiente produttivo, che ho rappresentato parzialmente mosso cercando di dare un senso di frenesia all’immagine. Le moto, invece, sono perfettamente a fuoco, nitidissime nell’alta definizione del loro rosso.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Da anni lavoro e stampo in digitale per fruire delle potenzialità di postproduzione dell’immagine. Il digitale ha aperto strade un tempo inimmaginabili e mi permette di sperimentare meglio la mia visione. Con il computer posso calibrare la luce di un’immagine, trovare il mio colore, dissolvere i colori nel bianco e nero. Ho praticato a lungo una sorta di rigore purista per imparare una disciplina della visione. Oggi sento il bisogno di contaminare gli ambiti di cui mi occupo: ho iniziato a fare dei progetti dove la scrittura interagisce con la fotografia, mi sono affacciato al video. Il mio immaginario lavora meglio, e mi sento più libero.
LORENZO CASTORE. Ritratti
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Avevo già sentito parlare del centenario di Confindustria. Mi aveva sorpreso, non credevo avesse cent’anni. Mi è sembrato subito un argomento interessante perché Confindustria, oltre a essere l’organo della classe dirigente italiana, ha anche accompagnato la storia moderna del Paese passando attraverso la fine della monarchia, due guerre mondiali, il fascismo e la storia repubblicana fino a oggi. Volevo fotografare gli industriali nei loro salotti, dove si ricevono gli ospiti. Sono ambienti che dicono molto della persona che li abita, della sua storia personale, delle sue tradizioni familiari legate alle origini sociali, geografi che e di destino.
Con eccezioni. Quindi è stata un’idea che ho cominciato a sviluppare per conto mio, l’incarico è arrivato dopo.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
L’idea è semplice. Si parla di una classe sociale che rappresenta un élite e il motore economico di uno dei Paesi per definizione industrializzati. È composta da membri di famiglie dell’industria aristocratica e storica, dalla borghesia che si è reinventata o che ha sviluppato le proprie attività fino a dar loro una connotazione industriale e da chi ha costruito qualcosa dal nulla. L’Italia è un Paese composto da forze e storie molto differenti, che hanno tutte concorso allo sviluppo e alla formazione dell’identità di uno Stato relativamente giovane. Parallelamente a queste considerazioni e a questo approccio storico-antropologico ci sono stati gli incontri: persone che mi hanno aperto le porte della loro casa, tra un appuntamento e l’altro, che hanno trovato il tempo, che si sono fidati della mia presenza. C’è un’idea e poi ci sono persone in carne e ossa, con i loro pensieri, impegni, problemi, urgenze. Loro e la loro storia, che è anche un po’ la nostra, e le mie visite un dato giorno sono il soggetto di queste fotografie.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
La decisione di affrontare il tema da questa prospettiva è stata immediata. È stata la prima cosa che mi è venuta in mente e nel tempo mi è sembrata sempre più convincente e interessante.
Poi si è trattato di decidere un canone: un lavoro del genere aveva una necessità di rigore, sia nella scelta dei soggetti che del linguaggio visivo. Non conoscendo le persone che avrei incontrato ho deciso di fotografarle da una certa distanza, come parte di un interno. Poiché l’idea iniziale si basa su un concetto molto preciso, ho cercato di mettermi nella condizione più aperta possibile alla sorpresa e all’imprevisto affidandomi alla luce naturale e all’incognita dell’ambiente e della fisionomia dei soggetti. Quando si pratica la fotografi a con un eccesso di confidenza, come ogni altra cosa, c è il rischio che diventi noiosa per chi la fa e per chi la guarda. Non posso pretendere di avere con un soggetto che non conosco una confidenza che non ho. Quindi per riuscire a dire qualcosa era importante essere credibile. L’intenzione non è stata fare agiografi a ma tentare di dire qualcosa. C’è un’idea e c’è un’esperienza, non tesi prestabilite da dimostrare.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Per me la fotografia è un mezzo, non il fine del mio lavoro. La ricerca estetica senza contenuto conta molto poco. Questa è una serie nella quale il canone estetico è unico e radicale: un soggetto che fa parte di una specifica categoria sociale ritratto a distanza nel suo ambiente domestico.
Ma è funzionale all’idea di un’implicazione antropologica e storica che tuttavia sarebbe nulla senza l’esperienza diretta, senza l’umore del tempo passato insieme. Che sono un’incognita ma anche l’aspetto più eccitante e misterioso di un incontro e della fotografi a in sé.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Cerco di lavorare a quello che mi piace nel modo che mi piace: credo che questo voglia dire cercare di essere me stesso e di vivere nel più profondo senso del termine. Di per sé un’impresa molto difficile che richiede tutta la mia energia migliore. La fotografia per certi versi può essere assimilata alla letteratura: ci sono tanti modi di scrivere e tante cose di cui scrivere: può essere un racconto, una poesia, un saggio, un testo scientifico, un romanzo, una lettera
d’amore, un diario e cosi via, a seconda di cosa si vuole comunicare e come. E la stessa persona secondo le circostanze scriverà in modo diverso utilizzando il linguaggio che sentirà più vicino a quello che ha da dire al destinatario delle sue parole. Quando si fotografa qualcuno c’è un’interazione personale immediata, si è comunque in due. Mi interessa tutto quello che crea tensione, il grande che contiene il piccolo, il bene che contiene il male e viceversa, la lotta tra gli opposti per creare dubbi, dare da pensare, smuovere qualcosa. Questo è un impegno che mi impedisce di preoccuparmi di valutare volta per volta quello che faccio in relazione alla mia eventuale poetica, che comunque dovrebbero essere gli altri a prendere in considerazione. Cerco di fare quello che devo fare e farlo meglio, con la speranza che il mio lavoro conservi una energia speciale più che il rispetto di un canone estetico.
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GIORGIA FIORIO. Rive d’Italia
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l´Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Avendo trascorso gli ultimi vent’anni all’estero, in un numero dimenticato di Paesi lontani, l’opportunità di lavorare sull’Italia contemporanea corrispondeva a un irrinunciabile desiderio di porre a confronto la memoria dell’immaginario con il presente reale.
Quali riflessioni sono scaturite dall´impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l´attenzione su un unico tema all´interno di una problematica così complessa?
In un’idea prospettica dell’Italia vista “da fuori” ho immaginato di visualizzarne “l’espressione geografica”, l’orizzonte di quei confini naturali che la determinano. Così, avendo realizzato un lavoro sui confini del Nord che corrono da Est a Ovest erti di vette e di rocce, ho desiderato proseguire il tracciato del mio percorso lungo le Rive d’Italia: da Trieste a Ventimiglia, passando da Sud.
Com´è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L´argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Nello stesso istante in cui ho concepito questo lavoro intorno al perimetro della Penisola, ho pensato all’orizzonte del mare, a come, via via lungo le coste Italiane, sembri scendere e salire, avvicinarsi e allontanarsi sulla linea dello sguardo. Ho pensato a quanto diversi tra loro siano di fatto i mari d’Italia e non soltanto per come diversamente appaiono dentro agli occhi, ma per tutto ciò che rappresentano da un punto di vista storico, economico, sociale e nell’immaginario popolare. Mi è parso che, proprio come “tutta l’Arte è stata contemporanea”, quel mare di cui l’Italia si cinge in un cerchio immutabile, sia assolutamente inscindibile dalla realtà contemporanea in cui s’iscrive.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Il nostro sguardo è il primo confi ne con il mondo ed è sempre un confronto, così la fotografi a: si trattava dunque di porre la contingenza del reale dinanzi alla visione immaginaria. Il mare del mito, il mare delle vacanze, il mare dei pescatori, il mare dei marinai, il mare dell’industria, il mare della storia… L’idea dei diversi mari d’Italia, su cui ognuno di noi proietta un diverso immaginario visuale, concretamente ognuno dinanzi al mare di ogni riva che ho fotografato, quello dell’ora di quell’istante. La velocità del vento sulle onde un giorno di tempesta sotto Latina; un pomeriggio di novembre la temperatura dell’acqua nel porto di Brindisi; la trasparenza del cielo di mezzogiorno sferzata sulle rotaie di un litorale Adriatico, la riga di spuma che scivola sulla sabbia un mattino prima dell’alba, l’immota lacustre compattezza del golfo di La Spezia dopo la pioggia…
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all´interno della tua poetica?
Le fotografi e in quanto confronto non sono mai risposte bensì domande – aperte – posate sul mondo che osservo. Per ognuno che guarda le mie fotografi e, come per me che racconto, ognuna è una diversa domanda e un diverso confronto con il reale. Rive d’Italia rimane un lavoro – in corso – che ancora m’interroga e interroga il territorio dell’immaginario e la realtà del mio Paese a centocinquant’anni dalla sua nascita.
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SIMONA GHIZZONI. Cura dei Disturbi Alimentari
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
L’idea di riflettere sull’importanza del lavoro in Italia oggi, in un momento in cui di lavoro, o della sua mancanza, si parla quotidianamente, mi ha fatto accettare subito la proposta. Mi è stata data la possibilità di trattare un tema che mi è molto caro, la cura dei disturbi dell’alimentazione. Il lavoro svolto dai tre centri che ho visitato in Italia (il centro di riferimento per la cura e la riabilitazione dei disturbi del comportamento alimentare e del peso ASSL 10 di Portogruaro, la Residenza Palazzo Francisci di Todi e il Centro G. Gioia di Chiaromonte) è difficile e fondamentale. Si tratta di centri pubblici guida per la cura dei disturbi del comportamento alimentare, che ogni anno aiutano decine e decine di ragazze e ragazzi a uscire da una malattia invalidante e in alcuni casi mortale.
Quali riflessioni sono scaturite dall impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Non credo ci sia un altro modo per affrontare un tema vasto come il lavoro in Italia se non partendo da piccole storie, che diventino emblema e affresco della situazione di oggi. La cura dei disturbi dell’alimentazione è parte della storia della sanità in Italia, e di come si stia adeguando a nuove malattie da affrontare. Fino a dieci anni fa non esistevano centri per il trattamento residenziale dei disturbi del comportamento alimentare, quindici anni fa le medicine che servivano per la cura di questo tipo di disturbi non erano nemmeno mutuabili. Oggi finalmente la sanità pubblica inizia a prendersi cura dei casi più gravi all’interno di centri specializzati, nei quali i pazienti hanno la possibilità di iniziare un percorso di guarigione e di evitare la cronicizzazione del disturbo.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Da diversi anni lavoro su questo tema, ma mi sono sempre concentrata sulle singole storie delle ragazze che ho fotografato. Non avevo mai pensato veramente all’aspetto del lavoro svolto dalle équipe mediche e paramediche all’interno dei centri e alla loro relazione con le pazienti. Mi sono accorta che nel tempo questa relazione diventa molto stretta. I pazienti restano ricoverati per diversi mesi, di solito quattro, ma la regola può variare a seconda della gravità dei casi. In questo periodo le ragazze hanno un grande bisogno di figure di riferimento, che le aiutino a uscire da un pensiero ossessivo e le riportino ad avere fiducia in se stesse, e che diano loro regole, ma anche affetto. La relazione tra operatori e pazienti diventa allora qualcosa di estremamente complesso e profondo, un contatto e una fiducia che le ragazze imparano nuovamente ad avere, spesso dopo mesi o anni di isolamento assoluto dal mondo esterno.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho ritratto le ragazze, nei loro momenti di solitudine e di isolamento, perché questa è la base della malattia: la sfiducia nel mondo, la paura che il contatto possa ferire. E ho ritratto alcuni piccoli momenti di vicinanza tra loro o assieme alle operatrici, di contatto fisico, di affetto. Questa è la base della guarigione e quindi del lavoro, quasi invisibile, che si svolge lentamente dentro i centri.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Il filo rosso della mia ricerca fotografica riguarda la condizione della donna, e ho sempre desiderato raccontarla anche nell’Italia di oggi. Per questo ho iniziato a occuparmi di disturbi dell’alimentazione, così come di violenza domestica. Considero il lavoro prodotto per questa iniziativa come un capitolo della mia ricerca, sotto un angolo leggermente diverso, ma che rientra nelle finalità del mio lavoro, che sono far comprendere e rispettare una malattia troppo spesso associata a un capriccio da adolescenti e che invece coinvolge persone di tutte le età e rivela un disagio profondo.
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DAVIDE MONTELEONE. Ducati Factory
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il racconto per immagini e la documentazione del lavoro si iscrivono nella tradizione del fotogiornalismo e della fotografi a documentaria, la stessa che porto avanti da quando ho intrapreso questa professione. Molto è cambiato nell’ambito del lavoro nell’Italia contemporanea: le tecnologie, lo sviluppo, la creatività. Ho colto l’occasione di questo progetto per aggiungere un piccolo tassello alla documentazione dell’Italia di oggi dal punto di vista del lavoro, che è alla base dello sviluppo dell’economia e della società di ogni Paese.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Il racconto per immagini parte spesso da una piccola storia che possa essere esempio di molte altre. Applico questo principio a ogni progetto: seleziono un soggetto, elaboro un linguaggio e lo realizzo perché possa trasmettere il messaggio che intendo comunicare. Il tema del lavoro è pieno di sfaccettature: la condizione dell’uomo, lo sviluppo tecnologico, gli aspetti sociali, l’innovazione...
Per questo è difficile racchiudere in un solo progetto tutti questi aspetti e riuscire a ritrarne almeno uno era l’obiettivo che mi prefiggevo. Uno sguardo particolareggiato su un mondo complesso che possa far scaturire curiosità e domande più che dare risposte.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Ho scelto innanzitutto un soggetto per cui avevo una curiosità personale, un elemento fondamentale per realizzare un buon lavoro. All’interno dei miei interessi ho poi selezionato un’azienda che potesse rappresentare l’eccellenza italiana e il processo di produzione. Ero interessato al processo produttivo, alle fasi di lavoro che grazie alla creatività, all’ingegno e al know how permettono a un’azienda di creare, in un modo quasi artigianale, un prodotto tecnologicamente avanzato e rinomato nel mondo.
È proprio su questo processo che ho tentato di focalizzare la mia attenzione attraverso immagini che ritraessero l’azione della creazione, del montaggio, della nascita del prodotto.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ero affascinato dal processo di montaggio dei diversi componenti che porta alla realizzazione di una motocicletta, dai vari elementi alla padronanza nel metterli insieme fino al risultato finale, con l’ausilio della maestria, dell’esperienza e della passione. Ho tentato di riportare questo processo anche nella scelta espressiva, e ho deciso di comporre anch’io ogni immagine attraverso l’assemblaggio di due o più fotografi e. Ho composto questi elementi seguendo il processo cronologico della catena di montaggio, per sottolinearne appunto l’aspetto più significativo.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Mi spingo normalmente in paesi lontani per stimolare la mia espressività e soddisfare le mie curiosità. Nondimeno in questo caso, sia pure nel mio Paese e affrontando un tema non particolarmente vicino alle mie consuetudini professionali, ho applicato l’esperienza del lavoro fatto fino a oggi prendendomi la libertà di sperimentare tecniche espressive che mi saranno certamente utili in futuro. Credo che la costruzione di una poetica sia il frutto di tentativi, curiosità e riflessioni: un processo in continuo sviluppo. La fotografi a è uno strumento eccellente per elaborare questo processo, perché dà la possibilità di misurarsi con tematiche diverse e situazioni sempre varie, e per questo non può che essere di stimolo allo sviluppo di un linguaggio e di uno stile che possa divenire personale.
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MARIO GUERRA. Materia e Memoria, Carrara
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il mio profilo professionale è maggiormente legato alla fotografi a industriale e pubblicitaria, e quindi l’occasione di raccontare l’Italia contemporanea attraverso una visione libera e personale mi è sembrata stimolante.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
La mia scelta è indirizzata verso la relazione tra materia e memoria, legata alle cave di marmo di Carrara, sulle Alpi Apuane. Una tradizione antica, che ha permesso la nascita di tanti capolavori realizzati dai nostri artisti dal Medioevo a oggi, che ho voluto interpretare però senza trionfalismi, con un occhio all’essenza del marmo all’interno delle cave. Uno sguardo intimo, minimale, che esplora la natura del materiale e la sua duttilità.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Ho voluto proporre un’immersione dentro i segreti del mondo minerale, senza eccedere nella narrazione, ma puntando verso una dimensione estetica ricercata attraverso un vocabolario essenziale.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho lavorato al progetto alcuni mesi, e ho trascorso a Carrara quattro giorni intensi, a camminare all’interno delle cave per osservare la vita che vi si svolgeva. Un mondo particolare, nel quale ci si può perdere, e io mi sono perso . È stata un’esperienza forte, intensa, a tratti rischiosa. Necessaria per poter cogliere l’anima del marmo, le tracce infinitesimali della sua antichissima origine, e trasmetterle con immagini intime, quasi segrete,
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Di norma non espongo in gallerie e musei, ma questa volta il progetto mi ha convinto ad accettare la sfida di raccontare un universo monumentale e complesso come le cave di marmo attraverso dettagli quasi invisibili a occhio nudo, simili a paesaggi interiori, che vivono di sfumature, imperfezioni e tracciati impercettibili come quelli dell’animo umano.
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MIMMO JODICE. Campi Flegrei
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il progetto di Confindustria è interessante per l’attenzione che mostra per i mutamenti delle nostre città, delle periferie, dell’ambiente. Un riferimento alle campagne fotografi che fatte dagli Alinari e da Broggi nel secolo passato. Dove non solo le città e i loro mutamenti sono stati oggetti di studio, ma anche ciò che non era contemporaneo in quel momento e che tuttavia faceva parte del tessuto storico della nazione.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Per questa ragione mi è sembrato giusto rivolgere la mia attenzione all’archeologia. Trovo che tale scelta sia pregnante, perché per me è importante il nostro rapporto con il passato. Penso che il nostro futuro non avrà basi solide se non terremo conto del nostro passato.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari? Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho scelto di lavorare nella zona occidentale della città di Napoli, i Campi Flegrei. Non posso dire che sia un luogo poco conosciuto ma è certamente poco frequentato. In questi luoghi, di straordinaria ricchezza archeologica, si continua a lavorare molto per la loro conservazione e fruibilità. Chi conosce il mio lavoro sa che nasce seguendo un progetto: in questo caso volevo mostrare la grande bellezza dei luoghi in modo semplice, con il mio solito bianco/nero e la
mia tecnica abituale.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
I siti archeologici non sono mai stati luoghi morti per me. Essi sono spazi in movimento, ricchi di colore, di voci e di personaggi, con i quali dialogo e parlo del presente e del futuro.
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FERDINANDO SCIANNA. Petrolio in Val D’agri
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Di mestiere faccio il fotografo. Mi è sembrata una buona proposta professionale.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Grosso tema, poche immagini. Questa laconicità mi è sembrata stimolante.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Sapevo di questa importante impresa industriale in Basilicata. Mi pareva che fosse poco nota. La ragione che soprattutto mi ha spinto a sceglierla è la curiosità. La mia tecnica narrativa è la stessa da quasi cinquant’anni. Vado in un posto e cerco di mostrare al meglio quello che ho visto e capito.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Io sono un fotografo-fotografo. Lo so che adesso per fare capire quello che faccio bisogna che lo ripeta due volte. Speriamo di non arrivare a tre. Le modalità espressive sono quelle di sempre: racconta e non fare il furbo.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Le poetiche le hanno gli artisti. Se le hanno. E le definiscono gli altri. Che uno se le dichiari da solo lo trovo imbarazzante. Quando non comico. Io, poi, non sono per nulla un artista. Faccio il fotografo.
“Secondo alcune leggende tramandate e testimoniate le popolazioni lucane assistevano fin dal XV secolo al manifestarsi di lingue di fuoco sui monti dell’Appennino; si trattava del fenomeno delle “fiaccole” che segnavano il bruciare del metano che fuoriusciva dalla terra.
Ancora oggi, in alcuni punti del Rio del Cavolo, un affluente destro dell’Agri, che scorre ad ovest di Tramutola, si possono vedere piccole sorgenti dalle quali, assieme all’acqua, escono con una certa frequenza bollicine di gas idrocarburi e gocce più o meno grandi di petrolio semileggero, di colore bruno ambraceo. Così comincia la storia del gas e del petrolio della Basilicata.
Che là sotto ci fosse petrolio lo si scoprì tanto dopo, all’inizio del ‘900. Ma è grazie all’intuizione di Enrico Mattei che negli anni ‘60 comincia l’avventura dell’energia in Basilicata. Prima con il gas trovato nella Val Basento e la raffineria di Pisticci. In tempi recenti con il petrolio della Val d’Agri.
Oggi da quei pozzi si estraggono 100.000 barili di greggio al giorno, il dieci per cento del fabbisogno nazionale. Una grande realtà che è anche una grande avventura tecnica e industriale.
In quella terra convivono ancora realtà in sostanziale contraddizione.
A Tramutola si vedono ancora molte donne chine alla sorgente a lavare i panni a mano. Il sapone in superficie assomiglia un poco alle gocce di petrolio che affiorano poco lontano sul Rio Cavolo.
A pochi chilometri i pozzi di petrolio, la terra attraversata dai tubi che convogliano il greggio al centro oli di Viaggiano, che illumina la notte come una speranza di diverso futuro.”
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MASSIMO VITALI. Metropolitana, Roma
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l´Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
I percorsi dei fotografi sono sempre complessi e contraddittori. Sarebbe bello poter rispondere con precisione alle tue domande ma considero inerente alla fotografi a un aspetto ambiguo e sfuggente.
Quali riflessioni sono scaturite dall´impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l´attenzione su un unico tema all´interno di una problematica così complessa?
Il tempo dedicato alle riprese all’interno dell’anno è per me relativamente limitato e questo tempo si divide ulteriormente in lavori vari, commissioni e ricerca personale.
Com´è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L´argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Ero interessato ai cantieri della metropolitana di Roma ma stavo cercando di far tornare i conti dato che non sono proprio abituato alla foto di architettura. Mi sembrava comunque di fotografare un’operazione chirurgica a cuore aperto nella città. I tagli dei cantieri fanno apparire il tessuto della media periferia romana. Questo aspetto mi è sembrato interessante. Quasi un cantiere di un archeologo che tagliando rivela le stratificazioni della storia.
Ad arricchire l’edizione romana della mostra, le interviste in video dei direttori di alcune delle maggiori testate italiane: Ferruccio De Bortoli, Mario Calabresi, Bruno Manfellotto, Carlo Montanaro, Giorgio Mulé e Paolo Panerai. I sei grandi giornalisti hanno indagato sfide, limiti e opportunità dell’Italia contemporanea, offrendo ciascuno una ricetta per la crescita e il benessere del Paese.
Quello che potrà ammirare il visitatore è un viaggio unico e sorprendente attraverso le immagini di cento anni di sviluppo del nostro Paese, a cui si aggiunge un altro viaggio, quello nell’Italia di oggi raccontata da dodici grandi nomi della fotografia italiana.
La “prima mostra” - curata da uno dei maggiori esperti di storia della fotografia, Cesare Colombo - raccoglie oltre trecento immagini fotografiche che accompagnano il visitatore in un viaggio attraverso cento anni d’Italia. Un viaggio diviso per 23 aree tematiche.
Volti, situazioni, luoghi industriali, prodotti, simboli, creano un percorso che va dalla memoria di un’Italia che non esiste più fino alla rappresentazione di un’Italia che sta nascendo proiettata nel futuro. Mesi di ricerche, di catalogazione, e soprattutto, di selezione hanno prodotto un risultato che esce dagli schemi e spiazza il visitatore, facendogli scoprire come l’industria sia stata protagonista del cambiamento anche, forse soprattutto, per l’incidenza sul quotidiano, sul costume, sul sociale.
Ed è proprio questo viaggio che introduce alla “seconda mostra”, dove sono esposti lavori inediti di dodici tra i maggiori fotografi italiani. Il tema macro dello sviluppo viene affrontato dai fotografi con uno sguardo personale che si rivolge a temi e situazioni particolari: dal restauro di antiche locomotive di Berengo Gardin ai Campi Flegrei di Mimmo Jodice, dal mare come elemento simbolico dell’Italia di Giorgia Fiorio agli elicotteri di Gabriele Basilico. L’insieme è un incontro per molti versi spettacolare tra mondo dell’industria, soggetti evocativi, realismo e suggestioni.
Questa parte della mostra è curata da Giovanna Calvenzi e da Ludovico Pratesi e presenta opere di Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Luca Campigotto, Lorenzo Castore, Giorgia Fiorio, Gianni Berengo Gardin, Simona Ghizzoni, Mario Guerra, Mimmo Jodice, Davide Monteleone, Ferdinando Scianna, Massimo Vitali.
La mostra è già stata esposta alla Triennale di Milano, dal 6 maggio al 6 giugno 2010.
A cura di: Giovanna Calvenzi, Cesare Colombo, Ludovico Pratesi.
Il catalogo è edito da Alinari 24Ore.
Progetto, comunicazione e organizzazione: Meet Comunicazione S.r.l.
I CURATORI
Giovanna Calvenzi
È nata a Milano dove si è laureata in Lettere nel 1973. Ha insegnato storia della fotografia per undici anni in un istituto professionale della Regione Lombardia, collaborando contemporaneamente con diverse riviste di fotografia italiane. Nel 1985 diventa photo editor di Amica, settimanale di moda del gruppo Rizzoli. Successivamente passa a Max e quindi nel 1987 a Sette, supplemento del Corriere della Sera. Nel 1990 lavora come direttore della fotografia dell'edizione italiana di Vanity Fair, di Condé Nast. È quindi direttore di Lei Glamour, sempre di Condé Nast e dal 1992 di nuovo photo editor di Moda, della Nuova ERI. Dal 1996 al gennaio 2000 è photo editor di Specchio, supplemento settimanale di La Stampa. Da febbraio 2001 è photo editor di SportWeek, supplemento settimanale di La Gazzetta dello Sport. Nel 1998 è stata direttore artistico dei Rencontres Internationales de la Photographie ad Arles e nel 2002 guest curator della V edizione di PhotoEspaña a Madrid. Dal 2002 insegna presso il Master in Editoria alla Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna. Ha curato la realizzazione di numerose mostre e libri fotografici e si occupa di un'intesa attività di ricerca sulla fotografia moderna e contemporanea.
Ludovico Pratesi
Nato a Roma nel 1961, è critico d’arte e curatore e collabora dal 1985 con la Repubblica. Ha collaborato alle pagine culturali di Le Monde, Panorama, L’Espresso e Il Venerdì. Ha curato mostre internazionali come: “Molteplici Culture” (Roma, 1992), “Il Suono Rapido delle Cose” (Biennale di Venezia, 1993), “Città Natura” (Roma, 1997), “Giganti” (Roma, 2001), “Tutto Normale” (Roma, 2002), “Verso il Futuro” (Roma, 2002) e “Incontri: sette artisti contemporanei dialogano con i maestri del passato” (Roma, 2002-2003). Insegna storia dell’arte contemporanea all’Università di Reggio Calabria. Dal 2000 è direttore artistico del Centro Arti Visive “Pescheria” del Comune di Pesaro, dove ha curato la mostra: “Art files. Frontiere dell’arte digitale in Italia” (2001) e le personali di: Enzo Cucchi, Francesco Gennari, Cristiano Pintaldi, Domenico Bianchi e Mimmo Paladino, Tony Cragg, Candida Hoefer, Jan Vercruysse, Gianni Caravaggio e Candida Hoefer. Dal 2002 al 2004 è stato consulente artistico del Comune di Bari, con l’incarico di fondare il nuovo museo d’arte contemporanea della città. Dal 2004 è il direttore artistico di Fondazione Guastalla. È consigliere d’amministrazione dell’Ente Quadriennale d’Arte di Roma e consigliere dell’Amaci (Associazione Musei Arte Contemporanea Italiani).
Cesare Colombo
Nato a Milano nel 1935, affianca al lavoro di fotografo una lunga esperienza nel settore della ricerca, dell'analisi critica e dell'ordinamento di immagini storiche. Come fotografo autore, le principali mostre (con fotolibri) sono state: “Milano veduta interna” (Alinari); “Accordi. Claudio Abbado e i Berliner” (Motta); “Life Size. La misura della vita” (Imagna). Dagli anni ’60 ha prodotto servizi fotografici per riviste di architettura come Abitare e Domus e per aziende come IRI, IBM, 3M, Bayer, Ciba, Kraft, Enimont, ecc. Per Fiera Milano riprende le manifestazioni dal 1997. Nella fotografia ha come responsabile dell’Ufficio Publicità dell’Agfa Foto. È stato quindi collaboratore di Foto Magazine e Foto Film. Ha curato (per il Libro Fotografico) Francesco Negri fotografo a Casale (1841-1924). Come ricercatore ha curato numerose mostre e fotolibri per editori, aziende ed enti pubblici. Per il Comune di Milano nel 1977 ha realizzato “L'occhio di Milano. Negli anni seguenti, tra l’altro: “Italia cento anni di fotografia” (Alinari 1985); “Donna lombarda” (Electa 1987); “Scritto con la luce. Foto-cine in Italia 1917-1983” (Electa 1985); “La fabbrica di immagini” (Alinari 1988); “Umanitaria. Cent'anni di solidarietà” (Charta 1993); “Il Bel Paese” (TCI 1994). Nel 1997 ha realizzato per Alinari e Telecom “Un paese unico”. Nel 2003 (Edizioni Agorà) Lo sguardo critico. Cultura e fotografia in Italia 1943 – 1968. Nel 2004 il fotolibro Ferrania: storie e figure. (De Agostini). Nel 2005 ha curato la sezione Fotografia della rassegna Anni Cinquanta a Milano. È insegnante di Storia della Fotografia all’Accademia di Brera, Milano.
OLIVO BARBIERI. Marghera 2009
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
In questo progetto per lavoro si intende la grande industria, che da decenni in tutto il mondo è in totale cambiamento. In assoluto è un soggetto di estremo interesse: anche a Detroit nell’ultimo anno sono parecchi gli artisti che hanno lavorato nell’area delle fabbriche automobilistiche abbandonate.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Si tratta di luoghi estremamente complessi e articolati, forse affrontare più temi sarebbe stato complicato e difficilmente esaustivo. Sono tutte, per ragioni diverse, aree sensibili.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Nel 1996 ho partecipato al progetto “Venezia-Marghera. Fotografie e trasformazioni nella città contemporanea” a cura di Paolo Costantini. È stata un’esperienza molto interessante. Nel 1997 è stata presentata alla Biennale di Venezia di Germano Celant. Dopo tredici anni vedere a che punto fosse la riconversione di questa area a ridosso di una città come Venezia è stato decisivo per determinarne la scelta. Inoltre potevo stabilire un dialogo e una continuità con il progetto precedente.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho sorvolato la zona con un elicottero. Ho realizzato molte immagini ma ne ho selezionate pochissime.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Dal 2003 realizzo progetti che hanno coinvolto città come Roma, Montreal, Amman, Las Vegas, Shanghai, New York, Brasilia, Bangkok etc. Questo progetto si inserisce idealmente in questa serie di lavori dal titolo site specific attraverso i quali cerco di rileggere il mondo come fosse una installazione temporanea, non eterna, in fase di trasformazione, come Marghera appunto.
GABRIELE BASILICO. Agusta Westland
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Penso che il lavoro, anche prima della rivoluzione industriale, sia il tema centrale della vita dell’uomo. Ne determina i comportamenti, le abitudini, influenza la società nel suo evolversi e ne modifica gli scenari (cioè l’habitat, come ad esempio, con il cambiamento del rapporto dimensionale e sociale tra città e campagna).
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Sono abituato a lavorare con e nello spazio. Descrivere e interpretare uno spazio costruito intorno a un’identità che si riconosce in un marchio di fabbrica o in un processo produttivo è per me un approccio naturale che può consentire una scelta narrativa oppure simbolica, e che porta spesso a rivelare aspetti imprevedibili e interessanti.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Fin da bambino, e ancora oggi, l’elicottero ha eccitato la mia fantasia. Mi ha sempre incuriosito immaginare quello che c’era all’interno, nascosto sotto la carrozzeria, scoprire le migliaia di cavi, aggeggi, ingranaggi, scoprire l’architettura del motore, la qualità della meccanica e la sua forma ed estetica, ma soprattutto mi domandavo come facesse quella massa metallica di diverse tonnellate a sollevarsi nel cielo e danzare e muoversi con sorprendente agilità. Il cinema, poi (da Apocalypse now al recentissimo Avatar) ha dato il suo contributo alla creazione del mito, anche se, purtroppo, portatore di violenza e aggressività.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
In tutta la mia carriera ho privilegiato l’interesse per lo spazio, mi sono impegnato a osservare e a riprendere quello che mi sta intorno scegliendo dei punti da cui lanciare lo sguardo. In questo lavoro, accanto a qualche immagine d’insieme che corrisponde a questa mia tradizione, cioè la visione dell’interno, ravvicinata e materica. Un vero tavolo operatorio dove l’anatomopatologo della documentazione-visione prende atto di ciò che sta scoprendo e lo rappresenta anche attraverso una scelta estetico-compositiva oltre che rivelatrice-informativa.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Apparentemente, a parte la descrizione dello spazio nei vari comparti produttivi della fabbrica, questo potrebbe sembrare un progetto ai margini del mio lavoro, tradizionalmente dedicato alla città e al paesaggio urbano, se non ci fossero stati, nei trent’anni della mia attività, frequenti incursioni nell’industria produttivamente attiva e in anni più recenti in ordine con gli eventi epocali, anche nell’industria dismessa.
GIANNI BERENGO GARDIN. Italvapore, Pistoia
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l´Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il tema del lavoro è ricorrente nella mia attività, presente in forme molto diverse. Ho fotografato tante categorie di lavoratori, dagli operai nelle fabbriche alle donne che lavorano in casa, dunque il tema di quest’iniziativa si è inserito benissimo in una ricerca che porto avanti da molti anni.
Quali riflessioni sono scaturite dall´impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l´attenzione su un unico tema all´interno di una problematica così complessa?
Ho scelto di fotografare un tema che mi pareva interessante e curioso, che riguarda il restauro delle vecchie locomotive ferroviarie.
Com´è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L´argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Qualche tempo fa avevo fatto un servizio fotografico sulla linea ferroviaria della Porrettana, che va da Porretta a Pistoia. In quell’occasione ho conosciuto un gruppo di ragazzi che fanno parte di un’associazione no profit, che restaurano le vecchie locomotive in disuso perché possano essere riutilizzate per manifestazioni di carattere storico o commemorativo. Sono persone molto dedite, che lo fanno per passione e non per denaro. Così ho fatto un viaggio apposta per fotografarli mentre lavoravano nei loro capannoni a Pistoia, dove ci sono una trentina di locomotive.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho ripreso le ruote giganti, le caldaie delle locomotive a vapore, i vari processi di manutenzione dei mezzi: un mondo interessante che sta scomparendo.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all´interno della tua poetica?
Ho voluto dare un segnale forte, che riguardasse il passato dell’Italia attraverso la ferrovia, e il presente di un gruppo di persone che vogliono ricostruire un pezzo di storia che tra qualche anno non esisterà più.
LUCA CAMPIGOTTO. Piaggio, Pontedera
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso il lavoro?
Mi occupo da sempre di fotografi a per le aziende, l’interesse per questo incarico è stato immediato. Fotografare le strutture industriali, le macchine, i grandi impianti è sempre stata una mia passione. Soprattutto, mi interessava partecipare a un’iniziativa che ha una curatela e dove sono coinvolti autori che stimo.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
La documentazione del mondo del lavoro è un tema talmente vasto che può essere affrontato solo focalizzandosi su aspetti specifici.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
È stato interessante avere a che fare con la linea di produzione della Vespa. Mi sono concentrato sull’ambiente, com’è mia abitudine, fotografando lo spazio nel suo complesso e la catena di montaggio.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho scelto di fare delle riprese panoramiche per dar conto dell’insieme, dell’atmosfera complessiva della fabbrica, che trovo sempre evocativa, facendo in modo che la silhouette iconica della Vespa si distinguesse con chiarezza. Mi interessava veder emergere la forma inequivocabile di un “mito” dal caos dell’ambiente produttivo, che ho rappresentato parzialmente mosso cercando di dare un senso di frenesia all’immagine. Le moto, invece, sono perfettamente a fuoco, nitidissime nell’alta definizione del loro rosso.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Da anni lavoro e stampo in digitale per fruire delle potenzialità di postproduzione dell’immagine. Il digitale ha aperto strade un tempo inimmaginabili e mi permette di sperimentare meglio la mia visione. Con il computer posso calibrare la luce di un’immagine, trovare il mio colore, dissolvere i colori nel bianco e nero. Ho praticato a lungo una sorta di rigore purista per imparare una disciplina della visione. Oggi sento il bisogno di contaminare gli ambiti di cui mi occupo: ho iniziato a fare dei progetti dove la scrittura interagisce con la fotografia, mi sono affacciato al video. Il mio immaginario lavora meglio, e mi sento più libero.
LORENZO CASTORE. Ritratti
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Avevo già sentito parlare del centenario di Confindustria. Mi aveva sorpreso, non credevo avesse cent’anni. Mi è sembrato subito un argomento interessante perché Confindustria, oltre a essere l’organo della classe dirigente italiana, ha anche accompagnato la storia moderna del Paese passando attraverso la fine della monarchia, due guerre mondiali, il fascismo e la storia repubblicana fino a oggi. Volevo fotografare gli industriali nei loro salotti, dove si ricevono gli ospiti. Sono ambienti che dicono molto della persona che li abita, della sua storia personale, delle sue tradizioni familiari legate alle origini sociali, geografi che e di destino.
Con eccezioni. Quindi è stata un’idea che ho cominciato a sviluppare per conto mio, l’incarico è arrivato dopo.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
L’idea è semplice. Si parla di una classe sociale che rappresenta un élite e il motore economico di uno dei Paesi per definizione industrializzati. È composta da membri di famiglie dell’industria aristocratica e storica, dalla borghesia che si è reinventata o che ha sviluppato le proprie attività fino a dar loro una connotazione industriale e da chi ha costruito qualcosa dal nulla. L’Italia è un Paese composto da forze e storie molto differenti, che hanno tutte concorso allo sviluppo e alla formazione dell’identità di uno Stato relativamente giovane. Parallelamente a queste considerazioni e a questo approccio storico-antropologico ci sono stati gli incontri: persone che mi hanno aperto le porte della loro casa, tra un appuntamento e l’altro, che hanno trovato il tempo, che si sono fidati della mia presenza. C’è un’idea e poi ci sono persone in carne e ossa, con i loro pensieri, impegni, problemi, urgenze. Loro e la loro storia, che è anche un po’ la nostra, e le mie visite un dato giorno sono il soggetto di queste fotografie.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
La decisione di affrontare il tema da questa prospettiva è stata immediata. È stata la prima cosa che mi è venuta in mente e nel tempo mi è sembrata sempre più convincente e interessante.
Poi si è trattato di decidere un canone: un lavoro del genere aveva una necessità di rigore, sia nella scelta dei soggetti che del linguaggio visivo. Non conoscendo le persone che avrei incontrato ho deciso di fotografarle da una certa distanza, come parte di un interno. Poiché l’idea iniziale si basa su un concetto molto preciso, ho cercato di mettermi nella condizione più aperta possibile alla sorpresa e all’imprevisto affidandomi alla luce naturale e all’incognita dell’ambiente e della fisionomia dei soggetti. Quando si pratica la fotografi a con un eccesso di confidenza, come ogni altra cosa, c è il rischio che diventi noiosa per chi la fa e per chi la guarda. Non posso pretendere di avere con un soggetto che non conosco una confidenza che non ho. Quindi per riuscire a dire qualcosa era importante essere credibile. L’intenzione non è stata fare agiografi a ma tentare di dire qualcosa. C’è un’idea e c’è un’esperienza, non tesi prestabilite da dimostrare.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Per me la fotografia è un mezzo, non il fine del mio lavoro. La ricerca estetica senza contenuto conta molto poco. Questa è una serie nella quale il canone estetico è unico e radicale: un soggetto che fa parte di una specifica categoria sociale ritratto a distanza nel suo ambiente domestico.
Ma è funzionale all’idea di un’implicazione antropologica e storica che tuttavia sarebbe nulla senza l’esperienza diretta, senza l’umore del tempo passato insieme. Che sono un’incognita ma anche l’aspetto più eccitante e misterioso di un incontro e della fotografi a in sé.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Cerco di lavorare a quello che mi piace nel modo che mi piace: credo che questo voglia dire cercare di essere me stesso e di vivere nel più profondo senso del termine. Di per sé un’impresa molto difficile che richiede tutta la mia energia migliore. La fotografia per certi versi può essere assimilata alla letteratura: ci sono tanti modi di scrivere e tante cose di cui scrivere: può essere un racconto, una poesia, un saggio, un testo scientifico, un romanzo, una lettera
d’amore, un diario e cosi via, a seconda di cosa si vuole comunicare e come. E la stessa persona secondo le circostanze scriverà in modo diverso utilizzando il linguaggio che sentirà più vicino a quello che ha da dire al destinatario delle sue parole. Quando si fotografa qualcuno c’è un’interazione personale immediata, si è comunque in due. Mi interessa tutto quello che crea tensione, il grande che contiene il piccolo, il bene che contiene il male e viceversa, la lotta tra gli opposti per creare dubbi, dare da pensare, smuovere qualcosa. Questo è un impegno che mi impedisce di preoccuparmi di valutare volta per volta quello che faccio in relazione alla mia eventuale poetica, che comunque dovrebbero essere gli altri a prendere in considerazione. Cerco di fare quello che devo fare e farlo meglio, con la speranza che il mio lavoro conservi una energia speciale più che il rispetto di un canone estetico.
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GIORGIA FIORIO. Rive d’Italia
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l´Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Avendo trascorso gli ultimi vent’anni all’estero, in un numero dimenticato di Paesi lontani, l’opportunità di lavorare sull’Italia contemporanea corrispondeva a un irrinunciabile desiderio di porre a confronto la memoria dell’immaginario con il presente reale.
Quali riflessioni sono scaturite dall´impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l´attenzione su un unico tema all´interno di una problematica così complessa?
In un’idea prospettica dell’Italia vista “da fuori” ho immaginato di visualizzarne “l’espressione geografica”, l’orizzonte di quei confini naturali che la determinano. Così, avendo realizzato un lavoro sui confini del Nord che corrono da Est a Ovest erti di vette e di rocce, ho desiderato proseguire il tracciato del mio percorso lungo le Rive d’Italia: da Trieste a Ventimiglia, passando da Sud.
Com´è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L´argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Nello stesso istante in cui ho concepito questo lavoro intorno al perimetro della Penisola, ho pensato all’orizzonte del mare, a come, via via lungo le coste Italiane, sembri scendere e salire, avvicinarsi e allontanarsi sulla linea dello sguardo. Ho pensato a quanto diversi tra loro siano di fatto i mari d’Italia e non soltanto per come diversamente appaiono dentro agli occhi, ma per tutto ciò che rappresentano da un punto di vista storico, economico, sociale e nell’immaginario popolare. Mi è parso che, proprio come “tutta l’Arte è stata contemporanea”, quel mare di cui l’Italia si cinge in un cerchio immutabile, sia assolutamente inscindibile dalla realtà contemporanea in cui s’iscrive.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Il nostro sguardo è il primo confi ne con il mondo ed è sempre un confronto, così la fotografi a: si trattava dunque di porre la contingenza del reale dinanzi alla visione immaginaria. Il mare del mito, il mare delle vacanze, il mare dei pescatori, il mare dei marinai, il mare dell’industria, il mare della storia… L’idea dei diversi mari d’Italia, su cui ognuno di noi proietta un diverso immaginario visuale, concretamente ognuno dinanzi al mare di ogni riva che ho fotografato, quello dell’ora di quell’istante. La velocità del vento sulle onde un giorno di tempesta sotto Latina; un pomeriggio di novembre la temperatura dell’acqua nel porto di Brindisi; la trasparenza del cielo di mezzogiorno sferzata sulle rotaie di un litorale Adriatico, la riga di spuma che scivola sulla sabbia un mattino prima dell’alba, l’immota lacustre compattezza del golfo di La Spezia dopo la pioggia…
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all´interno della tua poetica?
Le fotografi e in quanto confronto non sono mai risposte bensì domande – aperte – posate sul mondo che osservo. Per ognuno che guarda le mie fotografi e, come per me che racconto, ognuna è una diversa domanda e un diverso confronto con il reale. Rive d’Italia rimane un lavoro – in corso – che ancora m’interroga e interroga il territorio dell’immaginario e la realtà del mio Paese a centocinquant’anni dalla sua nascita.
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SIMONA GHIZZONI. Cura dei Disturbi Alimentari
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
L’idea di riflettere sull’importanza del lavoro in Italia oggi, in un momento in cui di lavoro, o della sua mancanza, si parla quotidianamente, mi ha fatto accettare subito la proposta. Mi è stata data la possibilità di trattare un tema che mi è molto caro, la cura dei disturbi dell’alimentazione. Il lavoro svolto dai tre centri che ho visitato in Italia (il centro di riferimento per la cura e la riabilitazione dei disturbi del comportamento alimentare e del peso ASSL 10 di Portogruaro, la Residenza Palazzo Francisci di Todi e il Centro G. Gioia di Chiaromonte) è difficile e fondamentale. Si tratta di centri pubblici guida per la cura dei disturbi del comportamento alimentare, che ogni anno aiutano decine e decine di ragazze e ragazzi a uscire da una malattia invalidante e in alcuni casi mortale.
Quali riflessioni sono scaturite dall impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Non credo ci sia un altro modo per affrontare un tema vasto come il lavoro in Italia se non partendo da piccole storie, che diventino emblema e affresco della situazione di oggi. La cura dei disturbi dell’alimentazione è parte della storia della sanità in Italia, e di come si stia adeguando a nuove malattie da affrontare. Fino a dieci anni fa non esistevano centri per il trattamento residenziale dei disturbi del comportamento alimentare, quindici anni fa le medicine che servivano per la cura di questo tipo di disturbi non erano nemmeno mutuabili. Oggi finalmente la sanità pubblica inizia a prendersi cura dei casi più gravi all’interno di centri specializzati, nei quali i pazienti hanno la possibilità di iniziare un percorso di guarigione e di evitare la cronicizzazione del disturbo.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Da diversi anni lavoro su questo tema, ma mi sono sempre concentrata sulle singole storie delle ragazze che ho fotografato. Non avevo mai pensato veramente all’aspetto del lavoro svolto dalle équipe mediche e paramediche all’interno dei centri e alla loro relazione con le pazienti. Mi sono accorta che nel tempo questa relazione diventa molto stretta. I pazienti restano ricoverati per diversi mesi, di solito quattro, ma la regola può variare a seconda della gravità dei casi. In questo periodo le ragazze hanno un grande bisogno di figure di riferimento, che le aiutino a uscire da un pensiero ossessivo e le riportino ad avere fiducia in se stesse, e che diano loro regole, ma anche affetto. La relazione tra operatori e pazienti diventa allora qualcosa di estremamente complesso e profondo, un contatto e una fiducia che le ragazze imparano nuovamente ad avere, spesso dopo mesi o anni di isolamento assoluto dal mondo esterno.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho ritratto le ragazze, nei loro momenti di solitudine e di isolamento, perché questa è la base della malattia: la sfiducia nel mondo, la paura che il contatto possa ferire. E ho ritratto alcuni piccoli momenti di vicinanza tra loro o assieme alle operatrici, di contatto fisico, di affetto. Questa è la base della guarigione e quindi del lavoro, quasi invisibile, che si svolge lentamente dentro i centri.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Il filo rosso della mia ricerca fotografica riguarda la condizione della donna, e ho sempre desiderato raccontarla anche nell’Italia di oggi. Per questo ho iniziato a occuparmi di disturbi dell’alimentazione, così come di violenza domestica. Considero il lavoro prodotto per questa iniziativa come un capitolo della mia ricerca, sotto un angolo leggermente diverso, ma che rientra nelle finalità del mio lavoro, che sono far comprendere e rispettare una malattia troppo spesso associata a un capriccio da adolescenti e che invece coinvolge persone di tutte le età e rivela un disagio profondo.
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DAVIDE MONTELEONE. Ducati Factory
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il racconto per immagini e la documentazione del lavoro si iscrivono nella tradizione del fotogiornalismo e della fotografi a documentaria, la stessa che porto avanti da quando ho intrapreso questa professione. Molto è cambiato nell’ambito del lavoro nell’Italia contemporanea: le tecnologie, lo sviluppo, la creatività. Ho colto l’occasione di questo progetto per aggiungere un piccolo tassello alla documentazione dell’Italia di oggi dal punto di vista del lavoro, che è alla base dello sviluppo dell’economia e della società di ogni Paese.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Il racconto per immagini parte spesso da una piccola storia che possa essere esempio di molte altre. Applico questo principio a ogni progetto: seleziono un soggetto, elaboro un linguaggio e lo realizzo perché possa trasmettere il messaggio che intendo comunicare. Il tema del lavoro è pieno di sfaccettature: la condizione dell’uomo, lo sviluppo tecnologico, gli aspetti sociali, l’innovazione...
Per questo è difficile racchiudere in un solo progetto tutti questi aspetti e riuscire a ritrarne almeno uno era l’obiettivo che mi prefiggevo. Uno sguardo particolareggiato su un mondo complesso che possa far scaturire curiosità e domande più che dare risposte.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Ho scelto innanzitutto un soggetto per cui avevo una curiosità personale, un elemento fondamentale per realizzare un buon lavoro. All’interno dei miei interessi ho poi selezionato un’azienda che potesse rappresentare l’eccellenza italiana e il processo di produzione. Ero interessato al processo produttivo, alle fasi di lavoro che grazie alla creatività, all’ingegno e al know how permettono a un’azienda di creare, in un modo quasi artigianale, un prodotto tecnologicamente avanzato e rinomato nel mondo.
È proprio su questo processo che ho tentato di focalizzare la mia attenzione attraverso immagini che ritraessero l’azione della creazione, del montaggio, della nascita del prodotto.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ero affascinato dal processo di montaggio dei diversi componenti che porta alla realizzazione di una motocicletta, dai vari elementi alla padronanza nel metterli insieme fino al risultato finale, con l’ausilio della maestria, dell’esperienza e della passione. Ho tentato di riportare questo processo anche nella scelta espressiva, e ho deciso di comporre anch’io ogni immagine attraverso l’assemblaggio di due o più fotografi e. Ho composto questi elementi seguendo il processo cronologico della catena di montaggio, per sottolinearne appunto l’aspetto più significativo.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Mi spingo normalmente in paesi lontani per stimolare la mia espressività e soddisfare le mie curiosità. Nondimeno in questo caso, sia pure nel mio Paese e affrontando un tema non particolarmente vicino alle mie consuetudini professionali, ho applicato l’esperienza del lavoro fatto fino a oggi prendendomi la libertà di sperimentare tecniche espressive che mi saranno certamente utili in futuro. Credo che la costruzione di una poetica sia il frutto di tentativi, curiosità e riflessioni: un processo in continuo sviluppo. La fotografi a è uno strumento eccellente per elaborare questo processo, perché dà la possibilità di misurarsi con tematiche diverse e situazioni sempre varie, e per questo non può che essere di stimolo allo sviluppo di un linguaggio e di uno stile che possa divenire personale.
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MARIO GUERRA. Materia e Memoria, Carrara
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il mio profilo professionale è maggiormente legato alla fotografi a industriale e pubblicitaria, e quindi l’occasione di raccontare l’Italia contemporanea attraverso una visione libera e personale mi è sembrata stimolante.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
La mia scelta è indirizzata verso la relazione tra materia e memoria, legata alle cave di marmo di Carrara, sulle Alpi Apuane. Una tradizione antica, che ha permesso la nascita di tanti capolavori realizzati dai nostri artisti dal Medioevo a oggi, che ho voluto interpretare però senza trionfalismi, con un occhio all’essenza del marmo all’interno delle cave. Uno sguardo intimo, minimale, che esplora la natura del materiale e la sua duttilità.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Ho voluto proporre un’immersione dentro i segreti del mondo minerale, senza eccedere nella narrazione, ma puntando verso una dimensione estetica ricercata attraverso un vocabolario essenziale.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho lavorato al progetto alcuni mesi, e ho trascorso a Carrara quattro giorni intensi, a camminare all’interno delle cave per osservare la vita che vi si svolgeva. Un mondo particolare, nel quale ci si può perdere, e io mi sono perso . È stata un’esperienza forte, intensa, a tratti rischiosa. Necessaria per poter cogliere l’anima del marmo, le tracce infinitesimali della sua antichissima origine, e trasmetterle con immagini intime, quasi segrete,
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Di norma non espongo in gallerie e musei, ma questa volta il progetto mi ha convinto ad accettare la sfida di raccontare un universo monumentale e complesso come le cave di marmo attraverso dettagli quasi invisibili a occhio nudo, simili a paesaggi interiori, che vivono di sfumature, imperfezioni e tracciati impercettibili come quelli dell’animo umano.
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MIMMO JODICE. Campi Flegrei
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Il progetto di Confindustria è interessante per l’attenzione che mostra per i mutamenti delle nostre città, delle periferie, dell’ambiente. Un riferimento alle campagne fotografi che fatte dagli Alinari e da Broggi nel secolo passato. Dove non solo le città e i loro mutamenti sono stati oggetti di studio, ma anche ciò che non era contemporaneo in quel momento e che tuttavia faceva parte del tessuto storico della nazione.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Per questa ragione mi è sembrato giusto rivolgere la mia attenzione all’archeologia. Trovo che tale scelta sia pregnante, perché per me è importante il nostro rapporto con il passato. Penso che il nostro futuro non avrà basi solide se non terremo conto del nostro passato.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari? Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Ho scelto di lavorare nella zona occidentale della città di Napoli, i Campi Flegrei. Non posso dire che sia un luogo poco conosciuto ma è certamente poco frequentato. In questi luoghi, di straordinaria ricchezza archeologica, si continua a lavorare molto per la loro conservazione e fruibilità. Chi conosce il mio lavoro sa che nasce seguendo un progetto: in questo caso volevo mostrare la grande bellezza dei luoghi in modo semplice, con il mio solito bianco/nero e la
mia tecnica abituale.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
I siti archeologici non sono mai stati luoghi morti per me. Essi sono spazi in movimento, ricchi di colore, di voci e di personaggi, con i quali dialogo e parlo del presente e del futuro.
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FERDINANDO SCIANNA. Petrolio in Val D’agri
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l’Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
Di mestiere faccio il fotografo. Mi è sembrata una buona proposta professionale.
Quali riflessioni sono scaturite dall’impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l’attenzione su un unico tema all’interno di una problematica così complessa?
Grosso tema, poche immagini. Questa laconicità mi è sembrata stimolante.
Com’è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L’argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Sapevo di questa importante impresa industriale in Basilicata. Mi pareva che fosse poco nota. La ragione che soprattutto mi ha spinto a sceglierla è la curiosità. La mia tecnica narrativa è la stessa da quasi cinquant’anni. Vado in un posto e cerco di mostrare al meglio quello che ho visto e capito.
Attraverso quali modalità espressive hai sviluppato il tema?
Io sono un fotografo-fotografo. Lo so che adesso per fare capire quello che faccio bisogna che lo ripeta due volte. Speriamo di non arrivare a tre. Le modalità espressive sono quelle di sempre: racconta e non fare il furbo.
In che maniera e con quali implicazioni questo progetto si inserisce all’interno della tua poetica?
Le poetiche le hanno gli artisti. Se le hanno. E le definiscono gli altri. Che uno se le dichiari da solo lo trovo imbarazzante. Quando non comico. Io, poi, non sono per nulla un artista. Faccio il fotografo.
“Secondo alcune leggende tramandate e testimoniate le popolazioni lucane assistevano fin dal XV secolo al manifestarsi di lingue di fuoco sui monti dell’Appennino; si trattava del fenomeno delle “fiaccole” che segnavano il bruciare del metano che fuoriusciva dalla terra.
Ancora oggi, in alcuni punti del Rio del Cavolo, un affluente destro dell’Agri, che scorre ad ovest di Tramutola, si possono vedere piccole sorgenti dalle quali, assieme all’acqua, escono con una certa frequenza bollicine di gas idrocarburi e gocce più o meno grandi di petrolio semileggero, di colore bruno ambraceo. Così comincia la storia del gas e del petrolio della Basilicata.
Che là sotto ci fosse petrolio lo si scoprì tanto dopo, all’inizio del ‘900. Ma è grazie all’intuizione di Enrico Mattei che negli anni ‘60 comincia l’avventura dell’energia in Basilicata. Prima con il gas trovato nella Val Basento e la raffineria di Pisticci. In tempi recenti con il petrolio della Val d’Agri.
Oggi da quei pozzi si estraggono 100.000 barili di greggio al giorno, il dieci per cento del fabbisogno nazionale. Una grande realtà che è anche una grande avventura tecnica e industriale.
In quella terra convivono ancora realtà in sostanziale contraddizione.
A Tramutola si vedono ancora molte donne chine alla sorgente a lavare i panni a mano. Il sapone in superficie assomiglia un poco alle gocce di petrolio che affiorano poco lontano sul Rio Cavolo.
A pochi chilometri i pozzi di petrolio, la terra attraversata dai tubi che convogliano il greggio al centro oli di Viaggiano, che illumina la notte come una speranza di diverso futuro.”
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MASSIMO VITALI. Metropolitana, Roma
Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto ad aderire al progetto di raccontare per immagini l´Italia contemporanea attraverso lo sviluppo e il lavoro?
I percorsi dei fotografi sono sempre complessi e contraddittori. Sarebbe bello poter rispondere con precisione alle tue domande ma considero inerente alla fotografi a un aspetto ambiguo e sfuggente.
Quali riflessioni sono scaturite dall´impostazione del progetto? Cosa ha significato focalizzare l´attenzione su un unico tema all´interno di una problematica così complessa?
Il tempo dedicato alle riprese all’interno dell’anno è per me relativamente limitato e questo tempo si divide ulteriormente in lavori vari, commissioni e ricerca personale.
Com´è avvenuta la selezione del tema del tuo contributo? L´argomento ha determinato dinamiche e tecniche narrative particolari?
Ero interessato ai cantieri della metropolitana di Roma ma stavo cercando di far tornare i conti dato che non sono proprio abituato alla foto di architettura. Mi sembrava comunque di fotografare un’operazione chirurgica a cuore aperto nella città. I tagli dei cantieri fanno apparire il tessuto della media periferia romana. Questo aspetto mi è sembrato interessante. Quasi un cantiere di un archeologo che tagliando rivela le stratificazioni della storia.
06
ottobre 2010
Cento anni di imprese per l’Italia. Immagini e sguardi d’autore
Dal 06 ottobre al 14 novembre 2010
fotografia
Location
MUSEO DELL’ARA PACIS
Roma, Lungotevere In Augusta, (Roma)
Roma, Lungotevere In Augusta, (Roma)
Biglietti
Intero € 8; Ridotto € 6
Orario di apertura
da martedì a domenica 9–19 ingresso consentito fino alle ore 18
Vernissage
6 Ottobre 2010, ore 19
Sito web
www.centenarioconfindustria.it
Editore
24 ORE CULTURA
Ufficio stampa
ZETEMA
Autore
Curatore